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Le crescenti sfide demografiche dell’Italia viste...

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Le crescenti sfide demografiche dell’Italia viste dall’Unione europea

Cause e conseguenze del calo demografico italiano? Ci pensa la Commissione europea a dipingere il quadro della situazione nell’ultimo Country report 2024 dedicato al Belpaese. Dai tassi di natalità ai minimi storici, passando per una popolazione sempre più anziana, fino alla spesa per le pensioni in aumento e le conseguenze che avrà l’assenza di un ricambio generazionale nel sistema-lavoro, per la Commissione la situazione è chiara: è necessario intervenire. Come? Investendo nel futuro di donne e giovani e puntano al Mezzogiorno come hub per l’energia. Scopriamo nel dettaglio perché.

Tasso di natalità

Ormai è noto che nel 2022 il tasso di natalità ha registrato un picco storico che è andato peggiorando nel 2023. L’età media delle donne alla nascita del primo figlio è 31.7, contro una media dell’Ue di 29.4. Il saldo migratorio rimane positivo ma non compensa più il basso tasso di natalità. Nel 2022, oltre 410.000 persone sono emigrate in Italia, mentre circa 150.200 hanno lasciato il Paese. “Poiché gli emigranti hanno un livello medio di competenze superiore a quello degli immigrati, la fuga di cervelli rimane una sfida”, si legge nel report.

Come se non bastasse, l’aumento dell’età media del nostro Paese ha fatto sì che una popolazione sempre più anziana non trovasse un numero congruo di giovani nella forza lavoro. L’Italia, con la sua media di 48.4 anni nel 2023, prevede una diminuzione della popolazione in età lavorativa dello 0,7% entro il 2030. Fino al 2050, questo calo sarà pari al 14,1% e la sostenibilità delle finanze pubbliche inizia a vacillare. Su questo tema sono stati chiari anche gli attuali ministri del governo Meloni che, in un evento dedicato alla denatalità, hanno spiegato le l’Italia è già in ritardo sulle politiche lavorative e che donne e giovani restano la sfida maggiore. Dall’occupazione di questi due grandi gruppi può dipendere concretamente il futuro produttivo del Paese.

Spesa per le pensioni

Come spiega la Commissione nel Country Report, gli sviluppi demografici sfavorevoli “prevedono di aumentare la spesa per le pensioni prima che inizi a diminuire nel lungo termine grazie alla riforma delle pensioni del 2011. La spesa pensionistica dell’Italia come quota del Pil è tra le più alte dell’Ue (nel 2022, 15.6% del Pil contro l’11.4% nell’Ue), il che limita le risorse disponibili per la spesa a favore della crescita, soprattutto considerando l’alto livello del debito pubblico. Sebbene la riforma delle pensioni del 2011 aiuterà a ridurre la spesa per le pensioni nel lungo termine, si prevede che questa aumenterà sostanzialmente nel medio termine a causa degli sviluppi demografici”.

Ma ancora più critica è la visione sulle misure politiche adottate negli ultimi anni. Secondo la Commissione, infatti, queste hanno ulteriormente aumentato la spesa delle pensioni. Dal regime pensionistico anticipato, meglio noto come Quota 100 e introdotto nel 2019, fino alla recente decisione di estenderlo con criteri di accesso più rigorosi (Quota 102 e Quota 103) e altri regimi temporanei di pensionamento anticipato per le donne e i lavoratori vulnerabili, potrebbero anche peggiorare la situazione.

Sostenibilità fiscale a rischio

Insieme a bassi tassi di partecipazione e crescita della produttività, ciò contribuisce ai rischi stimati di sostenibilità fiscale dell’Italia nel medio termine e ai rischi medi nel lungo termine. “L’assegno universale per i figli aiuterà a combattere la povertà infantile e potenzialmente il basso tasso di natalità, se integrato con investimenti nei servizi di assistenza e un migliore accesso al mercato del lavoro”, specifica la Commissione.

Ciò che aumenta i rischi di povertà è:

La mancanza di accesso a servizi di assistenza di qualità e a prezzi accessibili.
L’ingresso tardivo nel mercato del lavoro.
I lavori a bassa qualità e la stagnazione salariare a lungo termine.

Tuttavia, l’impatto positivo delle politiche familiari è minore quando ci sono maggiori incertezze economiche.

