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Stipendi italiani -3,4% rispetto al pre-Covid, è il quarto calo più netto su 21 Paesi

Nel 2022 gli stipendi italiani segnavano un -3,4% rispetto al 2019, l’ultimo anno pre Covid. Il Boom economico sembrava e sembra lontano anni luce.

Quegli anni difficili ma lineari, scanditi al rassicurante ritmo di “Vola Gigino, vola Gigetto”. Gli anni in cui il Paese che guardava al futuro con speranza, confidando nel fatto che a crescere sarebbe stata tutta l’economia, a partire da quella delle famiglie.

Invece, dagli anni Novanta il giochino ha iniziato a non funzionare e mentre vola Gigino, non vola più Gigetto. Mentre i prezzi al consumo salgono, gli stipendi scendono.

Nel Belpaese i salari medi lordi nel 2019 erano pari a 46.460 dollari a parità di potere d’acquisto, mentre nel 2022 il valore è sceso sotto i 45mila. Il calo più marcato si è verificato tra il 2019 e il 2020, quando la variazione è stata pari al -4,8%.

Certamente, l’Italia non è l’unica ad aver registrato un calo dei salari rispetto al periodo pre-Covid.

Dall’analisi Openpolis sui dati Ocse emerge che in 12 dei 21 Paesi europei membri dell’Ocse i salari reali sono diminuiti tra prima e dopo lo scoppio della pandemia. Il calo maggiore si è verificato in Repubblica Ceca (-7,2%), seguita dalla Grecia (-5,9%). Mentre l’aumento maggiore si è registrato in Lettonia (+6,8%) e Lussemburgo (5,3%). L’Italia è il quarto stato membro insieme ai Paesi Bassi con il calo più pronunciato.

I salari hanno subito l’impatto della pandemia e del lockdown, e in molti casi non sono tornati ai livelli precedenti. A differenza dell’Italia, dove il calo maggiore si è registrato tra il 2019 e il 2020, negli altri Paesi il calo più marcato si è verificato tra il 2021 e il 2022. Tutti gli stati Ue membri dell’Ocse ne hanno risentito tranne la Francia (+0,4%) e l’Ungheria, dove la situazione è rimasta invariata.

Il lockdown e il lavoro

Le differenze salariali, come ricorda Openpolis, possono dipendere da anche dal tessuto la prevalenza di lavoratori in specifici settori a partire dall’incidenza del lavoro nel settore tecnologico rispetto a quello manuale, più colpito dal lockdown. La pandemia ha avuto un impatto notevole sul mondo del lavoro: secondo la banca centrale europea, si tratta del calo maggiore mai registrato. Anche questo ha decretato una riduzione della produzione e dei salari nonostante gli interventi statali volti ad aiutare le famiglie, ma anche a bloccare i licenziamenti.

La stessa Bce scrive: “L’introduzione diffusa di programmi di mantenimento del lavoro per contenere gli effetti della pandemia ha contribuito a mantenere moderate le perdite di posti di lavoro – soprattutto se confrontate con il calo del PIL – e ha influito sull’andamento delle retribuzioni del lavoro. Le misure di contenimento e gli spostamenti indotti dalla pandemia nella domanda e nell’offerta di beni e servizi hanno portato anche a dinamiche occupazionali e salariali più diversificate tra i settori”.

A 4 anni dall’esplosione della pandemia, la massa salariale è aumentata, il tasso di disoccupazione è diminuito e quello di occupazione ha superato i livelli precedenti al lockdown. L’Italia ha persino inanellato una serie di record occupazionali storici.

La grana inflazione

Se la quantità di lavoro è tornata a livelli sostenuti, lo stesso non si può dire della “qualità” del lavoro, intesa come retribuzione del tempo e delle energie impiegate dai dipendenti. Questo principalmente a causa dell’inflazione che è cresciuta a un ritmo molto più sostenuto dei salari lordi, specialmente in Italia dove i salari sono fermi dal 1991. Openpolis certifica che nel 2022 la spesa familiare per i cittadini europei ha registrato un pesante +11,5%, trainata dall’inflazione.

