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Più si è poveri, meno si vota: l’astensionismo in Italia e...

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Più si è poveri, meno si vota: l’astensionismo in Italia e in Ue

Per la prima volta nella storia, alle Europee ha votato meno di un italiano su due, il 49,69% degli aventi diritto. L’astensionismo in Italia non ha una sola risposta, ma stimola delle analisi. Prima di tutto un confronto con l’Ue, dove l’affluenza è rimasta stabile rispetto al 2019, anzi in leggero miglioramento dal 50,66% al 51% di questa tornata. Una percentuale comunque risibile se si pensa al ruolo cruciale delle elezioni europee 2024.

Parlare di astensionismo tout court sarebbe superficiale, e ci sono due tendenze che meritano attenzione:

L’affluenza degli italiani alle urne per le amministrative ha superato quella delle europee;
per le europee hanno votato di più gli italiani delle regioni ricche, mentre l’affluenza crolla tra le regioni più povere e nei piccoli centri.

Il primo punto dimostra che c’è una scelta chiara da parte degli elettori, e che l’astensionismo non è semplicemente figlio del lassismo. Se così fosse, i dati delle europee e delle amministrative sarebbero uguali, una volta arrivati al seggio, basterebbe votare per entrambe le elezioni. Se questo in molti casi non avviene, la ragione non può essere che gli italiani preferiscano il mare alle urne.

Chiaramente, il contemporaneo voto per le amministrative in oltre 3.700 comuni e delle regionali in Piemonte ha in parte migliorato il dato delle europee. Secondo le stime di YouTrend, in media nei comuni dove si votava solo per le europee l’affluenza è stata del 42,2%, mentre dove si votava sia per le europee sia per le amministrative è stata del 62,8%.

L’astensionismo in Italia e in Ue

Negli anni, sia l’affluenza media Ue che quella italiana sono calate.

Iniziata con l’82% dei votanti nel 1979, la partecipazione degli italiani alle europee è sempre calata ad eccezione del 2004 (prime elezioni con la moneta unica), quando si recò alle urne il 71,7% degli aventi diritto contro il 69,8% del 1999. L’astensionismo italiano alle europee ha avuto la sua crescita maggiore tra le elezioni del 1989 e quelle del 1994. In appena cinque anni, il Paese passò da un’affluenza dell’81,1% a quella del 73,6%. In quegli anni, la popolazione italiana fu sconvolta dallo scandalo Tangentopoli, che ha segnato la prima grande cesura tra gli italiani e la politica nella storia repubblicana. Non è un caso che il crollo record dell’affluenza si registri in quegli anni.

Nelle elezioni europee più recenti, quelle del 2019, votarono il 54,5% degli elettori italiani, un dato superiore a quello delle elezioni europee 2024, anche se cinque anni fa, in Italia, si votò solo di domenica. Anche in quella circostanza si andò alle urne anche per le regionali in Piemonte e in circa 3.800 comuni.

Spostando lo sguardo sul panorama europeo, l’astensionismo record si è registrato nel 2009 e nel 2014 con un tasso di partecipazione al voto vicino al 43% (42,97% e 42,61%), mentre il calo maggiore registrò tra le elezioni del 1994 e quelle del 1999, quando l’affluenza passò dal 56,7% al 49,5%. Dal 1999 in poi, quindi, la maggioranza assoluta dei cittadini europei ha disertato le urne.

Occorre però considerare che nel corso del periodo storico considerato l’Unione Europea si è allargata a un numero crescente di Paesi membri, ognuno con la propria tendenza più o meno forte al voto.

Alle prime elezioni del 1979 i Paesi membri erano nove: Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca e Irlanda. Dalle elezioni del 1984 si è aggiunta la Grecia (che era entrata nella Ue nel 1981), mentre alle elezioni del 1989 e del 1994 i Paesi membri erano 12, grazie all’entrata nella Ue di Spagna e Portogallo nel 1986. I Paesi membri sono poi saliti a 15 alle elezioni del 1999, dopo l’ingresso nella Ue di Austria, Svezia e Finlandia (1995).

