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Ritardare la menopausa aumenta la longevità: cosa dice la scienza

Ritardare la menopausa aumenta la longevità? La domanda ha attirato l’attenzione di scienziati e studiosi che si sono occupati della salute e del corpo femminile. Negli ultimi anni, infatti, in molti hanno confermato che all’apparato riproduttivo femminile è associato tutto il mondo legato alla salute fisica e mentale delle donne. Così il fenomeno della menopausa, che arriva raggiunta la “mezza età”, contribuisce all’invecchiamento e al declino del corpo: dal cervello al cuore. Ma si può ritardare? E cosa comporterebbe questo processo “inverso”? Scopriamolo insieme.

La salute delle donne

Le ovaie sono l’unico organo umano “che accettiamo possa fallire un giorno”, ha spiegato Renee Wegrzyn, direttore dell’Advanced Research Projects Agency for Health al New York Times. I ricercatori dell’istituto condividono l’idea che l’accettazione del deterioramento dell’apparato femminile non dovrebbe essere così lineare. La durata della vitalità delle ovaie contribuisce alla vitalità degli altri organi ed è per questo che, anche se le donne vivono tendenzialmente più a lungo rispetto agli uomini, trascorrono la propria vita convivendo con più malattie e patologie varie.

Ad accendere i riflettori sulla questione è stata la first lady americana Jill Biden che ha lanciato un progetto finanziato con cento milioni di dollari per studiare il corpo femminile e capire come ritardare il rapporto tra menopausa e invecchiamento.

Come ritardare la menopausa

Innanzi tutto, è ormai noto che le ovaie sono il centro di controllo del corpo di una donna. Con estrogeni e progesterone comunicano con gli altri organi. Se ci sono patologie come l’ovaio policistico, aumenta il rischio di malattie cardiache o problemi di salute mentale. Quando però le ovaie smettono di funzionare, arrivano rischi maggiori di demenza, malattie cardiovascolari o osteoporosi. Prima una donna entra in menopausa, maggiore è il rischio che viva una condizione patologica cronica.

Il Nyt ha spiegato che una società, Oviva Therapeutics, è nelle prime fasi di sperimentazione – principalmente su topi e gatti – su una versione farmaceutica dell’ormone anti-Mülleriano (AMH), che modulerebbe il numero di follicoli che maturano in ciascun ciclo mestruale e che potrebbe essere utilizzata per ridurre la quantità di follicoli che maturano in ciascun ciclo. Pensa all’AMH come a “un panno poroso con cui copri l’ovaio”, ha affermato Daisy Robinton, co-fondatrice e amministratore delegato di Oviva, che è in competizione per alcuni dei finanziamenti dell’iniziativa della Casa Bianca. Il livello di AMH determina la dimensione dei fori nel tessuto; se ci sono enormi buchi (in altre parole, c’è un basso AMH), un gruppo di ovuli può fuoriuscire in ogni ciclo. Ma se ci sono solo piccoli fori (il che significa che c’è un alto AMH), possono fuoriuscire meno ovuli. In sintesi: se una donna perde meno ovuli, mantiene le sue riserve ovariche e il suo corpo resterà più giovane e sano.

Uno studio clinico attualmente in corso alla Columbia University, inoltre, sta anche cercando di rallentare la velocità con cui le donne perdono i loro ovuli. Lo studio sta testando l’uso di un farmaco immunosoppressore chiamato rapamicina, che viene utilizzato per prevenire il rigetto dei trapianti di organi, nelle donne di età compresa tra 35 e 45 anni per vedere come influisce sulla loro riserva ovarica. La rapamicina influenza il numero di ovuli che maturano ogni mese e il farmaco ha dimostrato nei topi di estendere la funzione ovarica.

Lo studio è ancora in corso e lo scienziato che ne a capo, il dottor S. Zev Williams, professore associato di salute delle donne alla Columbia, sta facendo domanda per il finanziamento dell’agenzia sanitaria americana. Gli esperti hanno chiarito che l’obiettivo di questo tipo di ricerca non è quello di prolungare indefinitamente il ciclo mestruale delle donne, né di rendere possibile la gravidanza all’età di 70 anni, anche se i trattamenti potrebbero potenzialmente estendere la fertilità.

Ma è davvero possibile?

