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Parlamento come un ring, cronache e diari di tumulti e scontri in Aula

Anche in epoca pre-smartphone, senza testimonianze filmate, i parlamentari si sono dimostrati sempre pronti alla 'pugna'

La Camera dei deputati

"Così, mai. Non era mai successo prima". Ma davvero? Davvero, come esclamavano stupiti diversi deputati, la rissa sull'autonomia al culmine della quale Leonardo Donno (M5s) è finito in ospedale non si era "mai vista" alla Camera? Più o meno, perché le cronache parlamentari traboccano di racconti di colluttazioni di vario tipo: spintoni, pugni, ceffoni, parolacce, lancio di oggetti, gestacci e persino sputi e morsi.

Il video degli scontri alla Camera al momento del voto di Montecitorio è impietoso, ma anche in epoca pre-smartphone, senza testimonianze filmate, i parlamentari si sono dimostrati sempre pronti alla 'pugna'. La madre di tutte le battaglie in Parlamento (e anche fuori) resta quella sulla legge 'Truffa', siamo nel '53. "Volano anche i cassetti", titola la Domenica del corriere parlando di "tumulti al Senato". "Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto, volò una tavoletta che lo colpì alla fronte", dichiara Pietro Ingrao.

Il quale, alla Camera, si presenta con la testa sanguinante per una "secca randellata" presa da un poliziotto negli scontri intanto scoppiati a via del Tritone tra manifestanti e forze dell'ordine. Al momento del voto "dai banchi volava giù di tutto e il governo abbandonò l’aula". Unico a resistere, riportano sempre i resoconti, il sottosegretario Giulio Andreotti, in piedi sui banchi del governo con un cestino sulla testa.

Qualche anno prima, siamo nel '49, sempre il testimone d'eccezione Andreotti scrive di una riunione molto accesa alla Camera sull'adesione dell’Italia alla Nato: "La seduta fu contraddistinta da pugilati, scambi di percosse e persino da un morso alla mano del mite Achille Marazza, azzannato dal comunista Di Mauro, che cercava di aggredire De Gasperi alle spalle".

Nella prima, primissima Repubblica, spesso si è faticato a tenere a bada i 'bollori' dei parlamentari. Con conseguenze anche terribili. "Io protesto!", scandisce Giacomo Matteotti nel suo discorso del 30 maggio del 1924 alla Camera, l'ultimo. Lo stenografico riporta bene il clima dell'aula, drammatico: 'interruzioni', 'proteste', 'vivi commenti', 'urla' (da 'viva la milizia' a 'vai in Russia') nei confronti del deputato socialista.

Ma senza arrivare al dramma di Matteotti, tra l'altro richiamato più volte nel 'caso Donno', le cronache sono fin troppo ricche. Nel '94 la Camera esamina il Dl Salva Rai. Clima acceso. Forse troppo: Francesco Storace e Mauro Paissan arrivano alle mani, dopo essersi detti di tutto: "Tangentari e tangentisti!", dice il progressista. "Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, ma io non l'ho toccato!", si difende l'esponente di An. L'anno prima ('93) non sono volati schiaffi e pugni, ma come si fa a non ricordare il cappio sventolato in aula nel '93 dal leghista Luca Leoni Orsenigo?

E la seconda Repubblica? Un match di pugilato continuo, a leggere i resoconti. Nel 2004 Davide Caparini (Lega) e Roberto Giachetti (Margherita) vengono alle mani. I due se la cavano con poco, ma l'altro Dl Renzo Lusetti finisce in infermeria dopo aver preso un pugno. L'allora giovane deputata del Nuovo Psi Chiara Moroni si trova Caparini davanti nell'emiciclo: "Ho pensato, adesso mi ammazza!", dice.

Nel 2008, al Senato, il governo Prodi balla su numeri risicatissimi per la fiducia. Quando l'Udeur Nuccio Cusumano annuncio il suo sì, il collega Tommaso Barbato è una furia: "Pagliaccio, traditore, venduto", con tanto della gesto della pistola. "E' arrivato e ha sputato in faccia a Cusumano", raccontano altri senatori. Cusumano avverte un malore, sviene e viene portato via in barella. Nel 2002, in aula, Ignazio La Russa e Ciriaco De Mita se le danno (verbalmente) di santa ragione. A De Mita non basta, esce dall'aula e aspetta La Russa. I commessi evitano il corpo a corpo a fatica: "Fascista eri, fascista rimani!", urla l'esponente Dc. "Meglio fascista che ladro!", la lapidaria replica di La Russa.

