Salute e Benessere
Nuova posizione pediatri su rischi creme solari, Iss prende...
Nuova posizione pediatri su rischi creme solari, Iss prende le distanze
L'Istituto citato da Acp ha precisato su Facebook: "Vanno usate quando l'esposizione è inevitabile non perché siano considerate pericolose, ma perché la loro efficacia è limitata per vari motivi'. Manetti (Acp): "Piena collaborazione con l'Iss, crediamo nel nostro documento e serve un confronto con tutte le società scientifiche coinvolte"'
Continua a far discutere il nuovo 'position paper' dell'Associazione culturale pediatri (Acp) sui rischi per la salute da filtri e creme solari. Dopo le polemiche su X, è arrivato un chiarimento dell'Istituto superiore di sanità. L'Iss, citato dall'Acp nel suo documento, è intervenuto sulla pagina Facebook 'Acp per famiglie' rispondendo ad una utente che chiedeva se l'Iss fosse d'accordo con quanto scritto dai pediatri. "L'Istituto Superiore di Sanità è citato nel 'position paper' ma nessuno dei suoi esperti è stato consultato nella preparazione del documento, pertanto le posizioni espresse non possono essere associate a quelle dell'Istituto", si legge nel chiarimento dell'Iss.
"Nessun conflitto con l'Iss" sulla questione dei rischi delle creme solari, "anzi piena collaborazione e ringraziamo l'Isituto per aver sollecitato un confronto su questo argomento. Precisiamo che il nostro 'position paper' riporta come fonte le dichiarazioni dell'Iss pubblicate sul proprio sito (www.epicentro.iss.it/uv/), in cui si legge 'ricordare che le creme solari non servono per stare di più al sole, ma per proteggersi quando l'esposizione è inevitabile'". Così all'Adnkronos Salute Stefania Manetti, presidente dell'Associazione culturale pediatri (Acp), spegne le polemiche sul documento che prima ha scatenato la discussione sui social e poi ha portato alla precisazione dell'Iss, citato nel documento.
I pediatri Acp vogliono mettere fine alle polemiche, ma confermano la bontà del paper: "Continueremo su questa strada" e rispetto al messaggio ai genitori "saremo molto chiari, perché serve una comunicazione semplice, ma efficace". La presidente Manetti richiama inoltre la necessità di "un confronto aperto" sul tema delle creme solari, del loro uso e dei rischi, "con tutte le società scientifiche interessate", quindi pediatri e dermatologi e la possibilità che si arrivi a nuove linee guida. L'Acp infatti chiudeva il documento con un auspico: "Diventa fondamentale individuare la migliore strategia in merito onde evitare che la soluzione sia peggiore del problema. A nostro avviso, tutte le figure medico-scientifiche (medici, dermatologi, pediatri, formulatori, aziende produttrici), sedute a un tavolo virtuale, dovranno dare inizio a un nuovo confronto, adoperarsi a individuare la giusta soluzione, individuando anche nuovi canoni di comportamento, generando proficue sinergie".
Tornando al chiarimento dell'Iss, "le creme solari vanno usate quando l'esposizione è inevitabile non perché siano considerate pericolose, ma perché la loro efficacia è limitata per vari motivi. Perché la protezione dagli Uv non è al 100% (una crema con Spf 15 fa passare nella pelle il 7% degli Uv, una con Spf 30 il 3%, una con Spf 50 il 2%), perché le persone non le utilizzano come previsto (cioè usandone in quantità adeguata e ripetendone l'applicazione come suggerito, questo anche per via del costo delle creme) e perché danno un falso senso di sicurezza che porta le persone a prolungare l'esposizione". Per questo "devono essere considerate come l'ultimo presidio quando tutte le altre misure preventive non vengono adottate (per scelta o per impossibilità, consideriamo che ci sono anche persone che lavorano sotto il sole, non si parla solo di esposizioni 'ricreative'). Una volta che si renda necessario l'utilizzo di creme solari, allora queste non vanno usate 'il meno possibile', ma al contrario 'il più possibile', spalmandole in maniera abbondante e ripetendone l'applicazione"
Il position paper dell'Acp evidenziava invece che "esporci al sole fa bene, ma le scottature vanno assolutamente evitate, specialmente in giovane età. Per evitare le scottature però, l'unica strada non può e non deve essere il filtro solare, che può presentare rischi sottovalutati per la salute". Il documento è firmato da un team di pediatri e dermatologi, che ha preso in considerazione le ultime ricerche scientifiche disponibili in fatto di filtri solari. "Una revisione degli studi scientifici fino ad oggi condotti non ha dimostrato che l'uso di filtri Uv sia associata a un minor rischio di cancro alla pelle", si legge nel documento.
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Disturbi apprendimento, psicologa: “Più diagnosi ma...