A lanciare un’ipotesi di fattibilità del ritardo della menopausa è stata la Yale School of Medicine. Prelevando una porzione di tessuto ovarico in giovane età, conservandola a -196 gradi e reinserendola nell’organismo prima dei 50 anni, la menopausa potrebbe essere posticipata anche di 20 o 30 anni. Lo studio a firma di uno dei pionieri del settore, Kutluk Oktay, docente di ginecologia e direttore del Laboratory of Molecular Reproduction and Fertility Preservation ha dimostrato il potenziale della procedura dell’espianto e autotrapianto ovarico, già nel 1999, su pazienti oncologiche. Gli ovociti, scriveva Oktay sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology, si riattiverebbero dando il via a una serie di attività biochimiche e ormonali che allungherebbero la fase fertile, allontanando, anche di molto, la menopausa.

Non è quindi così impensabile immaginare un futuro della fertilità femminile completamente cambiato dove al controllo delle nascite con cure ormonali come la pillola, si potrebbe associare anche un controllo della menopausa.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Perché il bonus mamme non decolla?

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Immaginate di poter ricevere un bonus di tremila euro all’anno solo per essere madri lavoratrici. Sembra una manna dal cielo, vero? Si tratta del bonus mamme introdotto dal governo Meloni, non richiesto, però, dal 40% delle lavoratrici con due o tre figli. Un’opportunità sfuggita di mano o una misura mal comunicata? I dati dell’Inps relativi ai primi cinque mesi del 2024 offrono uno sguardo su questa vicenda, rivelando le ragioni dietro la mancata adesione di molte donne.

Un’opportunità non colta da molte

A fine maggio 2024, solo 484.730 lavoratrici avevano richiesto il bonus mamme, nonostante la platea delle aventi diritto fosse significativamente più ampia, contando 793 mila potenziali beneficiarie tra dipendenti pubbliche, private e lavoratrici agricole a tempo indeterminato. Le lavoratrici precarie, autonome e domestiche, tuttavia, sono escluse da questa misura, il che riduce ulteriormente la possibilità di raggiungere una parte consistente della forza lavoro femminile.

Una delle ragioni dietro il basso tasso di adesione potrebbe essere la confusione generata dalla gestione di due differenti bonus mamme. Il primo, destinato alle madri con tre o più figli, è valido fino al 2026, mentre il secondo, riservato a quelle con due figli, uno dei quali sotto i dieci anni, scade a fine 2024. Questa distinzione ha creato incertezza tra le lavoratrici, amplificata dall’obbligo di presentare una domanda formale al datore di lavoro, un passaggio che molte non avevano previsto.

Solo 142 euro al mese nelle tasche delle mamme

La scoperta che il bonus di tremila euro è lordo e corrisponde solo a circa 1.700 euro netti ha deluso molte lavoratrici. Questo importo, distribuito mensilmente, si traduce in un aumento di circa 142 euro al mese, un contributo significativo ma non rivoluzionario. Inoltre, per ottenere il massimo beneficio, è necessario avere una retribuzione annua lorda superiore a 27.500 euro; chi guadagna meno riceve proporzionalmente di meno. L’aumento effettivo della busta paga è ulteriormente influenzato dalla decontribuzione generale del 6-7% prevista per il 2024, il che significa che l’incremento potrebbe essere inferiore rispetto alle aspettative.

Il bonus erogato dall’Inps è accessibile anche a dirigenti e funzionarie, senza limiti di reddito. Tuttavia, molte lavoratrici con redditi superiori ai 35 mila euro hanno erroneamente pensato di non aver diritto all’agevolazione, a causa di informazioni fuorvianti. Inoltre, la scarsa pubblicità della misura ha contribuito alla limitata adesione, lasciando potenzialmente inutilizzati parte dei 450 milioni di euro stanziati per questo scopo.

Un’analisi delle categorie di lavoratrici rivela differenze significative nell’adesione al bonus. Solo il 37% delle lavoratrici agricole a tempo indeterminato ha fatto richiesta dell’agevolazione, mentre la percentuale tra le dipendenti pubbliche è del 56%. Nel settore privato, il 62% delle lavoratrici aventi diritto ha presentato domanda.