La soluzione? “Un modo per mitigare questo è rafforzare le politiche di equilibrio tra lavoro e vita privata e fornire assistenza all’infanzia accessibile e di alta qualità – ha suggerito la Commissione -. L’assegno universale per i figli, così come le misure incluse nella legge di bilancio 2024, potrebbero aiutare ad aumentare il tasso di natalità nel lungo termine; oltre all’investimento del Prr, ulteriori misure nei servizi di assistenza potrebbero anche stimolare i tassi di natalità permettendo alle donne di lavorare. Allo stesso modo, misure per promuovere pari opportunità e equilibrio tra lavoro e vita privata, tra cui congedi parentali più generosi per i padri, aumentando la quota di adulti che partecipano alla formazione e sostenendo la partecipazione delle donne e dei giovani sarebbero benefici”.

Le politiche migratorie

Uno dei temi che maggiormente influenzano le politiche demografiche e familiari è quello dell’immigrazione. Le politiche migratorie, infatti, secondo la Commissione, “potrebbero essere rafforzate per mitigare le dinamiche demografiche sfavorevoli nel breve e medio termine. Il nuovo decreto del 2024 sui flussi migratori raddoppia quasi il numero di cittadini stranieri provenienti da paesi non Ue ammessi ogni anno in Italia rispetto al precedente decreto sui flussi migratori del 2020 (+99.5%). Estende la durata del permesso di lavoro a tre anni e aggiunge nuovi settori di lavoro. Semplifica anche il processo di conversione dei permessi di studio in visti di lavoro e attiva la collaborazione con le giurisdizioni straniere per facilitare il riconoscimento delle competenze per i cittadini non Ue”.

Ma non basta. Perché per affrontare la fuga di cervelli nel breve termine servirà una strategia che possa attrarre e trattenere lavoratori e studenti altamente qualificati e allinearla “con le esigenze industriali e di sviluppo del Paese”.

“Sbloccare il potenziale del Mezzogiorno”

La Commissione, nell’analizzare la condizione demografica italiana, ha dedicato una sezione del Country Report al Mezzogiorno. Riconoscendone l’importanza, nel report si legge che “il sud ha un grande potenziale come hub logistico nel Mediterraneo. Nel 2022, il trasporto marittimo ha trasportato il 74% delle merci scambiate tra l’Ue e il resto del mondo (Eurostat). Il Mar Mediterraneo copre l’1% della superficie marina globale ma trasporta il 20% del trasporto marittimo. I porti del sud Italia stanno guadagnando competitività: Gioia Tauro si è classificata nono nell’Ue per il traffico di container, Augusta si è classificata settima per il commercio marittimo di massa liquida e Napoli, Palermo e Messina sono tra i primi 20 porti del Mediterraneo per passeggeri da crociera”.

Nel 2021, l’Italia è stata il primo paese dell’Ue per il trasporto marittimo a corto raggio, fornendo il 17,6% di tutto il traffico dell’Ue. Data la sua posizione centrale nel Mediterraneo, l’Italia potrebbe avere un ruolo maggiore nel fornire collegamenti (e commercio) nella regione. Ma non c’è una strategia univoca a supporto.

Le energie rinnovabili

Inoltre, c’è il grande tema dell’energia rinnovabile. Il 96,3% dell’eolica italiana e il 40,2% della fotovoltaica sono prodotte al Sud. “Data la sua elevata potenzialità di energia rinnovabile, il sud ha rappresentato anche l’80,7% delle richieste di connessione alla rete elettrica nazionale per l’energia solare e l’88,0% per l’energia eolica nel 2022 – spiega la Commissione -. Diverse misure politiche, in particolare gli incentivi fiscali, sostengono le attività economiche nel sud, ma mancano di un focus chiaro. Il principale strumento utilizzato è il credito d’imposta per il sud. Nel 2020, questa misura ha beneficiato soprattutto la manifattura (35,1%), il commercio (16,8%) e l’edilizia (14,8%). I principali beneficiari sono le micro o piccole imprese, che assorbono il 64% di tutte le risorse”.

I sussidi al Mezzogiorno e i rischi dell’autonomia differenziata

Resto al Sud” è il primo incentivo di cui, circa il 50%, è destinato al turismo, il 22% alla manifattura, il 20% ai servizi personali e meno del 3% all’Ict. I vantaggi concessi alle imprese che operano nelle otto zone economiche speciali, tra le quali l’avere procedure semplificate, hanno attirato investimenti nella transizione energetica, nella logistica, nell’agroalimentare, nel commercio al dettaglio, nella riparazione di veicoli e nel settore della metallurgia (tra gli altri).