Uno spartiacque, poi, è stato registrato nel 2004, anno del grande allargamento a Est dell’Unione. Quell’anno aderirono all’Ue ben 10 Paesi (Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta), a cui se ne sono aggiunti altri due nel 2007 (Bulgaria e Romania), arrivando ai 27 Stati membri attuali e con l’ingresso di altri Paesi all’orizzonte.

Fonte: Parlamento Europeo

L’astensionismo sale nelle regioni più povere

L’affluenza al voto in Italia continua a mostrare un trend preoccupante di diminuzione, con una partecipazione elettorale particolarmente bassa nelle regioni meridionali e insulari. Questa tendenza evidenzia la necessità di avvicinare la politica ai cittadini, soprattutto in quelle aree dove la povertà cresce e la presenza delle istituzioni diminuisce.

Come avvenuto nelle precedenti tornate elettorali, l’affluenza al voto in Italia ha mostrato marcate differenze tra le varie regioni e anche alle europee 2024, il Nord del Paese ha registrato un astensionismo molto più basso rispetto al Mezzogiorno:

Dati di affluenza per circoscrizione

Italia Nord-Occidentale: la partecipazione è stata del 55,1%;
Italia Nord-Orientale: ha votato il 54% degli elettori;
Italia Centrale: l’affluenza ha raggiunto il 52,5%;
Meridione: solo il 43,7% degli aventi diritto si è recato alle urne;
Isole: La partecipazione è stata la più bassa, con solo il 37,8%.

Confronto con le elezioni europee del 2019

Rispetto alle elezioni europee del 2019, si è osservato un generale calo dell’affluenza, con variazioni significative tra le diverse circoscrizioni:

Nord-Est: l’affluenza è diminuita del 16%;
Nord-Ovest: si è registrata una riduzione del 13%;
Centro: il calo è stato dell’11%;
Meridione: la diminuzione è stata del 10%.

In linea con i principi base della statistica, il calo è stato più marcato in quelle zone che partivano da un’affluenza più alta. Lo dimostra bene il fatto che la circoscrizione delle Isole non abbia registrato una riduzione dell’affluenza, ma partiva già da una partecipazione molto bassa nelle precedenti elezioni del 2019.

L’analisi regionale conferma in gran parte i trend: la regione con l’affluenza più alta è stata l’Umbria con il 61%, mentre quella con l’affluenza più bassa è stata la Sardegna con il 37%. La Sicilia è l’unica altra regione con un’affluenza inferiore al 40%, mentre la Valle d’Aosta è la regione del Nord con la minore affluenza 42,5%. Quindi, le tre regioni con il maggior astensionismo sono tutte a statuto speciale. Tra il 55% e il 60% ci sono Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia, mentre Marche, Veneto e Liguria hanno avuto un’affluenza tra il 50% e il 55%.

Fonte: Pagella politica su dati Ministero dell’Interno

Italia specchio dell’Ue?

La nostra analisi non può chiudersi sull’Italia, anzi ci regala uno spunto interessante guardando all’Ue: le stesse tendenze italiane sull’astensionismo si riscontrano nel resto dei Ventisette. Senza voler scomodare Tacito e la sua ‘Germania’ (che metteva in relazione la latitudine geografica alle usanze dei popoli), emerge come i Paesi dell’Europa settentrionale, che generalmente godono di un’economia più forte, hanno registrato quasi ovunque tassi di partecipazione più alti rispetto ai Paesi del Sud e dell’Est Europa.

La questione si riversa anche nelle città lungo tutta l’Ue. Nelle grandi città e in quelle più ricche si registrano cali più contenuti di partecipazione al voto e resistono i partiti più tradizionali come i progressisti e i conservatori liberali. Nei contesti rurali, invece, cresce l’astensionismo e il supporto ai partiti di estrema destra e che, più in generale, fuoriescono dalla logica del bipolarismo.