Nel 2010 l'aula discute il Ddl della ministra Giorgia Meloni per il sostegno alle comunità giovanili. Il tema, evidentemente, divide e scoppia una rissa. Franco Barbato (Udeur) riporta un "trauma contusivo della regione zigomatica e all’occhio destro”. A 'stenderlo', con un pugno, il Pdl Carlo Nola. Più di recente il clima non migliora: nel 2018, si discute di manovra, Emanuele Fiano (Pd) scala i banchi del governo e prende il vice ministro Massimo Garavaglia a fascicoli di emendamenti in testa.

ATTENZIONE - Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.

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Politica

Migranti, ingressi legali legati al lavoro: Ddl Pd in...

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Delrio presenta al Nazareno il disegno di legge: immigrazione non più tema di ordine pubblico ma gestito dal ministero del Lavoro, modello Canada

Migranti  - Fotogramma

"Permettere ingressi legali" in cui "il lavoro diventa centrale" facendo incontrare domanda e offerta, "semplificare e allargare il permesso di soggiorno, spostare il concetto dell'immigrazione da tema di ordine pubblico a fatto di crescita e dinamismo della società che va gestito e controllato nell'interesse nazionale". Graziano Delrio, primo firmatario del ddl Pd per il superamento della Bossi-Fini, sintetizza così la proposta presentata oggi ad una iniziativa al Nazareno. Un ddl in 7 articoli e una risposta ai centri di Giorgia Meloni in Albania. Seguendo tutta un'altra strada nella gestione dei flussi migratori. Sul modello del Canada, l'immigrazione da tema di ordine pubblico in capo al ministero dell'Interno diventa materia da ministero del Lavoro.

"Una sfida alla destra", dice Delrio. Nella consapevolezza, ammette, che "la posizione di Meloni sta purtroppo riscuotendo successo in Ue, anche tra i Paesi guidati dal centrosinistra". Di qui la controproposta dem: "Il primo tema che noi ci poniamo è quello di governare l'immigrazione ma - argomenta il senatore Pd - con una diagnosi differente. Al momento non si può entrare legalmente in Italia: i permessi di soggiorno reali sono pochissimi. E questo è un grandissimo problema. La non conoscenza alimenta la paura. L'unico modo per accendere la luce è quello di dare un nome e un cognome alle persone, nomi contenuti in una lista verificata di persone in cerca di lavoro. Questo è il modo in cui Paesi avanzati, come il Canada, governano e non subiscono i flussi migratori".

Competenze dal ministero dell'Interno a quello del Lavoro

"L'interesse nazionale oggi, qualsiasi impresa lo dice, non è quello di bloccare i flussi. Le forze sociali possono allearsi con noi per rendere possibile l'ingresso in Italia attraverso canali legali. Con uno spostamento di competenze dal ministro dell'Interno al ministero del Lavoro. Le liste vengono organizzate e stabiliti criteri di priorità per coloro che hanno frequentato nel loro paese corsi di formazione lavoro e di lingua. Se il lavoratore entra, iscritto in una lista attraverso un sistema pulito e legale, a questo punto il permesso di soggiorno può essere rilasciato dal Comune sgravando le forze dell'ordine che ora sono caricate di un lavoro burocratico enorme mentre potrebbero dedicarsi ad altro. E sempre in questa ottica si può allungare la durata del permesso. Tutta una serie di semplificazione per arrivare a una immigrazione più legale, più semplice e più sicura".

Nella proposta Delrio si sottolinea che, con la Bossi-Fini, "si è passati a una disciplina volta a contrastare l'ingresso e il soggiorno irregolare, puntando sull'aspetto 'clandestino' degli ingressi e spostando l'attenzione sulla sicurezza e sul contrasto alla criminalità". Si è arrivati così a "una sostanziale assenza" di canali "di ingresso regolari": l'impossibilità di regolarizzare il soggiorno ha prodotto una conseguente crescita esponenziale della immigrazione clandestina e dei rischi di sfruttamento dei migranti irregolari. Il ddl Pd sposta la gestione delle politiche migratorie dal ministero dell'Interno al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali "passando da una visione esclusivamente securitaria a una visione inclusiva e responsabilizzante".