Un bonus con tante ombre

Il bonus mamme 2024, pur essendo stato concepito per sostenere le lavoratrici con figli, ha sollevato diverse critiche. Una delle principali riguarda l’esclusione delle lavoratrici domestiche, autonome, libere professioniste e quelle con contratti a termine. Inoltre, l’esonero contributivo può comportare la riduzione di altre misure di sostegno come l’assegno unico o un aumento dell’Irpef, che potrebbero annullare parzialmente i benefici del bonus. Le simulazioni mostrano che l’incremento effettivo dello stipendio netto potrebbe essere inferiore alle aspettative a causa di imposte aggiuntive.

L’implementazione del bonus ha incontrato ostacoli burocratici che hanno causato ritardi nell’erogazione. A gennaio 2024, molte lavoratrici non avevano ancora ricevuto il bonus nelle loro buste paga a causa della mancata pubblicazione tempestiva della circolare Inps necessaria per l’attuazione della misura. Questo ritardo ha ulteriormente complicato la situazione, generando insoddisfazione e confusione tra le beneficiarie.

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Mezzi pubblici e vestiti, le (discutibili) misure...

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Più di due terzi delle giovani donne italiane vivono con la paura costante di essere vittime di violenza o molestie. È quanto emerge da una ricerca inedita di Eumetra per Telefono Donna Italia, che getta luce su paure, percezioni e vissuti di oltre 800 giovani tra i 16 e i 25 anni.

La paura di subire violenza è una presenza costante nella vita delle giovani donne italiane, influenzando profondamente il loro comportamento quotidiano. Il dato impressionante del 66% delle giovani donne che teme di vivere episodi di violenza o molestie mette in luce una realtà allarmante. Questa paura non è solo teorica, ma si traduce in azioni concrete e strategie di auto-protezione. Più di sei ragazze su dieci adottano misure preventive come evitare i mezzi pubblici nelle ore serali e notturne, preferire abiti più coprenti e cercano la sicurezza di una telefonata mentre tornano a casa.

Paura e precauzioni quotidiane

Questi comportamenti rivelano un livello di allerta che condiziona fortemente la loro libertà e il loro stile di vita. Le giovani donne sentono il bisogno di navigare nella vita pubblica con una costante attenzione alla propria sicurezza, rinunciando spesso a libertà che i loro coetanei maschi danno per scontate. La paura di un’aggressione fisica rappresenta la preoccupazione più diffusa, ma anche altre forme di molestia influenzano significativamente le loro abitudini.

Le differenze di genere emergono chiaramente anche nella percezione delle cause di comportamenti violenti. Molti ragazzi ritengono che l’abbigliamento provocante o l’assunzione di alcol e droghe possano giustificare le molestie, una visione che le ragazze respingono fermamente. Queste ultime, infatti, sottolineano che nessun comportamento, stato di alterazione o scelta di abbigliamento può mai giustificare una violenza.

Questa disparità di percezione evidenzia la necessità di una maggiore educazione e sensibilizzazione sulle tematiche della violenza di genere, non solo per proteggere le giovani donne ma anche per rieducare i giovani uomini a una cultura del rispetto e della parità. I dati di Eumetra, dunque, non solo raccontano una realtà preoccupante, ma lanciano un appello urgente a tutta la società per un cambiamento profondo e strutturale.

“Questa ricerca, mai effettuata prima d’ora, – racconta Stefania Bartoccetti, fondatrice di Telefono Donna – rivela il grado di consapevolezza dei giovani nei confronti del rispetto delle donne ed è un atto dovuto per affrontare il tema della violenza in maniera preventiva”.

L’impatto di social e trap

Un aspetto cruciale emerso dall’indagine condotta da Eumetra riguarda l’influenza dei social media e della musica trap sull’immagine e sul trattamento delle donne nella società contemporanea. Secondo i risultati, quattro ragazze su dieci ritengono che i social media contribuiscano a dipingere una visione negativa delle donne, mentre oltre la metà delle intervistate crede che questi strumenti favoriscano comportamenti offensivi. Dall’altro lato, solo il 10% dei ragazzi attribuisce ai social media la responsabilità di creare una visione distorta delle donne.

