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Digiuno intermittente, ecco come può proteggere da infiammazione

Cosa dice la scienza sulla restrizione calorica, studio svela meccanismo che attiva effetto scudo

Due persone a dieta

Tutti pazzi per il digiuno intermittente. L'ultimo a finire sotto i riflettori dei media per questa pratica alimentare è il primo ministro britannico, Rishi Sunak, che osserverebbe lo schema di astenersi dal cibo per 36 ore a settimana. In Italia l'immunologa Antonella Viola ci ha scritto persino un libro, dopo aver raccontato di condividere questa pratica con il marito.

E la lista degli 'endorsement' vip è ancora lunga, dal frontman dei Coldplay, Chris Martin, al longevo presidente e fondatore dell'Istituto Mario Negri, Silvio Garattini, 95 anni, che parla per la precisione di abitudine alla restrizione calorica. Ma cosa dice la scienza sul digiuno? Proprio in queste ore è uscito un nuovo studio che indaga sul suo potenziale effetto protettivo. A firmarlo, neanche a farlo apposta, scienziati britannici, dell'University of Cambridge, con colleghi Usa.

Lo studio

Gli autori del lavoro, pubblicato su 'Cell Reports', spiegano che potrebbero aver scoperto un nuovo modo in cui il digiuno aiuta a ridurre l'infiammazione, effetto collaterale potenzialmente dannoso del sistema immunitario che è alla base di una serie di malattie croniche. Nella ricerca il team spiega che questo schema alimentare aumenta i livelli di una sostanza chimica nel sangue nota come acido arachidonico, che inibisce l'infiammazione, appunto.

Per i ricercatori questo potrebbe anche aiutare a spiegare alcuni degli effetti benefici di farmaci come l'aspirina. Nella comunità scientifica da tempo è noto che la dieta che si osserva - in particolare una dieta occidentale ad alto contenuto calorico - può aumentare il rischio di condizioni, tra cui obesità, diabete di tipo 2 e malattie cardiache, legate all'infiammazione cronica.

L'infiammazione è la risposta naturale dell'organismo a lesioni o infezioni, ma questo processo può essere innescato da altri meccanismi, incluso il cosiddetto 'inflammasoma', che agisce come un allarme all'interno delle cellule, innescando l'infiammazione per aiutare a proteggere il nostro corpo quando percepisce danni. Ma l'inflammasoma può 'accendere' l'infiammazione in modo involontario: una delle sue funzioni è quella di distruggere le cellule indesiderate, il che può provocare il rilascio del contenuto della cellula nell'organismo, dove innesca l'infiammazione.

"Ciò che è diventato evidente negli ultimi anni - spiega Clare Bryant del Dipartimento di medicina dell'ateneo di Cambridge - è che un inflammasoma in particolare, Nlrp3, è molto importante in una serie di malattie come l'obesità e l'aterosclerosi, ma anche come l'Alzheimer e il Parkinson, patologie delle persone di età più avanzata, in particolare nel mondo occidentale".

Il digiuno può aiutare a ridurre l'infiammazione, ma il motivo ancora non è chiaro, puntualizzano gli scienziati. Per contribuire a rispondere a questa domanda, il team guidato da Bryant e colleghi dell'università di Cambridge e dei National Institutes of Health (Nih) negli States ha studiato campioni di sangue di un gruppo di 21 volontari, che hanno mangiato un pasto da 500 kcal e poi hanno digiunato per 24 ore prima di consumare un secondo pasto da 500kcal. Il team ha scoperto che limitare l'apporto calorico aumenta i livelli di un lipide noto come acido arachidonico. I lipidi sono molecole che svolgono ruoli importanti come immagazzinare energia e trasmettere informazioni tra le cellule. Non appena le persone riprendevano il pasto, i livelli di acido arachidonico diminuivano. Quando i ricercatori hanno studiato l'effetto dell'acido arachidonico nelle cellule immunitarie coltivate in laboratorio, hanno scoperto che riduce l'attività dell'inflammasoma Nlrp3. Un'osservazione che ha sorpreso il team poiché in precedenza si pensava che l'acido arachidonico fosse collegato a un aumento dei livelli di infiammazione, e non a una diminuzione.