Stop illegalità, ingressi regolati con liste

E quindi come si entra in Italia? Nel testo si spiega che "i criteri generali per la definizione dei flussi d'ingresso" devono tener conto "dei dati relativi alla richiesta di lavoro elaborati dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali" e "delle indicazioni provenienti dai consigli territoriali per l'immigrazione istituiti presso le Prefetture in rapporto alle capacità di assorbimento del tessuto sociale e produttivo". Il ddl, si legge nelle slide Pd sulla proposta Delrio, introduce "liste alle quali possano iscriversi i lavoratori stranieri che intendano fare ingresso in Italia per lavoro, organizzate in base alle singole nazionalità con criterio cronologico" ma anche secondo il grado di conoscenza della lingua e i titoli e la qualifica professionale.

Quindi, "l'ingresso nel territorio dello Stato per l'inserimento nel mercato del lavoro del cittadino straniero iscritto nelle liste avviene a seguito di richiesta, nominativa o numerica, proveniente da Regioni, Provincie autonome, enti locali, associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali, nonché istituti di patronato, con la costituzione di forme di garanzia patrimoniale a carico dell'ente o dell'associazione richiedente". La legge stabilisce chi è autorizzato "all'attività 'intermediazione tra datori di lavoro italiani e cittadini stranieri" ovvero "le organizzazioni nazionali degli imprenditori e datori di lavoro e dei lavoratori, organismi internazionali finalizzati al trasferimento dei lavoratori stranieri in Italia ed al loro inserimento nei settori produttivi, enti e associazioni operanti nel settore dell'immigrazione, università, fondazioni universitarie, enti pubblici nazionali di ricerca, centri per l'impiego, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura".

Permesso di soggiorno, tempi più veloci e maggiore durata

Il permesso di soggiorno deve essere richiesto al Comune in cui lo straniero si trova, entro ventiquattro ore dal suo ingresso nel territorio dello Stato. La durata del permesso di soggiorno è quella indicata nel contratto di lavoro e non può comunque superare: 1 anno per lavoro stagionale; 2 anni per ricerca di lavoro; 3 anni per lavoro subordinato a tempo determinato; 4 anni per lavoro a tempo indeterminato.

Si prevede anche la possibilità di permesso per istanza e per radicamento sociale. In questo caso, allo straniero presente da almeno tre anni nel territorio dello Stato che dimostri di essere radicato nel territorio nazionale e integrato nel tessuto civile e sociale del Paese, in assenza di sentenze di condanna passate in giudicato, è rilasciato dal Questore il permesso di soggiorno per radicamento sociale, della durata di due anni, rinnovabile e convertibile in permesso di lavoro.

Ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, lo straniero deve essere in possesso dei seguenti requisiti: la sussistenza di legami familiari o affettivi nel territorio italiano; l’inserimento sociale e lavorativo; la durata della permanenza sul territorio; la conoscenza della lingua italiana; altre circostanze di fatto o comportamenti idonei a dimostrare un legame stabile con il territorio nel quale vive. Con le nuove regole di ingresso, secondo il ddl, non c’è più motivo di mantenere il contratto di soggiorno. Inoltre, l'introduzione dell’ingresso per ricerca di lavoro e le nuove tipologie di permessi di soggiorno rendono superabili i reati di ingresso e soggiorno illegali.

ATTENZIONE - Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Politica

Question time con ‘riposino’ per Lotito, patron...

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La stessa cosa accadde a febbraio al dem Andrea Crisanti

Question time con 'riposino' per Lotito, patron Lazio vinto dal sonno in Senato

Question time con 'pennica' in Senato, come si dice a Roma. Sarà il tema ostico della manovra, sarà l'orario post pranzo, ma in Aula, mentre il collega di partito, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, interroga il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti -tema: il fondo indennizzo dei risparmiatori - il patron della Lazio, senatore azzurro Claudio Lotito, viene sorpreso dalle telecamere mentre pericolosamente oscilla sullo scranno, vinto dal sonno. Un riposino che dura per tutto l'intervento (breve) di Zanettin. Un momento di stanchezza, che oggi vede protagonista il senatore della maggioranza eletto in Molise, di solito tra i più attivi e vivaci in Aula e nelle Commissioni di Palazzo Madama, che però ha numerosi precedenti.