L’aggressione russa dell’Ucraina ha bloccato sul nascere la ripartenza: dal Covid si è passato alla guerra e alle sue conseguenze.

A livello europeo le voci maggiormente interessate dai rincari sono state, in diversi momenti, i beni alimentari, i trasporti e i costi legati alla casa (questi ultimi due riconducibili alla forte inflazione dei beni energetici nella prima fase). Queste tre voci hanno visto rincari compresi tra il 28% e il 33%. Tutte voci di spesa fondamentali per le famiglie, con i consumi italiani fagocitati proprio dalle spese obbligate.

Il tutto mentre i salari lordi, sottolinea l’Ocse, non sono tornati ai livelli pre-Covid in 12 Paesi europei su 21, Italia inclusa.

Aumentano le disparità

In questo contesto incerto, sono aumentate le differenze sia microeconomiche che macroeconomiche. Sono sempre più ampi, infatti, i gap tra ricchi e poveri e quello tra Paesi ricchi e Paesi meno ricchi.

I dati Ocse evidenziano che le disparità di reddito medio lordo tra i Paesi europei sono più evidenti nel 2022 rispetto al 2019.

Le differenze di salario medio reale tra Stati si sono ampliate.

Lo stato in cui si registravano i valori più elevati (il Lussemburgo) ha registrato un incremento del proprio salario medio annuo pari al 5,3%. Mentre la Grecia, il Paese membro con il dato più basso, ha riportato un calo del 5,9%. La distanza tra questi due stati si è ampliata e oggi in media i lussemburghesi guadagnano 3 volte rispetto i greci. Una differenza di oltre 52mila dollari che nel 2019 era di meno di 47mila.

I dati si riferiscono ai salari medi nel 2022, nei paesi europei membri dell’Ocse (escludendo quindi Romania, Bulgaria, Croazia, Malta e Cipro), mentre mancano i dati dell’Irlanda.

Il Lussemburgo è quindi il Paese Ue con i salari medi annui più elevati: quasi 80mila dollari nel 2022, seguito da Belgio, Danimarca, Austria e Paesi Bassi con valori superiori ai 60mila dollari. Ultimi invece i paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, in particolare Grecia, Slovacchia e Ungheria con cifre inferiori ai 30mila dollari l’anno. L’Italia, con un valore di circa 45mila, è undicesima in Europa e sui 21 Paesi analizzati è, insieme all’Olanda, il quarto Paese con il calo salariale più pronunciato rispetto al pre-Covid.

Uno scenario che viene aggravato e aggrava a sua volta la crisi demografica, con sempre più giovani in difficoltà davanti all’idea di dover mantenere un figlio. Non a caso, gli italiani sono tra i più stacanovisti d’Europa, e uno su dieci lavora almeno 49 ore a settimana. Per molti, si tratta dell’unico modo per restare a galla e avere una prospettiva di futuro. Uno sforzo creativo per credere ancora che se vola Gigino, alla fine, volerà anche Gigetto.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Pma (quasi) gratuita in tutta Italia. Ticket da 100 a 300...

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Provetta e ecografia neonato

Dopo una lunga battaglia e diversi mesi di attesa, la procreazione medicalmente assistita è diventata (quasi) gratuita in tutta Italia. Dal 1° gennaio 2025, infatti, la Pma è entrata nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), diventando finalmente accessibile a tutte le coppie italiane a costi ridotti.

Questa decisione non solo uniforma l’accesso alla Pma su tutto il territorio nazionale, ma rappresenta anche una risposta concreta a un problema sociale di ampie dimensioni: il calo della fertilità.

Il percorso per giungere a questo traguardo è stato tutt’altro che lineare. Inizialmente prevista per il 2024 (prima a gennaio, poi ad aprile), l’inclusione nei Lea è stata rimandata di un anno a causa di ritardi burocratici, divergenze politiche e difficoltà legate alla riorganizzazione delle risorse sanitarie.