Inoltre, le imprese che operano nel sud hanno anche diritto a contributi sociali ridotti per i dipendenti (escludendo settori come l’agricoltura, il lavoro domestico e le entità pubbliche): “Le simulazioni effettuate dal Centro comune di ricerca della Commissione mostrano che un aumento dei salari nella parte bassa della distribuzione dei salari sarebbe particolarmente vantaggioso per i dipendenti nel sud”, ha suggerito la Commissione. Nel 2022, inoltre, è stato creato un nuovo ministero che combina gli affari dell’Ue con la coesione territoriale. Nel 2023, il “decreto Mezzogiorno” ha trasferito la responsabilità dai commissari straordinari a un unico organismo dedicato e sotto la responsabilità dello stesso ministero.

Un approccio ecosistemico potrebbe integrare la definizione della strategia industriale per il sud, basandosi sulle specializzazioni industriali esistenti e sulle catene di valore strategiche. La Commissione riporta a questo punto l’esempio della Sicilia che sta beneficiando di investimenti specifici su microelettronica e energia rinnovabile, con la costruzione della prima linea di produzione di barre di carburo di silicio in Europa: “La gigafactory 3Sun di Catania sta diventando anche un attore chiave nella produzione di pannelli solari in Europa, e ci sono investimenti importanti supportati dalla politica di coesione. Tuttavia, c’è margine per sviluppare ulteriormente gli ecosistemi industriali attorno a questi investimenti strategici. Basandosi sugli investimenti mirati nel piano di ripresa e resilienza, l’Italia potrebbe incoraggiare la consolidazione tra i principali attori e le nuove imprese lungo le catene di valore strategiche, rafforzare le partnership con il mondo accademico e il trasferimento di tecnologia, e migliorare l’offerta di competenze fornendo formazione professionale mirata”.

E, infine, un ultimo capitolo è stato dedicato all’autonomia differenziata. Il Senato ha approvato la legge quadro per l’attuazione di livelli differenziati di autonomia delle regioni con statuto ordinario all’inizio di quest’anno.

Il disegno di legge, adesso, è nelle mani della presidenza della Repubblica, e “comprende alcune garanzie per le finanze pubbliche, come ad esempio le valutazioni periodiche della fiscalità regionale e dei requisiti regionali relativi ai contributi per raggiungere gli obiettivi del bilancio nazionale. Tuttavia – chiarisce la Commissione -, mentre il disegno di legge attribuisce specifiche prerogative al governo nel processo di negoziazione, esso non fornisce alcun quadro comune per valutare le richieste regionali. Inoltre, permangono rischi di aumento delle diseguaglianze”. Questa legge, in sintesi: “Aumenterà la complessità istituzionale, portando il rischio di maggiori costi sia per il pubblico che per i cittadini e il settore privato”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Il movimento ‘No Bra’, perché sempre più donne non...

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Negli ultimi anni, il movimento “No Bra” ha guadagnato sempre più popolarità e attenzione mediatica. Ma cosa significa esattamente e perché è diventato un fenomeno così rilevante nel contesto moderno di uguaglianza sociale?

Basta con il reggiseno, il movimento “No Bra”

Il termine “No Bra” (termine internazionalmente utilizzato per indicare il reggiseno) si riferisce alla scelta di non indossare il reggiseno, un capo di abbigliamento che, per decenni, è stato considerato un elemento essenziale della moda femminile. Questa tendenza, tuttavia, va ben oltre una semplice scelta di stile. È un movimento che sfida le norme sociali e culturali legate all’abbigliamento femminile e promuove l’accettazione del corpo naturale delle donne.

Le origini del movimento

Il movimento “No Bra” ha le proprie radici nei movimenti femministi degli anni ‘60 e ‘70, quando le donne cominciarono a ribellarsi contro i rigidi standard di bellezza e le aspettative della società. Un momento iconico fu la protesta del 1968 a Miss America, dove alcune femministe gettarono simbolicamente reggiseni, corsetti e altri “strumenti di tortura femminile” in un “bidone della libertà”.

Negli ultimi anni, il movimento ha ripreso vigore grazie ai social media e alla crescente attenzione verso le questioni di uguaglianza di genere. Molte donne, tra cui influencer e celebrità, hanno abbracciato e promosso il “No Bra” come una forma di espressione personale e di protesta contro le norme di genere restrittive.