In Italia, il Movimento 5 Stelle ha superato il 20% dei voti solo in Campania e il 15% in Sardegna, Sicilia e Calabria, confermando raccogliere al Sud la maggior parte dei voti. Il partito, oggi istituzionalizzato ma nato come movimento anti-establishment, è dietro in tutte le regioni del Nord, e in Veneto, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige si è fermato non ha raggiunto il 5%.
Infine, un dato particolare viene dalla Lega. Nonostante abbia trovato voti soprattutto al Nord, il partito guidato da Salvini ha riscosso maggior successo nel Molise, dove ha raggiunto il 17% delle preferenze.

Numeri e riflessioni da tenere a mente, mentre prende forma il nuovo Parlamento europeo.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Donne, tre esami del sangue per scoprire ictus e infarto...

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Tre esami del sangue per diagnosticare il rischio di ictus o infarto di una donna fino a trent’anni prima che si verifichino. Lo studio condotto dal Brigham and Women’s Hospital di Boston, e presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia (Esc), è un grande passo avanti nel contrasto al rischio cardiovascolare delle donne. L’analisi si concentra su tre biomarcatori fondamentali, ecco come funziona.

I tre marcatori chiave per individuare ictus e infarto nelle donne

Secondo lo studio condotto su 27.939 donne statunitensi nel contesto del Women’s Health Study, il monitoraggio combinato di alcuni marcatori biologici può predire il rischio di eventi cardiovascolari in modo più accurato rispetto all’analisi di uno solo:

Proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP): questo esame misura il livello di infiammazione nel corpo. L’infiammazione, pur essendo spesso trascurata, ha un impatto significativo sul rischio cardiovascolare;
Colesterolo LDL (low-density lipoprotein): conosciuto anche come colesterolo “cattivo”, questo esame permette di valutare il rischio legato all’accumulo di grassi nelle arterie, con conseguente aumento del rischio di infarti e ictus;
Lipoproteina(a) [Lp(a)]: si tratta di una lipoproteina che gioca un ruolo cruciale nella predisposizione genetica a malattie cardiovascolari. Questo esame viene eseguito una sola volta nella vita, ma ha un forte valore predittivo.

Durante il periodo di osservazione di trent’anni, sono stati rilevati 3.662 eventi cardiovascolari importanti, come infarti, ictus o la necessità di interventi di rivascolarizzazione.

Il ruolo dell’infiammazione nella prevenzione cardiovascolare

Uno dei punti centrali dello studio condotto da Paul Ridker e dal suo team è che, sebbene abbia un peso simile a quello del colesterolo nel determinare il rischio cardiovascolare, spesso l’infiammazione non viene monitorata adeguatamente. La misurazione della hsCRP, in combinazione con gli altri due marcatori, si è rivelato un indicatore fondamentale per prevenire eventi cardiovascolari: le donne con i livelli più alti di hsCRP presentavano un rischio del 70% maggiore di subire un evento cardiovascolare significativo nei successivi trent’anni rispetto alle donne con un livello di hsCRP più basso.

In particolare, l’infiammazione ha mostrato un impatto ancora più marcato nel rischio di ictus. Le donne con i livelli più elevati di tutti e tre i marcatori avevano una probabilità 3,7 volte superiore di essere colpite da ictus nei successivi trent’anni rispetto a quelle con livelli più bassi.

Prevenzione personalizzata: perché è fondamentale agire in anticipo

La rilevanza di questa ricerca risiede nella possibilità di utilizzare questi esami come strumenti di prevenzione personalizzata. Come sottolinea Julie Buring, coautrice dello studio e ricercatrice del Brigham’s Division of Preventive Medicine, “Aspettare che le donne abbiano 60 o 70 anni per iniziare la prevenzione è una ricetta per il fallimento”. Le donne spesso sono sottodiagnosticate per quanto riguarda il rischio cardiovascolare, e interventi tempestivi, già nella mezza età, potrebbero fare la differenza tra una vita sana e un futuro di problemi cardiaci.

Le misurazioni di hsCRP, LDL e Lp(a) forniscono una fotografia del rischio cardiovascolare individuale, permettendo ai medici di intervenire con un approccio mirato. Questo può includere modifiche nello stile di vita, come un’alimentazione sana, attività fisica regolare e l’eliminazione del fumo, combinate, se necessario, con terapie farmacologiche personalizzate.