Pma, quanto costa adesso?

I Lea definiscono le prestazioni sanitarie essenziali che ogni cittadino ha diritto di ricevere gratuitamente o dietro pagamento di un ticket uniforme su scala nazionale. Fino a oggi, la Pma è rimasta fuori dai Lea, costringendo molte coppie a sostenere autonomamente spese considerevoli, con trattamenti che potevano costare oltre 5.000 euro a ciclo.

Dal nuovo anno la fecondazione omologa e quella eterologa (resa legale in Italia dopo una sentenza della Consulta del 2014) rientrano nei Lea insieme ad altre attività sanitarie, come la consulenza genica, l’adroterapia e varie prestazioni per chi è affetto da malattie rare.

Con l’inclusione nei Lea, le coppie potranno richiedere alla propria Regione di appartenenza di accedere alla Pma con il pagamento di un ticket che oscilla tra 100 e 300 euro, a seconda del trattamento. Le nuove regole fissano anche limiti precisi:

  • Le donne potranno accedere ai trattamenti fino a 46 anni;
  • Saranno consentiti un massimo di sei tentativi per coppia.

Nonostante queste previsioni siano considerate un progresso, il rimborso previsto per le strutture convenzionate – 2.700 euro per l’omologa e 3.000 euro per l’eterologa – è ritenuto insufficiente dagli operatori.

Pma gratuita: il dibattito politico e sociale

Il ritardo nell’inclusione della Pma nei Lea è stato oggetto di accese discussioni. L’approvazione iniziale, prevista per il 2024, è stata rinviata a causa della complessità del coordinamento tra le regioni e il governo centrale. Le differenze tra le varie realtà territoriali, in termini di disponibilità di risorse e centri attrezzati, hanno alimentato il rischio di creare disparità nell’accesso ai trattamenti.

Organizzazioni per i diritti delle donne e associazioni che si occupano di infertilità hanno sottolineato la necessità di garantire l’effettiva applicazione delle nuove norme. In particolare, hanno richiesto maggiori investimenti per il rafforzamento dei centri pubblici, che rappresentano solo il 34% delle strutture dedicate alla Pma.

I politici favorevoli hanno definito la decisione di includere la Pma nei Lea come “un passo fondamentale verso la giustizia sociale”. Tuttavia, non sono mancate critiche, soprattutto da parte di chi teme un aumento delle liste d’attesa e una riduzione della qualità delle prestazioni.

I numeri della Pma in Italia

L’attività di Pma è cresciuta significativamente nel corso degli anni, passando dai 63.585 trattamenti del 2005 ai 109.755 del 2022 e la percentuale rispetto alle nascite totali è aumentata dall’1,22% del 2005 al 4,25% del 2022. Solo in alcune regioni, come Toscana, Emilia-Romagna e Lombardia, la procreazione medicalmente assistita era già accessibile a costi calmierati grazie a iniziative locali.

Con le nuove regole, tuttavia, molte coppie potranno finalmente evitare trasferimenti estenuanti e spese proibitive. Rimangono però importanti differenze:

  • Su 190 centri attivi in Italia, ben 107 sono strutture private che non offrono rimborsi;
  • Solo 66 sono pubbliche, spesso concentrate nel Centro-Nord, con una copertura carente nel sud e nelle isole. 17 sono le strutture convenzionate.

Il maggior ricorso alla Pma dipende anche dal fatto che si diventi madri sempre più tardi.

Anche l’età media delle donne che si sottopongono ai trattamenti di fecondazione assistita è aumentata, passando dai 34 anni del 2005 ai 37 anni del 2022. Un balzo importante si è avuto nella fascia over 40 che, in Italia, rappresentava il 20,7% degli accessi alle Pma nel 2005 ed è salito al 33,9% nel 2022.