Similmente, la musica trap è stata identificata come una fonte di contenuti che spesso trivializzano o riducono le donne a stereotipi sessualizzati. Secondo il 40% delle ragazze intervistate, i testi delle canzoni trap contribuiscono a diffondere un’immagine poco rispettosa delle donne. Questo dato contrasta con l’opinione di solo il 20% dei ragazzi, indicando una percezione differenziata tra i generi riguardo al modo in cui la musica influisce sulla percezione delle donne nella società.

La paura nelle relazioni

La paura di subire violenza o molestie non si limita ai contesti pubblici, ma permea anche le relazioni interpersonali delle giovani donne italiane. Secondo l’indagine, il 56% delle ragazze teme i partner gelosi come potenziali minacce. Questo timore è praticamente assente tra i ragazzi, evidenziando una disparità di percezione tra i sessi riguardo alle dinamiche di controllo e di violenza all’interno delle relazioni sentimentali.

Questa paura influisce profondamente sulle decisioni quotidiane delle giovani donne. Quasi tre ragazze su dieci hanno ammesso di aver fatto rinunce, come modificare il proprio abbigliamento o limitare la propria vita sociale, per accontentare il partner e prevenire comportamenti potenzialmente aggressivi. Queste scelte non sono solo una risposta alla minaccia percorsa, ma anche un riflesso della pressione psicologica e emotiva che molte ragazze vivono nelle loro relazioni.

La difficoltà della denuncia

L’indagine ha rivelato le complesse dinamiche che circondano la denuncia delle violenze subite dalle giovani donne italiane. Nonostante l’alto livello di consapevolezza riguardo ai rischi e alle paure legate alla violenza, molte giovani donne affrontano significativi ostacoli nel processo di denuncia.

Un primo ostacolo critico è rappresentato dalla reticenza delle vittime, che spesso preferiscono tacere per timore di ritorsioni. Questo atteggiamento riflette una profonda preoccupazione nel confrontarsi con un sistema giudiziario e sociale che potrebbe non offrire il supporto necessario. Come sottolineato da Renato Mannheimer, Advisory Board Consultant di Eumetra, “Mi ha molto colpito che, secondo le ragazze, il tema della violenza sulle donne è molto sottovalutato, soprattutto dagli uomini, dalla classe politica e dalla Chiesa”. Questa percezione può contribuire a un clima generale di sfiducia verso le istituzioni.

In aggiunta, la ricerca ha evidenziato come alcuni ragazzi intervistati ritengano che una donna sia in parte responsabile se rimane con un partner violento senza denunciarlo. Questa opinione riflette una mancanza di comprensione delle dinamiche complesse che spesso caratterizzano le relazioni abusive, come il controllo psicologico e le minacce di violenza futura.

Altro ostacolo significativo è la mancanza di supporto istituzionale e sociale efficace. Le giovani donne possono temere di non essere credute o di non ricevere il sostegno necessario dalle autorità competenti, il che può dissuaderle ulteriormente dalla denuncia.

Affrontare queste sfide richiede un impegno continuo da parte di istituzioni, organizzazioni e società civile per migliorare l’accesso alla giustizia e garantire un supporto completo alle vittime di violenza di genere. La sensibilizzazione e l’educazione sono essenziali per promuovere una cultura di rispetto e di protezione per tutte le donne che vivono esperienze di violenza.

Educazione sentimentale e sessuale

L’indagine esplora anche l’educazione affettiva e sessuale, rivelando un divario significativo tra ragazzi e ragazze. Secondo i dati raccolti, c’è una differenza marcata tra ragazze e ragazzi riguardo all’informazione e alla formazione emotiva e sessuale. Le ragazze emergono come più coinvolte e informate riguardo all’educazione affettiva. Per il 60% di loro, l’educazione affettiva si definisce come la capacità di relazionarsi con rispetto e di gestire i propri sentimenti. Queste informazioni sono spesso acquisite attraverso internet, ma anche tramite l’influenza di insegnanti e genitori, soprattutto nelle fasce di età più giovani, come dimostrato dai dati relativi alle giovanissime tra i 16 e i 17 anni.

Nel contesto dell’educazione sessuale, i dati evidenziano una prevalenza del passaparola e dei media digitali rispetto al coinvolgimento degli adulti. Mentre la figura degli insegnanti e dei genitori rimane importante, solo il 20% dei ragazzi indica di ricevere informazioni significative da questi canali. Inoltre, il 40% dei ragazzi ammette di considerare la pornografia come una fonte d’informazione, contrapposta a soli due ragazzi su dieci tra le ragazze.