I benefici a lungo termine della prevenzione cardiovascolare

Prevenire è meglio che curare, prevenire con precisione ancora di più. In tal senso, la combinazione dei dati ottenuti da questi tre esami offre un’opportunità unica di implementare una prevenzione cardiovascolare mirata e personalizzata. Il futuro della prevenzione potrebbe includere nuovi farmaci mirati a ridurre i livelli di Lp(a) e a controllare meglio l’infiammazione, aumentando significativamente le possibilità di evitare eventi cardiovascolari maggiori.

Il messaggio chiave che emerge dallo studio è chiaro: i medici devono essere proattivi nel monitoraggio del rischio cardiovascolare nelle donne, senza aspettare che i sintomi si manifestino. Come afferma il dott. Ridker, “i medici non possono curare ciò che non misurano”, e la combinazione di hsCRP, LDL e Lp(a) rappresenta uno strumento potente per la prevenzione a lungo termine.

Il ruolo della menopausa nelle malattie cardiovascolari

Se le donne sono tendenzialmente molto attente per gli screening del tumore del seno e dell’utero, lo stesso non si può dire per le malattie cardiovascolari, spesso associate agli uomini e sottovalutate dalle donne. Alcuni fattori di rischio sono uguali a quelli degli uomini, ma altri sono esclusivi della biologia femminile, come per esempio la menopausa precoce, tra i 30 e 40 anni, e alcune malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide, la miastenia, la tiroidite e altre che hanno una prevalenza nelle donne con conseguenze importanti sulla loro qualità di vita e sulla salute cardiaca.


Soprattutto la menopausa rappresenta una variante importante per la salute cardiovascolare femminile. Per tutta l’età fertile, la donna è protetta dall’infarto grazie al cosiddetto “ombrello estrogenico”, cioè gli ormoni femminili, ma quando subentra la menopausa questo viene meno. Non solo: le donne rischiano di confondere alcuni sintomi dell’infarto con quelli della menopausa. È il caso della mancanza di fiato nel salire le scale, del dolore toracico anche passeggero, del gonfiore agli arti, della sudorazione ‘fredda’, o di episodi di tachicardia. Per questo, diventa cruciale prevenire e farlo bene, senza mai abbassare la guardia.

L’analisi del rischio cardiovascolare nelle donne è un campo in continua evoluzione. Le nuove strategie di prevenzione si stanno muovendo verso un approccio sempre più personalizzato, basato su esami del sangue mirati e sul controllo precoce dei principali fattori di rischio. Questo non solo permette di ridurre il rischio di infarti e ictus, ma offre anche l’opportunità di migliorare la qualità della vita di milioni di donne in tutto il mondo.

Le future innovazioni mediche, unite a screening regolari e a un controllo più stringente dei fattori di rischio, potrebbero rappresentare una svolta nel campo della prevenzione cardiovascolare femminile.

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Rifare subito il letto fa bene? Sì, ma agli acari

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Rifai il letto appena sveglio o sveglia? Forse non stai facendo la scelta giusta. Uno studio della Kingston University di Londra ha rivelato che non rifare il letto appena alzati potrebbe aiutare a combattere gli acari della polvere, responsabili di allergie che in Italia colpiscono tra il 10% e il 20% della popolazione. Questo perché gli acari prosperano in ambienti caldi e umidi, come quelli che si creano rifacendo il letto subito al mattino. Lasciando invece il letto disfatto per un po’ di tempo, la temperatura e l’umidità tra lenzuola e materasso diminuiscono, rendendo l’ambiente meno favorevole alla sopravvivenza di questi piccoli parassiti. Vediamo cosa succede.