Il numero medio di embrioni trasferiti in utero è diminuito nel tempo, passando da 2,3 nel 2005 a 1,3 nel 2022, riducendo così la percentuale di parti multipli dal 23,2% del 2005 al 5,9% del 2022. Le procedure che coinvolgono embrioni crioconservati sono invece aumentate notevolmente, passando da 1.338 nel 2005 (3,6% delle procedure) a quasi 30mila (31,1%) nel 2022. Anche il tasso di gravidanza per ogni 100 trasferimenti è aumentato dal 16,3% del 2005 al 32,9% del 2022.

Per tutti i dati: Pma, compie 20 anni la Legge 40 sulla fecondazione assistita

Il primato della Spagna

La Spagna rappresenta un caso unico a livello europeo per quanto riguarda la fecondazione in vitro, che è uno dei percorsi di Procreazione medicalmente assistita più richiesti. Da solo il Paese iberico rappresenta il 15% di tutti i trattamenti di fecondazione in vitro in Europa, più di Francia (12,9%) e Germania (11,6%). Anche in Spagna, l’innalzamento dell’età media al parto incide molto sui numeri: le madri di età superiore ai 35 anni rappresentano oggi il 40,1% del totale e con oltre, 165.000 cicli di FIV, in Spagna nascono con tecniche di medicina riproduttiva il 12% dei neonati totali, circa il triplo dell’Italia.

Oltre all’età al parto, anche l’alta qualità dei centri di riproduzione assistita, la legislazione avanzata sul tema e l’accessibilità offerta ai pazienti stranieri sono alla base del modello spagnolo. Ogni anno, migliaia di coppie si recano in Spagna per accedere alla Pma e secondo i dati dell’Instituto Bernabeu, più del 55% dei pazienti che si sottopongono a trattamenti di fertilità in Spagna sono stranieri di oltre 135 nazionalità diverse.

Prospettive future e le sfide da affrontare

Considerando l’aumento dei problemi di fertilità che si registra in Italia, l’inclusione della Pma nei Lea è un progresso significativo, ma rappresenta solo un punto di partenza. Per rendere effettiva questa riforma, sarà fondamentale:

  • Incrementare gli investimenti nei centri pubblici, per colmare il divario tra nord e sud;
  • Adeguare i rimborsi per le strutture convenzionate, garantendo sostenibilità economica e standard di qualità elevati;
  • Uniformare le normative regionali, evitando che permangano disparità territoriali nell’accesso ai trattamenti.

Sulla scia di questo progresso, il prossimo passo sarà continuare a investire in un modello sanitario più inclusivo, capace di rispondere alle esigenze di tutti, indipendentemente da dove si trovano o da quali siano le loro possibilità economiche.

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Aumenta il prezzo del tabacco, gli over 50 australiani si...

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Marijuana Canva

Per rispondere all’aumento di prezzo del tabacco, gli australiani hanno aumentato il consumo di cannabis. Non tutti, però, solo gli over 50. Il dato, per certi versi sorprendente, emerge da un recente studio pubblicato sul Journal of Population Economics dai ricercatori di The Conversation che hanno evidenziato una relazione complessa tra i prezzi del tabacco e il consumo di cannabis.

Dopo aver analizzato quasi 100.000 individui grazie ai dati del National Drug Strategy Household Survey in Australia, la ricerca ha svelato come l’utilizzo di queste due sostanze, entrambe molto diffuse, vari in base all’età, con implicazioni politiche e sociali significative.

Un cambiamento di paradigma: cannabis e tabacco, complementi o sostituti?

La connessione tra cannabis e tabacco, definite spesso “sostanze in bundle” (consumate insieme), dipende da dinamiche economiche di base. Due prodotti possono essere complementi, usati insieme, o sostituti, consumati alternativamente. Lo studio ha scoperto che, per gli australiani sotto i 40 anni, cannabis e tabacco sono complementari: un aumento del prezzo del tabacco si traduce in una diminuzione del consumo di entrambe le sostanze. Al contrario, per gli over 50, aumentare il prezzo delle sigarette di cinque euro e cannabis si comportano come sostituti: l’aumento dei costi del tabacco stimola un incremento nell’uso di cannabis.