Le influencer e le celebrità che promuovono il “No Bra”

Numerose influencer e celebrità hanno giocato un ruolo cruciale nel promuovere il movimento “No Bra”. Tra queste ci sono:

Kendall Jenner: la modella ha spesso sfidato le convenzioni, apparendo in pubblico senza reggiseno e parlando apertamente del suo sostegno al movimento. “È una scelta di comfort e libertà,” ha dichiarato in un’intervista;
Kim Kardashian: la nota modella e influencer, sorella di Kendall, anche lei spesso senza reggiseno;
Miley Cyrus: con il suo approccio audace alla moda e alla vita, la cantante è una delle più note sostenitrici del “No Bra”. Una scelta che Miley Cyrus ha sintetizzato in maniera chiara: “Il mio corpo, le mie regole. Non voglio conformarmi a ciò che la società pensa che dovrei essere”;
Bella Hadid: la modella ha utilizzato la sua piattaforma per normalizzare l’assenza del reggiseno, sottolineando l’importanza di sentirsi a proprio agio nel proprio corpo;
Gillian Anderson: attrice conosciuta per ruoli in serie come The X-Files e Sex Education. Nel 2022 ha dichiarato in una diretta Instagram: “Non me ne frega niente se le mie tette arrivano all’ombelico, non indosso più il reggiseno perché è troppo scomodo”;
Jennifer Aniston: nel 2020 l’attrice è apparsa senza reggiseno sul red carpet dei SAG Awards in un abito vintage Dior. Ci sono voci sul fatto che anche il suo personaggio in Friends non indossasse mai il reggiseno;
Rihanna: la cantante e imprenditrice americana è tra le più note promotrici del movimento “No Bra”;

Queste sono solo alcune delle tante celebrità che con la loro notorietà cercano di diffondere un’idea diversa e libera del corpo femminile, rifiutando di indossare il reggiseno per comodità o come affermazione di libertà e accettazione del proprio corpo. Il fenomeno è diventato sempre più popolare negli ultimi anni.

Quando nasce il reggiseno

Il reggiseno come lo conosciamo oggi è una invenzione piuttosto recente. Prima della sua introduzione, le donne utilizzavano busti e corsetti per modellare il proprio corpo secondo gli standard dell’epoca. Il primo brevetto per un reggiseno moderno fu registrato da Mary Phelps Jacob nel 1914. Da allora, il reggiseno è diventato un capo d’abbigliamento standard per le donne, spesso associato a un senso di decoro e modestia.

Tuttavia, l’uso del reggiseno non è stato sempre la norma. In molte culture e per molti secoli, le donne hanno vissuto senza alcun tipo di supporto artificiale. Il ritorno al “No Bra” può quindi essere visto anche come un ritorno a un’epoca in cui i corpi delle donne non erano così rigidamente controllati e regolamentati.

Non solo una tendenza: una richiesta di parità

Il movimento “No Bra” non è solo una moda passeggera; rappresenta una richiesta di parità e di rispetto per le scelte individuali delle donne. La pressione sociale che impone alle donne di indossare il reggiseno è vista come un simbolo di oppressione e controllo sui corpi femminili. Scegliere di non indossare il reggiseno diventa quindi un atto di ribellione contro queste pressioni.

L’attrice Emma Watson ha dichiarato: “La libertà di scelta è fondamentale. Nessuno dovrebbe sentirsi costretto a indossare qualcosa per conformarsi agli standard degli altri.”

Il reggiseno è spesso visto come uno strumento per coprire i capezzoli femminili e quindi nascondere la sessualità delle donne in una cultura che tende ad attribuire la pulsione sessuale principalmente agli uomini.

Il reggiseno oggettizza la donna

Iris Marion Young, autrice femminista, ha scritto nel 2005 che il reggiseno “serve da barriera al tocco” e che una donna senza reggiseno è “deoggettalizzata”, eliminando quello che definisce l’aspetto “duro e appuntito che la cultura fallica pone come norma”. Senza reggiseno, i seni delle donne non sono oggetti dalla forma costante ma cambiano mentre la donna si muove, riflettendo il corpo naturale.

Come ha sottolineato Young, il reggiseno viene usato anche per indottrinare le ragazze a pensare ai loro seni come oggetti sessuali.