Non rifare il letto e altre strategie anti-acari

I ricercatori della Kingston University hanno esposto gli acari a diverse combinazioni di temperatura e umidità relativa, sviluppando un modello matematico per prevedere come varia la loro popolazione in funzione delle condizioni ambientali. Hanno scoperto che lasciando il letto disfatto al mattino, si riduce la temperatura e l’umidità nelle lenzuola, fattori critici per la sopravvivenza degli acari. Mantenere una temperatura inferiore ai 22°C e un’umidità relativa al di sotto del 50% può ridurre drasticamente la loro popolazione, eliminandola completamente in un periodo compreso tra 6 e 11 giorni.

Oltre a lasciare il letto disfatto, ci sono altri modi per ridurre la presenza di questi inquilini non paganti. Il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità ha condiviso alcune linee guida “anti-acari”:

Contenere l’umidità nelle stanze;
Arieggiare frequentemente gli ambienti;
Utilizzare materiali sintetici per materassi e cuscini;
Preferire superfici lisce che possono essere pulite facilmente;
Lavare la biancheria da letto e le tende a 60°C per uccidere eventuali acari.

Gli acari della polvere: cosa sono e perché sono un problema

Gli acari della polvere sono microscopici aracnidi, lunghi circa 1 mm, che si nutrono di cellule morte della pelle umana e animale. Le specie più comuni negli ambienti domestici sono Dermatophagoides pteronyssinus e Dermatophagoides farinae. Come spiegato da Geopop, questi organismi non bevono acqua, ma la assorbono dall’umidità presente nell’aria attraverso delle ghiandole. Gli acari hanno una proliferazione massima in ambienti con un’umidità compresa tra il 55% e il 73% e una temperatura tra i 15°C e i 35°C.

La loro presenza è la causa principale dell’allergia alla polvere, ma non ne è la causa diretta. Starnuti, prurito nasale, lacrimazione e tosse, infatti, non sono causati dagli acari in sé, ma dalle glicoproteine presenti nei loro escrementi e nei corpi morti. Questi allergeni si accumulano su materassi, cuscini, tappeti e coperte e vengono inalati, soprattutto quando si smuove la polvere proprio come avviene quando si rifà il letto. Per questo, bisogna aspettare che le condizioni sfavorevoli agli acari facciano il loro corso.

Rifare il letto, gli effetti sulla salute

La presenza degli acari, tuttavia, non può essere il nostro unico pensiero quando pensiamo se rifare o meno il letto. Per molti si tratta di una semplice abitudine, qualcosa che si fa in poco tempo, magari mentre si pensa a cosa accadrà nella giornata appena iniziata, ma secondo la scienza rifare il letto può avere un impatto significativo sulla salute mentale, sulla produttività e persino sulla qualità del nostro sonno.

Benefici psicologici e produttività

Uno degli aspetti più interessanti di rifare il letto è l’effetto che ha sulla nostra mente. Secondo l’ammiraglio della Marina degli Stati Uniti, William H. McRaven, in un suo famoso discorso motivazionale, rifare il letto è il primo passo verso una giornata produttiva. Questo semplice gesto ci permette di iniziare la giornata con un piccolo successo, che può stimolare un effetto domino di altre azioni positive.

Come sottolineato in un sondaggio condotto da Hunch.com, le persone che rifanno il letto sono più inclini a sentirsi soddisfatte e produttive rispetto a chi non lo fa. Il sondaggio ha rivelato che il 71% di coloro che rifanno il letto si dichiarano felici, rispetto al 62% di coloro che non hanno questa abitudine.

Miglioramento della qualità del sonno

Rifare il letto può anche migliorare significativamente la qualità del sonno. Secondo uno studio della National Sleep Foundation, il 44% delle persone che rifanno il letto quotidianamente dichiara di dormire meglio rispetto a chi non lo fa. Questo succede perché a livello mentale un letto ordinato e ben curato riduce lo stress e favorisce il rilassamento, facilitando così l’addormentamento e migliorando la qualità complessiva del sonno.