Per gli individui tra i 40 e i 50 anni, non si evidenzia invece alcuna correlazione economica significativa tra i due prodotti.

Cannabis e tabacco: le ragioni delle differenze generazionali

Le abitudini di consumo di cannabis e tabacco variano per una serie di fattori demografici e comportamentali.

  • Giovani sotto i 40 anni: questa fascia d’età tende a consumare tabacco e cannabis in modo simultaneo, spesso combinandoli in joint o “mulled cigarettes”;
  • Fascia 40-50 anni: questa categoria mostra un comportamento neutro, senza un evidente legame economico tra le due sostanze;
  • Over 50: gli individui più anziani sono generalmente più avversi al rischio. Il loro consumo è spesso più regolato e, con l’aumento del prezzo del tabacco, tendono a sostituirlo con la cannabis.

Per loro fortuna, il nuovo Codice della strada italiano non si applica in Australia.

Implicazioni delle politiche sui prezzi

Lo studio ha simulato l’impatto di un aumento del 10% del prezzo del tabacco sulla popolazione australiana. I risultati mostrano una complessa redistribuzione nei consumi:

  • Una diminuzione netta di 240.000 consumatori di cannabis;
  • Una riduzione significativa di 340.000 consumatori sotto i 40 anni;
  • Un aumento di 68.000 consumatori tra gli over 50.

Questi risultati evidenziano come un’unica misura politica possa avere effetti opposti su gruppi demografici diversi.

Consumo di cannabis e dinamiche sociali in Australia

La cannabis rimane tra le sostanze più diffuse in Australia: nel 2023, il 41% della popolazione sopra i 14 anni ha dichiarato di averla usata almeno una volta, con 2,5 milioni di consumatori regolari. Parallelamente, il consumo di tabacco è in forte calo grazie alle rigide politiche sul prezzo e alla diffusione di campagne di sensibilizzazione, mentre cresce l’uso di sigarette elettroniche e dispositivi di vaping, in particolare tra i giovani. Uno spunto di riflessione interessante considerando la proposta di aumentare il prezzo delle sigarette di cinque euro avanzata in Italia dall’Aiom e da Panorama della Sanità.

Questo contesto socioeconomico rende urgente comprendere le interazioni tra le due sostanze per orientare le politiche pubbliche.

Che cosa insegna questa ricerca

Lo studio pubblicato da The Conversation rappresenta un importante passo avanti nella comprensione del consumo di droghe. Gli autori mettono in guardia sui possibili effetti collaterali di politiche troppo mirate a una singola sostanza. La regolamentazione del tabacco, ad esempio, potrebbe avere ripercussioni inaspettate sull’uso di cannabis, accentuando il divario generazionale nel consumo delle due sostanze.

Inoltre, la ricerca apre a riflessioni più ampie: mentre il consumo congiunto di cannabis e tabacco sembra essere un comportamento tipico dei più giovani, l’adozione di cannabis come sostituto del tabacco tra gli over 50 suggerisce una crescente accettazione sociale e culturale della cannabis come alternativa.

Verso un approccio integrato alle politiche sulle droghe

I risultati dello studio pongono una sfida alle autorità di regolamentazione, evidenziando la necessità di politiche integrate che tengano conto delle differenze generazionali. Per ridurre l’uso complessivo di sostanze, sarà fondamentale considerare le interazioni tra diverse droghe e adottare approcci diversificati, basati su dati empirici e studi interdisciplinari.

Con la popolazione australiana che evolve verso una maggiore consapevolezza sui danni delle droghe, lo studio fornisce strumenti preziosi per una governance responsabile e mirata.

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Un mese senza alcol: la sfida del Dry January (che nasce da...