Questo, ragiona Bryant, "fornisce una potenziale spiegazione del fatto che cambiare la nostra dieta - in particolare attraverso il digiuno - ci protegge dall'infiammazione, o meglio dalla forma dannosa che è alla base di molte malattie legate all'alto contenuto calorico" di abitudini alimentari occidentali. "È troppo presto per dire se il digiuno protegge da malattie come Alzheimer e Parkinson poiché gli effetti dell'acido arachidonico sono solo di breve durata, ma il lavoro si aggiunge a una quantità crescente di letteratura scientifica sui benefici della restrizione calorica. E suggerisce che il digiuno regolare per un lungo periodo potrebbe aiutare a ridurre l'infiammazione cronica che associamo a queste condizioni. Sicuramente è un'idea attraente".

I risultati suggeriscono anche un meccanismo attraverso cui una dieta ipercalorica potrebbe aumentare il rischio di queste malattie. Gli studi hanno dimostrato che alcuni pazienti che seguono una dieta ricca di grassi hanno livelli aumentati di attività dell'inflammasoma. "Potrebbe esserci un effetto yin e yang in corso qui", illustra Bryant. E "l'acido arachidonico potrebbe essere uno dei modi attraverso cui sta accadendo". Per i ricercatori la scoperta potrebbe anche offrire indizi su un modo inaspettato in cui agiscono i cosiddetti farmaci antinfiammatori non steroidei come l'aspirina. Normalmente, l'acido arachidonico viene rapidamente scomposto nel corpo, ma l'aspirina blocca questo processo, il che può portare a un aumento dei livelli di acido arachidonico, che a sua volta riduce l'attività dell'inflammasoma e quindi l'infiammazione.

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Salute e Benessere

Il digiuno aiuta il cervello a restare giovane? Il nuovo...

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Scoperte cellule più sensibili al deterioramento del tempo, hanno a che fare con ormoni che controllano bisogni base tra cui la fame

Un'immagine che fa riferimento al cervello

Come invecchia il cervello? Uno studio fa luce su nuovi dettagli che rendono più chiaro l'impatto dell'età che avanza. In particolare gli autori hanno scoperto che non tutti i tipi di cellule cerebrali invecchiano allo stesso modo. Alcune più di altre subiscono importanti cambiamenti nell'attività genetica per effetto del tempo che passa. E fra queste c'è un gruppo che controlla ormoni legati a bisogni base come l'alimentazione. Tanto che gli autori del lavoro, finanziato dai National Institutes of Health (Nih) statunitensi e pubblicato su 'Nature', osservano che le nuove evidenze raccolte sono in linea con studi precedenti che collegano l'invecchiamento ai cambiamenti metabolici e con ricerche che suggeriscono che il digiuno intermittente, un dieta equilibrata o la restrizione calorica possono influenzare o forse aumentare la durata della vita.

"L'invecchiamento è il fattore di rischio più importante per la malattia di Alzheimer e molti altri devastanti disturbi cerebrali. Questi risultati forniscono una mappa molto dettagliata di quali cellule cerebrali potrebbero essere maggiormente colpite dall'invecchiamento", osserva Richard J. Hodes, direttore del National Institute on Aging, centro della rete Nih.

"Questa nuova mappa potrebbe modificare radicalmente la visione degli scienziati su come l'invecchiamento influisce sul cervello e fornire anche una guida per lo sviluppo di nuovi trattamenti per le malattie cerebrali legate all'invecchiamento", prospetta l'esperto.

Lo studio alla scoperta del cervello 'anziano'

I risultati dello studio supportano dunque l'idea che alcune cellule siano più sensibili al processo di invecchiamento e ai disturbi cerebrali legati all'invecchiamento. Nei cervelli 'anziani', spiegano gli autori, l'attività dei geni associati all'infiammazione aumenta, mentre quella dei geni correlati alla funzione e alla struttura neuronale diminuisce. Gli scienziati hanno scoperto un punto caldo specifico che combina sia la diminuzione della funzione neuronale sia l'aumento dell'infiammazione nell'ipotalamo. I cambiamenti più significativi nell'espressione genica sono stati riscontrati nei tipi di cellule vicino al terzo ventricolo dell'ipotalamo, inclusi taniciti e cellule ependimali (cellule gliali, che sostengono i neuroni), e neuroni noti per il loro ruolo nell'assunzione di cibo, nell'omeostasi energetica, nel metabolismo e nel modo in cui il nostro corpo utilizza i nutrienti. Questo, riflettono gli esperti, suggerisce una possibile connessione tra dieta, fattori legati allo stile di vita, invecchiamento del cervello e cambiamenti che possono influenzare la nostra suscettibilità ai disturbi cerebrali legati all'età.