Benefici per la salute mentale e l’autodisciplina

La connessione tra ordine esterno e calma interiore può avere effetti anche quando il letto è vuoto, mentre noi dobbiamo produrre. Secondo alcuni studi, infatti, rifare il letto può essere visto come una forma di cura di sé che contribuisce a mantenere un senso di controllo e stabilità. Un ambiente domestico ordinato aiuta a ridurre i livelli di stress e ansia, elementi che possono influenzare negativamente la salute mentale. Charles Duhigg, autore di “The Power of Habit” (Il potere dell’abitudine”), evidenzia che piccole abitudini come rifare il letto possono fungere da “keystone habits”, abitudini chiave che promuovono ulteriori comportamenti positivi e migliorano il benessere generale.

L’abitudine di rifare il letto ogni mattina è anche collegata allo sviluppo della disciplina personale. La psicologa sociale Angela Duckworth, autrice del libro “Grit: Il potere della passione e della perseveranza”, sostiene che piccole azioni di autodisciplina possono rafforzare la nostra capacità di affrontare sfide più grandi nella vita. In questo senso, rifare il letto rappresenterebbe un atto di volontà e autodisciplina, che può rafforzare la resilienza psicologica e la capacità di mantenere altre abitudini positive.

In fin dei conti, se proprio non vi va di rifare il letto, potrete sempre dare la colpa agli acari.

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“I figli degli altri” e l’evoluzione della maternità nella...

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Ieri, giovedì 5 settembre, il film I figli degli altri (Les enfants des autres, 2022), diretto da Rebecca Zlotowski, ha debuttato in prima tv su Rai 3. Presentata in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2022, la pellicola francese mette al centro il tema della maternità e si inserisce in un contesto che riflette le dinamiche demografiche attuali e come stanno cambiando i concetti di famiglia e genitorialità.

“I figli degli altri”, di cosa parla

Al centro della trama c’è Rachel, una donna senza figli biologici che si innamora di un uomo divorziato e si avvicina profondamente alla figlia di lui, Lea. La pellicola diventa una riflessione sui ruoli familiari non tradizionali, sulle complessità emotive dell’essere genitori in un mondo sempre più frammentato e sulle difficoltà per le donne che scelgono di non avere figli o non possono averli.

Uno dei messaggi più forti del film è l’idea che la famiglia possa estendersi oltre i vincoli del sangue. Rachel diventa un esempio di quella che possiamo definire la “madre sociale”, un ruolo che nel panorama demografico attuale sta guadagnando sempre più rilevanza. Con l’aumento delle separazioni, divorzi e famiglie ricostituite, figure come quella di Rachel sono sempre più comuni: donne e uomini che si trovano a investire in relazioni affettive con i figli del partner, contribuendo alla loro educazione e crescita emotiva, pur senza legami genetici diretti.

Un fenomeno in aumento in Italia e in Europa. Come dimostrano i dati Istat, il numero di famiglie ricostituite è cresciuto significativamente negli ultimi vent’anni, e il film di Zlotowski offre uno specchio su questa realtà, portando in primo piano le complessità emotive e psicologiche che ne derivano. Rachel si ritrova a vivere l’esperienza materna, ma in modo frammentato e temporaneo, sapendo che il legame con Lea potrebbe finire nel momento in cui la sua relazione con il padre di Lea si dovesse interrompere.

La “maternità ritardata”

Un altro tema centrale è quello della maternità “ritardata” o mancata. Rachel ha da poco passato i 40 anni e si trova in quel limbo esistenziale tipico di molte donne moderne: divisa tra la carriera, la vita sentimentale e la possibilità di diventare madre.

Che a licenziarsi siano soprattutto le donne neomamme lo confermano i dati sulle dimissioni nel corso del 2022: 44.669 dimissioni convalidate, ovvero il 72,8% del totale. Le donne hanno denunciato le difficoltà di conciliazione tra lavoro e vita privata. Una tematica demografica ma anche di equità sociale, visto che la cura della famiglia ricade (ancora) molto più sulle donne che sugli uomini.

Il 63% delle donne dimesse ha individuato nella difficile conciliazione la principale causa delle dimissioni, a differenza del 7,1% dei papà che hanno dato questa motivazione come causa.