Negli anni ’70, alcune femministe bruciarono reggiseni in segno di protesta contro la sessualizzazione del corpo femminile, con uno slogan che recitava: “Bruciate i corsetti!… No, non conservate nemmeno le stecche di balena, non ne avrete più bisogno. Fate un falò degli acciai crudeli che hanno dominato il vostro torace e addome per tanti anni e tirate un sospiro di sollievo, perché vi assicuro che da questo momento la vostra emancipazione è iniziata”.

In effetti, oggi sempre più donne, soprattutto tra la generazione dei Millennial e Gen Z, scelgono di non indossare il reggiseno, basando le proprie scelte più su ciò che vogliono loro e non sulle norme sociali che vorrebbero nascondere, controllare e mortificare la sessualità femminile.

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Molestie sul lavoro, una questione non solo femminile

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Le molestie sul lavoro e al di fuori di esso rappresentano un fenomeno allarmante e diffuso in Italia, come evidenziato dal recente report dell’Istat per il biennio 2022-2023. I dati sono inequivocabili: il 13,5% delle donne italiane tra i 15 e i 70 anni ha dichiarato di aver subito molestie sessuali sul posto di lavoro durante la propria vita.

La situazione è particolarmente preoccupante tra le giovani donne, con una percentuale che raggiunge il 21,2% tra coloro che hanno tra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, anche gli uomini non sono esenti da questo problema, con il 2,4% di loro che ha segnalato esperienze di molestie sul lavoro. Le forme di molestie variano da sguardi offensivi e offese verbali a proposte indecenti e, in casi più gravi, a molestie fisiche.

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO QUI: Le molestie sul lavoro non sono solo un problema femminile

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Quanto costa crescere i figli? Una questione di calcoli

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Hai presente quei momenti in cui trovi il frigo vuoto, le scarpe fuori posto e il portafoglio un po’ più leggero? Benvenuto nella realtà di cinque italiani su dieci, che convivono con i propri figli, molti dei quali maggiorenni e totalmente a carico. Un’avventura quotidiana fatta di spese impreviste e rinunce, come ci racconta il report FragilItalia ‘Il costo dei figli’, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos.

Figli maggiorenni, tra condivisione e indipendenza economica

I figli maggiorenni sono una componente vitale delle famiglie italiane, influenzando non solo la quotidianità ma anche le decisioni economiche a lungo termine. Secondo il report FragilItalia, il 47% di questi giovani adulti continua a vivere sotto lo stesso tetto dei genitori senza contribuire economicamente, mettendo in luce una realtà diffusa che riflette le sfide che molti giovani italiani devono affrontare per raggiungere l’indipendenza economica.

Il fenomeno presenta diverse sfaccettature interessanti: molti giovani, pur avendo un lavoro, preferiscono rimanere a casa per risparmiare sui costi elevati dell’affitto e delle spese di mantenimento, evidenziando le difficoltà nel trovare soluzioni abitative accessibili e il desiderio di molti genitori di garantire un ambiente sicuro e confortevole per i propri figli.

D’altro canto, il 29% dei figli maggiorenni è attivamente impiegato e contribuisce alle spese familiari, rappresentando un esempio di partecipazione economica attiva all’interno della famiglia. Questa situazione non solo allevia il carico finanziario sui genitori, ma promuove anche un senso di responsabilità e reciprocità tra i membri della famiglia, rafforzando i legami familiari e generazionali.

La persistenza di un così alto numero di figli maggiorenni a carico dei genitori solleva anche domande più ampie riguardo alle politiche abitative, all’accesso al lavoro e all’istruzione superiore in Italia, con un impatto che si estende ben oltre le singole famiglie, influenzando le politiche pubbliche e la struttura economica e sociale del paese nel suo complesso.

Spese familiari: quanto pesano i figli?

Le spese per i figli rappresentano una sorta di avventura economica per molte famiglie italiane, un mix di sorprese e costi che possono far vacillare persino il bilancio più preparato. Secondo FragilItalia, i figli assorbono in media il 34% della spesa mensile familiare. Questo dato non fa solo riflettere, ma può anche far venire voglia di fare una rapida revisione del proprio budget.

Cosa include questa “avventura” economica? Principalmente, c’è l’abbigliamento, che rappresenta una vera e propria sfida per il 63% delle famiglie. Tra abiti, scarpe, borse e accessori, la moda dei figli può tranquillamente stravolgere qualsiasi budget mensile. Poi ci sono i libri scolastici, che rappresentano il 51% delle spese a loro dedicate.