"La nostra ipotesi è che quei tipi di cellule diventino meno efficienti nell'integrare segnali dal nostro ambiente o da cose che stiamo consumando", illustra Kelly Jin, scienziata dell'Allen Institute for Brain Science e autore principale dello studio. "E quella perdita di efficienza in qualche modo contribuisce a ciò che conosciamo come invecchiamento nel resto del nostro corpo. Penso che sia notevole che siamo in grado di trovare quei cambiamenti molto specifici con i metodi che stiamo utilizzando", rimarca.

Per condurre lo studio, i ricercatori hanno fatto ricorso a strumenti avanzati di analisi genetica sviluppati tramite The Brain Initiative dei Nih per studiare singole cellule e mappare oltre 1,2 milioni di cellule cerebrali di topi giovani (2 mesi) e anziani (18 mesi) in 16 ampie regioni cerebrali, che costituiscono il 35% del volume totale del cervello di un topo.

I topi anziani sono ciò che gli scienziati considerano l'equivalente di un essere umano di mezza età e i ​​cervelli dei roditori - precisano gli esperti - condividono molte somiglianze con i cervelli umani in termini di struttura, funzione, geni e tipi di cellule. Nello studio gli autori hanno osservato da un lato che l'invecchiamento ha aumentato l'attività dei geni associati ai sistemi infiammatorio e immunitario del cervello, così come alle cellule dei vasi sanguigni cerebrali. Dall'altro lato, i risultati hanno evidenziato una diminuzione dell'attività dei geni associati ai circuiti neuronali.

Il terzo ventricolo, finito in particolare sotto la lente, è un importante condotto che consente al liquido cerebrospinale di passare attraverso l'ipotalamo. Situato alla base del cervello del topo, l'ipotalamo produce ormoni che possono controllare i bisogni di base del corpo, tra cui temperatura, frequenza cardiaca, sonno, sete e fame. I risultati hanno mostrato che le cellule che rivestono il terzo ventricolo e i neuroni adiacenti nell'ipotalamo presentavano i maggiori cambiamenti nell'attività genetica con l'età.

Se è noto che i neuroni sensibili all'età nell'ipotalamo producono ormoni che controllano l'alimentazione e l'energia, e che le cellule che rivestono il ventricolo controllano il passaggio di ormoni e nutrienti tra il cervello e il corpo, gli esperti puntualizzano che sono necessarie ulteriori ricerche per esaminare i meccanismi biologici alla base dei risultati dello studio, nonché per cercare eventuali possibili collegamenti con la salute umana. La comprensione di questo 'hot spot' nell'ipotalamo lo rende un punto focale per studi futuri, concludono gli autori. Oltre a sapere quali cellule colpire specificamente, questo potrebbe portare allo sviluppo di terapie correlate all'età, aiutando a preservare la funzione e prevenire le malattie neurodegenerative.

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Salute e Benessere

Sanità, Tar Lazio revoca stop decreto nuove tariffe

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Richiesta presentata dal ministero della Salute attraverso l'Avvocatura dello Stato

Una corsia d'ospedale (Fotogramma)

Contrordine sulla sospensione del nuovo tariffario che doveva entrare in vigore ieri. Oggi il Tar del Lazio ha "accolto l'istanza di revoca e conferma la fissazione alla Camera di consiglio del 28 gennaio", perché "l'istanza di revoca è stata esportata al relatore intorno alle ore 11.30 del 31 dicembre" e "non si ravvisano evidentemente i presupposti per un'audizione anche informale delle parti". Così la pronuncia del Tar del Lazio, dopo che il ministero della Salute, attraverso l'Avvocatura dello Stato, ha presentato un'istanza di revoca dell'ordinanza sospensiva del Tar.