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Giovani bevono birra

Ogni anno, subito dopo che le luci delle festività natalizie si spengono e il caos dei bagordi del cenone di Capodanno lascia spazio a una nuova calma, gennaio si trasforma in una vera e propria sfida. Non parliamo di saldi irresistibili, di diete drastiche o di nuovi abbonamenti in palestra, ma di un’iniziativa che riguarda il bicchiere, un cambio di prospettiva che si tinge di sobrietà. È il Dry January, o “Gennaio Asciutto”, una campagna che invita le persone a prendersi una pausa dall’alcol per un intero mese.

Cos’è che spinge un numero sempre maggiore di persone a dire “no” alla birra dopo il lavoro, al calice di vino durante la cena, o al cocktail del weekend? Non si tratta solo di salute, anche se i benefici fisici sono certamente rilevanti. Piuttosto, il Dry January è un’opportunità di introspezione, un momento per ascoltare il proprio corpo e la propria mente. Un’esperienza di autoconsapevolezza, che non impone un cambiamento permanente ma che offre l’opportunità di fare un test, quasi come un gioco, per scoprire quanto influisce veramente l’alcol sulla nostra vita quotidiana. E i risultati, nonostante la reticenza iniziale di alcuni, spesso riescono a sorprendere anche i più scettici.

Cos’è il Dry January e come è nato

Il Dry January nasce come una campagna di sensibilizzazione sull’abuso di alcol, ideata e promossa dalla benefica organizzazione britannica Alcohol Change UK. Il suo scopo? Invitare tutti a una pausa dal consumo di alcol per tutto il mese di gennaio, con l’intento di stimolare una riflessione sulla relazione che ciascuno ha con l’alcol e sui benefici derivanti dall’astinenza.

Tutto ha inizio nel 2011, quando Emily Robinson, un membro di Alcohol Concern (oggi diventata Alcohol Change UK), decise di smettere di bere per un mese intero in preparazione a una mezza maratona. Durante quel periodo, Emily non solo notò i benefici immediati dell’astinenza, come un miglioramento del benessere generale e un aumento dell’energia, ma si rese anche conto di quanto fosse positivo il distacco dall’alcol, portandola a riflettere sulla propria vita. La sua esperienza scatenò l’interesse di molte persone, che la spinsero a trasformare quella che inizialmente era una sfida personale in una campagna vera e propria. Fu così che nel 2012 Emily lanciò la sua idea a livello internazionale, facendo del 2013 il primo anno ufficiale di Dry January.

Nel 2014, Alcohol Change UK registrò il marchio Dry January, dando ufficialmente vita all’iniziativa come la conosciamo oggi. Da allora, il successo è stato travolgente. Il numero di partecipanti è cresciuto esponenzialmente, passando da 4.000 nel 2013 a ben 215.000 iscritti globalmente nel 2024. E, con il passare degli anni, Dry January è diventato sempre più un’occasione di riflessione collettiva sul consumo di alcol, una vera e propria sfida che coinvolge milioni di persone in tutto il mondo.

I benefici del Dry January

Uno dei motivi principali per cui molte persone si iscrivono al Dry January è la possibilità di sperimentare un miglioramento della salute fisica. Ridurre o eliminare il consumo di alcol può avere effetti davvero sorprendenti sul nostro corpo.

Prendiamo il sonno, ad esempio: l’alcol, pur avendo un iniziale effetto rilassante, disturba profondamente il nostro ciclo del sonno, provocando risvegli notturni e una sensazione generale di stanchezza al mattino. Dopo un mese di astinenza, molti partecipanti notano una qualità del sonno notevolmente migliorata, con notti più tranquille e un risveglio più riposato.

Un altro effetto tangibile riguarda la pelle: l’alcol disidrata, e una pausa di un mese può fare miracoli. Il risultato? Una pelle più luminosa e sana, che recupera il suo naturale equilibrio. Inoltre, il corpo, privo dell’energia necessaria per metabolizzare l’alcol, può concentrarsi su attività più salutari, donando a molti una maggiore energia e vitalità. La mente, non sovraccaricata dai postumi della sera prima, risulta più chiara, consentendo maggiore concentrazione e produttività.