Le diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) per i bambini e i ragazzi della scuola primaria e secondaria sono in costante e progressivo aumento da oltre 10 anni. Il numero di alunni con Dsa - secondo gli ultimi dati del ministero dell'Istruzione pubblicati nel 2022 - è passato dallo 0,9% dell’anno scolastico 2010/2011 (anno della legge sul tema) al 5,4% nel 2020/2021. "Questi dati evidenziano una crescita ma sarebbe un errore parlare di fenomeno 'esplosivo' o 'fuori controllo'. Sicuramente c'è più attenzione ma c'è anche molto sommerso ancora", spiega all'Adnkronos Salute Deny Menghini, responsabile Psicologia presso la Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza all'ospedale Bambino Gesù di Roma.
Partiamo dalla dimensione del problema, suggerisce Menghini. "In Italia non esistono veri e propri dati epidemiologici. Ma abbiamo un importante lavoro di letteratura scientifica - pubblicato qualche anno fa su Plos one da un gruppo di ricercatori di diverse università italiane - che ha riportato un'analisi su 11.000 bambini. Valutando solo la presenza di dislessia, tra i piccoli dagli 8 ai 10 anni, si è arrivati ad una percentuale del 3,5%. I dati del del 2021, ultimi disponibili, basati sui certificati che vengono consegnati alla scuola e registrati, ci dicono che rispetto alla dislessia la certificazione fornita è del 2,8%. Siamo quindi ancora parecchio sotto la percentuale di diagnosi 'attese'. Se è vero che è aumentata la rilevazione e la percentuale di bambini che presentano la certificazione alla scuola, non abbiamo, nel complesso, una rilevazione completa dei bambini che hanno questo disturbo".
Inoltre, "gli unici dati della letteratura riguardano la sola dislessia, il solo il disturbo di lettura. Non sappiamo niente rispetto alla prevalenza del disturbo di scrittura o di calcolo in Italia". Difficile e poco utile anche utilizzare dati internazionali. "Per esempio non possiamo dire quanti bambini con dislessia ci sono nel mondo perché è un problema lingua-dipendente". Dal punto di vista della richiesta di certificazione, però, "sicuramente c'è la percezione generale di un aumento di diagnosi che non vuol dire, ribadisco, che il problema stia crescendo".
Rispetto al trend di crescita delle certificazioni è importante ricordare che, aggiunge Menghini, "prima del 2010 in Italia non avevamo una normativa ad hoc sui disturbi dell'apprendimento, avevamo solo delle circolari ministeriali. Molto raramente si presentavano certificazioni. C'era una risposta parziale alle richieste di genitori e scuola, non si potevano applicare misure dispensative e gli strumenti compensativi. In seguito, e in maniera costante, è aumentata la richiesta di valutazione, ma i dati, seppure parziali, ci dicono comunque che le percentuali non sono esagerate".
Va evidenziata però la disomogeneità territoriale. "Abbiamo, come in molti altri ambiti, una situazione a macchia di leopardo. La percentuale di diagnosi che ricevono le scuole, va - a seconda delle Regioni - dal 1% fino al 9%", rimarca.
In ogni caso oggi rileviamo "sicuramente più attenzione a questo tipo di disturbi, dalle elementari all'università. I dati del Miur indicano, poi, un numero superiore di certificazioni nella scuola secondaria rispetto alla scuola primaria. Questo vuol dire che quando ci dovremmo accorgere del problema non lo facciamo in tempo. Lo facciamo in ritardo. Questo è un elemento di riflessione importante", conclude.
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Aviaria, allo studio test per bovini e latte crudo in...
Test sperimentali per la ricerca del virus dell'aviaria su bovini e latte crudo, con l'obiettivo "di produrre dati scientifici utili a una valutazione del rischio e per una precisa diagnosi, qualora dovessero presentarsi eventuali riscontri sul territorio nazionale di casi analoghi a quelli statunitensi". In seguito all diffusione del virus influenzale H5N1 ad alta patogenicità negli allevamenti degli Stati Uniti, gli Istituti zooprofilattici sperimentali delle Venezie (Izsve) e della Lombardia ed Emilia-Romagna (Izsler), che fanno parte della Rete degli zooprofilattici sperimentali italiani, in accordo con il ministero della Salute, si sono infatti resi disponibili a organizzare test sperimentali.
Gli studi, si legge in una nota, "mirano ad ampliare il quadro delle conoscenze scientifiche attualmente a disposizione e a fornire una risposta efficace e tempestiva in caso di rischio sanitario, attraverso metodi di laboratorio validati". Ma, allo stato attuale "non vi è alcuna evidenza di infezione, neanche pregressa, nella popolazione bovina in Europa. La circolazione del virus H5N1 nelle vacche da latte ad oggi è stata segnalata solo negli Stati Uniti". Intanto "nelle ultime settimane il Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria (Crn-Ia) dell’Izsve ha messo a punto test virologici e sierologici per la corretta diagnosi di infezione da virus H5N1 Hpai nei bovini".