Il precedente

Da ultimo si ricorda quando lo scorso 13 febbraio, il sonno sorprese il senatore del Pd Andrea Crisanti, mentre si votavano gli emendamenti al ddl Nordio. In quel caso, il collega di partito del virologo, Francesco Giacobbe, residente in Australia ed eletto nella circoscrizione Oceania, fu lesto ad allungare la mano e scuotere Crisanti, mentre lui, testa trattenuta dalle mani e gomiti sul banco, provava senza successo a restare sveglio.

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Politica

Manovra, da Meloni “imbroglio” su banche e...

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Schlein: "Trattano da stupidi gli italiani". Conte: "Tassa su extraprofitti non esiste". Avs: "Una truffa"

Elly Schlein e Giuseppe Conte - Fotogramma

Opposizioni all'attacco sulla Manovra 2024 con il governo accusato di trattare "da stupidi gli italiani" annunciando provvedimenti su sanità e banche che non sono altro che "un imbroglio". Il primo per l'entità dei fondi: non 3,7 miliardi come annunciato dal governo, ma 900 milioni per il 2025, sostiene l'altra metà di campo. Il secondo sul meccanismo: nessuna nuova tassa, la denuncia del campo progressista, ma un "anticipo di tasse già dovute dalle banche e assicurazioni che saranno loro puntualmente restituite tra il 2027 e il 2029", spiega Elly Schlein in un video sui social. Sintetizza Giuseppe Conte: "Un imbroglio". Per Carlo Calenda, "una cavolata". E quindi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli: "Una truffa".

Sul capitolo sanità l'accusa al governo è quella aver 'gonfiato' le cifre. "Anche oggi il governo ci da una buona dose di propaganda quotidiana: annunciano 3,7 miliardi in più sulla sanità ma la verità è che per il 2025 mettono soltanto 900 milioni che si aggiungono al miliardo già stanziato. Quindi, meno della metà di quello che hanno annunciato", rimarca Schlein. E Conte incalza: "Siete mai entrati, cari ministri, cara Giorgia Meloni, in un pronto soccorso? Avete visto le prenotazioni di un esame diagnostico per cui servono due o tre anni? Guardate - spiega - che tutti i medici e gli infermieri sono sul piede di guerra e noi con loro". Il leader M5S si rivolge al ministro Schillaci: "Sei un tecnico, se non ti danno i finanziamenti devi battere i pugni, devi farti valere. E se, nel caso" non li ottenessi, "metti sul tavolo le dimissioni".

Per Raffaella Paita di Iv "sulle risorse per la sanità nella legge di bilancio, il governo fa il gioco delle tre carte. Ancora non è chiaro per quali anni saranno stanziati i 2,3 miliardi sbandierati dal ministero dell'Economia. Se per il 2025 fossero solo 900 milioni, saremmo di fronte all'ennesima presa in giro. I medici giustamente sono già sul piede di guerra, e noi saremo dalla loro parte".

Ma è sui 'sacrifici', come ribadito anche oggi da Giancarlo Giorgetti, che il governo avrebbe chiesto alle banche che si concentrano gli attacchi delle opposizioni. Per Schlein "siamo al solito gioco delle tre carte come se gli italiani fossero stupidi ma non ci faremo prendere in giro". Conte è netto: "La tassa sulle banche non esiste, è un imbroglio. Il governo sta chiedendo un prestito alle banche che noi contribuenti restituiremo nel 2027, per altro quando questo governo non sarà più in carica".

Per Fratoianni e Bonelli quella del governo è "una truffa" e attaccano: "Giorgia Meloni in aula, rispondendo ai nostri interventi, ha detto 'vi stupirò, vi sorprenderò. Sulle banche, vedrete che sarò più coraggiosa della sinistra' e in effetti ci ha sorpreso e ci ha scandalizzato: la tassa sulle banche è una truffa. In realtà non c'è nessuna tassa sulle banche o sugli extraprofitti. Sono solo anticipazioni di imposte che lo stato dovrà restituire tra il 2027 e 2029”.

Stessa lettura da parte di Calenda: "I 3,5 miliardi dalla banche sono una cavolata perché solo sono un anticipo di un'imposta e non soldi dalle banche". Una sintonia tra le opposizioni che potrebbe tradursi in emendamenti comuni alla manovra.

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