Gli ultimi dati Istat certificano che, in Italia, l’età media al parto è pari a 32,4 anni, stabile rispetto al 2021, più alta per le italiane (32,9) rispetto alle straniere (29,6), e cresciuta di oltre due anni rispetto al 1995. Il conflitto con la carriera è una delle tante motivazioni per cui sempre più donne a scegliere la maternità surrogata o la crioconservazione. “Ho detto a mia figlia Matilde, che adesso ha 17 anni: ‘Quando hai 21 anni ti regalo il social freezing, così non ci pensi più, ti fai la tua vita e quando vuoi una gravidanza li hai già (gli ovociti, ndr.)”, ha rivelato a marzo la modella Bianca Balti in una diretta Instagram con la ginecologa Marina Bellavia.

Il ruolo della donna: tra libertà e imposizioni culturali

Rachel è il simbolo di una generazione di donne che, più che in passato, ha la libertà di decidere se e quando diventare madri. Una libertà che, però, spesso è accompagnata da una grande pressione culturale e sociale. Rachel deve confrontarsi non solo con il desiderio di avere un figlio, ma anche con l’aspettativa sociale che una donna debba, prima o poi, diventare madre per sentirsi completa.

La questione della maternità è qui trattata con grande sensibilità, evitando facili risposte. Il film invita a riflettere su come la società percepisca la maternità e come spesso si associ il concetto di realizzazione personale al diventare genitori. Le scelte di Rachel rispecchiano un cambiamento demografico più ampio.

Maternità sociale: un nuovo capitolo nella demografia?

Uno degli aspetti demografici più interessanti che emerge dal film è l’idea di maternità “sociale”, una forma di maternità che non si basa sulla biologia ma sui legami affettivi. Questo tema si inserisce in un contesto più ampio di cambiamenti nelle dinamiche familiari, dove sempre più persone si trovano a esercitare ruoli genitoriali al di fuori delle strutture tradizionali. Le famiglie ricostituite, l’adozione e i nuovi modelli di convivenza fanno sì che il concetto di famiglia stia evolvendo, e con esso, il ruolo della madre.

Secondo uno studio Eurostat del 2023, le famiglie monoparentali e ricostituite sono in aumento in molti Paesi Ue. Più nello specifico, quasi la metà delle famiglie con bambini ha un solo figlio (48,9%), mentre il 38,2% ha due figli, e solo il 12,9% ne ha tre o più. Questo dato è rilevante soprattutto in Paesi come Italia e Lituania, dove la percentuale di famiglie con tre o più figli scende sotto il 10%​. In Italia le coppie che con tre o più figli rappresentano l’8,7% del numero complessivo dei nuclei familiari; una percentuale che scende all’1% se si considerano le coppie con quattro o più figli. Meno di una settimana fa, domenica 1°settembre, a Brescia c’è stato il raduno delle famiglie numerose, che hanno chiesto maggiore supporto dalla politica.

Questi numeri suggeriscono un cambiamento nelle dinamiche familiari e sociali.

Il concetto di “famiglia tradizionale” si sta evolvendo, anche a causa di una crescente accettazione di modelli alternativi, come le famiglie monoparentali o le famiglie ricostituite. Famiglie di questo tipo rappresentano una parte importante del tessuto sociale, con un forte impatto sia sulle politiche sociali che sull’economia. Inoltre, la progressiva diminuzione delle famiglie numerose è accompagnata da una crescente urbanizzazione e dai cambiamenti nei modelli di occupazione: in circa il 60,7% delle famiglie con bambini, tutti gli adulti sono occupati​, un dato che dà particolare rilievo al ruolo dei caregiver.

In questo senso, film come I figli degli altri offrono uno spunto di riflessione per capire le questioni demografiche oltre i semplici dati numerici. Ragionare per compartimenti stagni impedisce di trattare la tematica demografica in maniera efficace-Bisogna entrare nella vita delle persone per capirne le scelte, i sogni, le difficoltà economiche. E quel profondo senso di disillusione, questo sì, figlio del nostro tempo, che incide anche sulla voglia di avere o non avere figli.

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Ha avuto il 77,70% di voti favorevoli Paolo Barelli è stato rieletto oggi presidente della Federnuoto. L'Assemblea Ordinaria Elettiva gli...