Questi dati mettono in luce la necessità di un approccio educativo più completo e informato riguardo alle relazioni affettive e sessuali. Educare i giovani su come sviluppare relazioni rispettose e consensuali è cruciale per contrastare stereotipi dannosi e promuovere una cultura di rispetto reciproco. L’educazione deve essere inclusiva, riflettendo la diversità delle esperienze e delle identità, e deve fornire gli strumenti per affrontare le sfide emotive e sociali che i giovani incontrano nella loro crescita.

Collegando questo approccio educativo alla tematica della violenza di genere, è essenziale garantire che l’educazione sentimentale e sessuale non solo informi, ma anche trasformi le norme culturali e sociali, preparando le nuove generazioni a costruire relazioni sane e rispettose in un contesto di pari opportunità e dignità per tutti.

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Discriminazioni LGBT+ sul lavoro, la realtà italiana

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Le persone LGBT+ in Italia affrontano ancora sfide significative nel mondo del lavoro, nonostante i progressi nelle politiche di inclusione. Questa è la cruda realtà che emerge dalla pubblicazione “Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ e le diversity policy“, frutto di un progetto di ricerca quinquennale condotto da Istat e UNAR dal 2018 al 2023. Con dati alla mano e analisi approfondite, questo lavoro getta luce sulle barriere che ostacolano la piena integrazione delle persone LGBT+ nel contesto lavorativo italiano.

La produzione editoriale dell’Istituto di Statistica integra i report Istat-UNAR del 2022 e 2023, offrendo una visione complessiva delle discriminazioni basate su orientamento sessuale, identità di genere ed espressione, e caratteristiche sessuali. Le indagini rivelano che il 23% delle persone LGBT+ ha subito discriminazioni durante la ricerca di lavoro e il 19% ha subito trattamenti ingiusti sul posto di lavoro. Inoltre, il 12% ha riferito di aver subito molestie o comportamenti offensivi da colleghi o superiori​.

Diversity policy nelle imprese italiane

Le politiche di diversity management nelle imprese italiane sono variabili e spesso insufficienti. Il progetto ha rilevato che solo il 45% delle grandi aziende e il 20% delle piccole e medie imprese hanno implementato politiche specifiche per l’inclusione delle persone LGBT+. Queste politiche comprendono programmi di sensibilizzazione, formazione specifica per il personale e la creazione di gruppi di supporto interni​.

Le aziende che adottano politiche più avanzate tendono a creare un ambiente lavorativo più inclusivo e rispettoso, riducendo significativamente le esperienze di discriminazione. Tuttavia, molte aziende italiane sono ancora all’inizio del loro percorso di inclusione e necessitano di maggiore supporto e consapevolezza​.

Percezioni degli stakeholder

Le interviste agli stakeholder, che includono datori di lavoro, responsabili delle risorse umane e rappresentanti delle associazioni LGBT+, mostrano una crescente consapevolezza dell’importanza delle politiche di inclusione. Tuttavia, c’è ancora molta strada da fare: il 30% degli intervistati ha dichiarato di non avere una conoscenza approfondita delle tematiche LGBT+ e delle necessità specifiche di questa comunità.

Gli stakeholder sottolineano la necessità di un maggiore impegno da parte delle istituzioni e delle aziende per combattere le discriminazioni e promuovere la diversità. Emerge chiaramente la richiesta di strumenti legislativi più robusti e di campagne di sensibilizzazione per migliorare la percezione e l’accettazione delle persone LGBT+ nel contesto lavorativo​.

Emerge, insomma, che, nonostante i progressi, c’è ancora molto da fare per garantire un ambiente lavorativo veramente inclusivo per le persone LGBT+ in Italia. Le politiche di diversity devono essere ulteriormente rafforzate e integrate con misure concrete che affrontino le discriminazioni strutturali e culturali ancora presenti.

Tra le raccomandazioni emergenti dal progetto, vi è l’importanza di promuovere la formazione continua su temi di inclusione e diversità, migliorare la raccolta di dati sulle esperienze delle persone LGBT+ nel lavoro, e incoraggiare un dialogo costante tra imprese, istituzioni e comunità LGBT+ per sviluppare strategie efficaci di inclusione​.

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