Ma non finisce qui! L’attività sportiva è un’altra voce importante, incidendo sul 48% della spesa totale. Quindi, se il tuo bambino o la tua bambina è un futuro campione olimpico, preparati a investire in palestre, attrezzature e competizioni. E poi ci sono i pasti fuori casa, un piacere che per il 46% delle famiglie italiane è un lusso da concedersi ogni tanto, ma che può facilmente diventare una voce costante del bilancio familiare.

Ma nonostante queste spese apparentemente esorbitanti, c’è sempre spazio per qualche sorriso. Ad esempio, il 17% delle famiglie riesce a gestire le spese per i figli con un budget che rappresenta solo il 10-20% del totale mensile. Sembra quasi un miracolo, vero? Eppure, questo ci ricorda che nonostante le sfide economiche, c’è sempre una soluzione se si pianifica con attenzione e si guarda con un po’ di creatività al modo di gestire le finanze familiari.

Facciamo due conti

Calcolare la spesa mensile media familiare destinata ai figli è cruciale per comprendere l’impatto finanziario che i figli hanno sul bilancio domestico. Secondo il report “Il costo dei figli”, la spesa destinata ai figli rappresenta in media il 34% della spesa media mensile familiare, la quale ipotizziamo essere di 2000 euro. Di conseguenza, la spesa mensile media per i figli ammonta a 680 euro.

Le famiglie italiane mostrano una varietà di distribuzioni nella spesa per i figli:

Famiglie che destinano tra il 21% e il 40% della spesa ai figli (51% delle famiglie):

Media: (21% + 40%) / 2 = 30.5%
Spesa media per figli: 30.5% di 2000 euro = 610 euro
Numero di famiglie: 51% di 2000 euro = 1020 euro

Famiglie che destinano tra il 40% e il 70% della spesa ai figli (32% delle famiglie):

Media: (40% + 70%) / 2 = 55%
Spesa media per figli: 55% di 2000 euro = 1100 euro
Numero di famiglie: 32% di 2000 euro = 640 euro

Famiglie che destinano tra il 10% e il 20% della spesa ai figli (17% delle famiglie):

Media: (10% + 20%) / 2 = 15%
Spesa media per figli: 15% di 2000 euro = 300 euro
Numero di famiglie: 17% di 2000 euro = 340 euro

Oltre alla percentuale della spesa, è importante considerare le voci di spesa che incidono maggiormente sul bilancio familiare. Le priorità di spesa delle famiglie italiane per i figli includono l’abbigliamento (63%), i testi e libri scolastici (51%), scarpe, borse e accessori e attività sportiva (48%), e i pasti fuori casa (46%). Inoltre, quattro su dieci famiglie (41%) affrontano anche spese per rette scolastiche, universitarie e asilo, aumentando ulteriormente il peso finanziario.

I sacrifici dei genitori e le rinunce dei figli

Le famiglie sono costrette a fare rinunce significative per sostenere queste spese, con il 66% dei genitori che rinuncia ad acquistare per sé stessi. Questo non è un gesto sporadico, ma una pratica regolare per molti, con il 31% che rinuncia spesso e il 34% occasionalmente.

Ma le rinunce non finiscono qui! Il 60% dei genitori ha dovuto dire addio alle cene al ristorante, mentre il 58% ha rimandato l’acquisto di un’auto nuova. E le vacanze? Sono diventate un lusso che il 60% delle famiglie ha dovuto limitare, con il 25% che ha addirittura accorciato i periodi di relax per far quadrare il bilancio.

Ma non è solo una via a senso unico. Anche i figli, consapevoli delle sfide economiche che la famiglia affronta, sono disposti a fare la loro parte. Il 37% di loro ha rinunciato a nuovi vestiti e scarpe di moda, dimostrando una maturità sorprendente. E cosa dire delle uscite con gli amici? Il 30% dei giovani ha dovuto ridimensionare la socialità per risparmiare, un gesto di responsabilità che parla del loro impegno nel sostenere la famiglia in tempi difficili.

Le spese familiari per i figli vanno ben oltre i numeri: sono un intricato mix di sacrifici, pianificazione e un continuo bilanciamento tra necessità e desideri, sia per genitori che per figli. Questa avventura economica è un percorso fatto di sfide e scelte oculate che influenzano non solo il presente ma anche il futuro delle famiglie italiane. È un viaggio che richiede creatività, responsabilità e un impegno costante nella gestione delle risorse, mantenendo sempre al centro il benessere e lo sviluppo dei giovani.

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