Tuttavia, i benefici non si limitano a questi aspetti fisici. Per molti, il Dry January rappresenta anche un’opportunità per rivedere le proprie abitudini e capire se davvero l’alcol gioca un ruolo così centrale nella loro vita sociale ed emotiva. È un mese dedicato all’ascolto di sé stessi, per esplorare i propri limiti e, magari, per rivalutare la propria relazione con l’alcol.

La spinta economica del Dry January

Dry January non è solo un fenomeno sociale, ma anche un motore per il cambiamento economico. Il mercato delle bevande analcoliche è in costante espansione, con un aumento globale del 34% tra il 2019 e il 2023, secondo un report di Global Market Insights. In Italia, diverse aziende, dai marchi storici alle start-up, stanno investendo in questa crescente tendenza, proponendo sul mercato birre analcoliche, vini senza alcol e cocktail ready-to-drink che offrono esperienze sofisticate senza gli effetti collaterali dell’alcol. La domanda è così forte che molte grandi catene di supermercati stanno ampliando continuamente le loro offerte di prodotti senza alcol, dando sempre più spazio a una “nuova normalità” nel bere.

L’impatto sociale

Ma il successo del Dry January non si misura solo nei numeri. Si tratta di un vero e proprio movimento culturale che ha il potere di stimolare una riflessione collettiva sul consumo di alcol, invitando le persone a mettere in discussione le proprie abitudini e a scoprire nuove modalità per divertirsi, rilassarsi e celebrare. Dry January diventa così l’occasione per riscoprire quanto possa essere bello vivere un mese senza dipendere da un bicchiere. Si scopre che si possono trovare altre forme di piacere, altre modalità per condividere momenti di convivialità, senza la necessità di un brindisi.

Un aspetto che sta guadagnando attenzione negli ultimi anni è l’incremento del consumo di alcol tra i giovani, con preoccupazioni crescenti sulle abitudini nocive come il binge drinking, ovvero il consumo eccessivo di alcol in breve tempo. Secondo un report Istat su dati del 2023, il 15% della popolazione di 11 anni e più consuma alcol in modo rischioso, con una prevalenza maggiore tra gli uomini (10,8%) rispetto alle donne (3,1%). Il binge drinking è particolarmente diffuso tra gli adolescenti (15,7% tra gli 11-17enni) e gli ultra-sessantenni (18,1% tra gli over-64). L’Italia, inoltre, evidenzia una maggiore prevalenza di consumo eccessivo nel Nord, dove il 18,9% della popolazione supera le soglie raccomandate, mentre tra i giovani il binge drinking rappresenta una vera e propria criticità crescente.

Secondo un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il consumo di alcol è problematico soprattutto tra gli adolescenti. Il 18% degli undicenni ha già sperimentato l’alcol, e la percentuale cresce vertiginosamente con l’età, raggiungendo il 57% dei quindicenni. In questo scenario, Dry January si presenta come un’opportunità di sensibilizzazione per combattere gli effetti negativi di queste abitudini pericolose e promuovere un comportamento più consapevole.

Concludere il mese di gennaio

Arrivati a fine gennaio, molti partecipanti al Dry January si rendono conto che i benefici fisici, mentali ed emotivi che hanno sperimentato non sono solo temporanei. Un mese senza alcol può sembrare lungo, ma i risultati si estendono ben oltre la fine del mese. La maggiore lucidità, l’energia e la sensazione di benessere possono durare molto più a lungo. Non è raro che, una volta giunti a febbraio, qualcuno decida di prolungare questa pausa o addirittura di ridurre permanentemente il proprio consumo di alcol. In effetti, molti scelgono di continuare su questa strada, avendo riscoperto un nuovo equilibrio con il proprio corpo e la propria vita.

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