Il tribunale ha "preso atto della dichiarata gravità delle conseguenze della sospensione del decreto in esame, che determinerebbero il blocco del sistema di prescrizione, prenotazione ed erogazione, con conseguente disservizio all'utenza e ritardi nell'erogazione delle prestazioni e, in ultima analisi, con un impatto sulla salute dei pazienti".

In mezzo a questo guado burocratico rimangono i cittadini e i loro bisogni di salute. In molte regioni si stanno registrando diversi problemi, segnalati anche dai medici di famiglia, nella prenotazione di esami e visite. Ora la nuova decisione del Tar del Lazio e l'attesa per capire come andrà a finire. Un 2025 che inizia in salita. Con il nuovo decreto venivano aggiornate 1.113 tariffe associate alle prestazioni di specialistica ambulatoriale e protesica sulle 3.171 che compongono il nomenclatore, ovvero il 35% del totale. Il 2025 poteva porre fine a diverse attese: 28 anni per il nomenclatore delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e 25 anni per quello dell'assistenza protesica.

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Salute e Benessere

Monossido di carbonio, Bignami (Siaarti) ‘non si...

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Monossido di carbonio, Bignami (Siaarti) 'non si percepisce e blocca il respiro'

"Il monossido di carbonio è inodore, incolore e insapore. Non si percepisce, si diffonde e si assorbe molto velocemente, si lega più facilmente all'emoglobina al posto dell'ossigeno e arriva quindi al cervello dove riduce la respirazione perché provoca, di fatto, il blocco del respiro". Così Elena Bignami, presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti), commenta all'Adnkronos Salute gli ultimi casi di cronaca che si sono verificati nelle scorse ore nel Palermitano e a Trieste. A causa dell'intossicazione da monossido di carbonio, a Cefalù è morto un giovane turista tedesco, mentre i genitori e la sorella della vittima sono ricoverati in condizioni gravi all'ospedale di Partinico. Nel capoluogo giuliano, sempre una presunta fuga dello steso gas è costata la vita a un uomo, mentre risultano intossicate almeno altre 6 persone.

"Il rianimatore - spiega Bignami - serve per due motivi: se arriva sul posto e il paziente sta respirando ed è ancora cosciente, somministra ossigeno al 100%; se invece è in arresto cardiaco, pratica le manovre di rianimazione. In tutti i casi è fondamentale essere tempestivi e portare il paziente in un centro specialistico per la terapia iperbarica, cioè la somministrazione di ossigeno puro al 100%. Nell'aria - chiarisce la specialista - è presente al 21%", quindi si agisce in un ambiente "ad elevate pressioni i di ossigeno, 2-3 volte più del normale, per fare in modo di avere a disposizione tanto ossigeno" in grado di scalzare nel sangue il monossido di carbonio dall'emoglobina e ristabilire la corretta ossigenazione. I tempi per intervenire sono molto brevi perché il monossido di carbonio diffonde velocemente - rimarca Bignami - e può essere particolarmente pericoloso in ambienti piccoli e senza diretto accesso a uno spazio esterno".

In ogni caso, raccomanda la presidente Siaarti, è importante fare attenzione a dei campanelli di allarme di possibile intossicazione come "un improvviso mal di testa e un senso di pesantezza, di spossatezza eccessiva, in assenza di altre cause come il raffreddore" e, soprattutto, in più persone contemporaneamente. In questo caso, "la prima cosa da fare è uscire all'aperto e chiamare soccorsi".

Il trattamento tempestivo "ha prognosi, la maggior parte delle volte, favorevole - sottolinea Bignami - Più passa il tempo e più può diventare sfavorevole". La terapia in camera iperbarica, infatti, "non è di una singola seduta: può proseguire anche per settimane. Di solito c'è una restituzione 'ad integrum', si torna a quello che si era. Se il paziente è giovane e sano - precisa l'esperta - nel giro di qualche settimana tutto si risolve. Se invece il paziente è magari un anziano o già con un problema di salute, questi deficit si aggravano, perché comunque c'è stata una transitoria riduzione dell'ossigeno in tutte le cellule sullo spazio cerebrale, quindi eventuali situazioni già esistenti - conclude - peggiorano".

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