Attualmente, "il Centro sta eseguendo un’indagine sierologica per verificare se nei territori italiani dove nelle precedenti stagioni si sono concentrati i focolai di influenza aviaria nel pollame e nei volatili selvatici vi sia stata un’esposizione dei bovini da latte al virus H5N1 ad alta patogenicità, mediante la ricerca di anticorpi specifici nel loro sangue". Ad oggi, sono stati esaminati oltre 3.200 bovini delle province di Verona, Vicenza e Padova, tutti con esito negativo.
I risultati preliminari dell'attività sperimentale saranno comunicati nelle prossime settimane
Le analisi condotte negli Stati Uniti hanno evidenziato che l’infezione dei bovini da latte determina la presenza del virus nel latte prodotto durante l’infezione. Per prevenire la trasmissione del virus all’uomo, le autorità statunitensi hanno disposto che il latte e tutti i derivati provenienti dagli allevamenti infetti siano sottoposti a pastorizzazione. Questa misura di trattamento termico del latte è considerata idonea a rendere non attivo il virus infettante eventualmente presente. Nel nostro Paese vengono prodotti formaggi anche a partire da latte non pastorizzato, tra questi i formaggi a latte crudo stagionati, di grande rilevanza nel panorama agroalimentare nazionale e internazionale.
Il processo produttivo di questi formaggi prevede una serie di passaggi che, sulla scorta di numerosi studi condotti in precedenza su altri microrganismi, appaiono idonei a eliminare l’infettività del virus qualora anche allevamenti da latte italiani dovessero infettarsi. Queste fasi con potere inattivante sono la scrematura iniziale del latte, la coagulazione, la cottura e la giacenza sotto siero della cagliata, la salagione del formaggio e la sua stagionatura per molti mesi o persino anni. Al fine di fornire evidenze scientifiche della effettiva capacità di ridurre adeguatamente il rischio infettante, l’Izsler sta conducendo sperimentazioni per misurare l’abbattimento del virus nel processo di produzione dei formaggi a latte crudo stagionati.
I risultati preliminari indicano come già con la sola componente termica del processo si ottiene un deciso abbattimento della carica virale nel latte. Aggiornamenti sui risultati preliminari della sorveglianza negli animali e delle attività sperimentali sul latte crudo saranno comunicati nelle prossime settimane", continua la nota ribadendo che "sulla base delle informazioni fin qui raccolte l’Oms continua a ritenere basso il rischio attuale per la popolazione umana rappresentato dal virus H5N1 e da basso a moderato il rischio per le persone che possono essere esposte ad animali infetti, come allevatori, veterinari e operatori del settore".
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Sanità, chirurghi: “Giovani fuggono da professione,...
“Contenzioso medico legale, turni massacranti, formazione insufficiente, scarso riconoscimento economico: le Istituzioni nazionali e regionali devono farsi carico del problema dei giovani che non scelgono più le specializzazioni in chirurgia. Se nel 2023 quasi il 55% delle borse di studio per la specializzazione in Chirurgia generale non è stato assegnato, significa che c’è un problema enorme in questo Paese: tra qualche anno, non tra decenni, le sale operatorie chiuderanno per assenza di chirurghi. Un’assenza evidentemente voluta da qualcuno, non scelta dai nostri ragazzi. Perché un sistema che non si preoccupa dello scenario attuale, delle difficoltà che contornano chi sceglie questa professione, è un sistema destinato a fallire. E fallirà perché i giovani sceglieranno altre branche della medicina, oppure lavoreranno nel privato o, peggio, andranno all’estero mentre noi, già oggi, passiamo il tempo a reclutare personale sanitario dall’estero. Tutto questo è paradossale". Lo afferma il neo-presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri italiani (Acoi), Vincenzo Bottino, annunciando in una nota la richiesta di incontri, dalla prossima settimana, al presidente del Consiglio Giorgia Meloni e a tutti i presidenti di Regione.
"Vogliamo chiarire a chi governa il Paese - sottolinea - che le scelte che verranno fatte oggi incideranno violentemente sulla vita delle persone. Se le cose continueranno così i cittadini di molte regioni italiane si troveranno tra pochi anni di fronte a sale operatorie chiuse".
L’Acoi, "la più grande società scientifica di chirurgia ospedaliera italiana, ovviamente farà come sempre la sua parte - chiosa Bottino - già dal prossimo autunno costruiremo appuntamenti di confronto, formativi, di sensibilizzazione verso gli studenti, verso le associazioni dei pazienti e verso le Istituzioni per far comprendere il rischio reale che sta correndo il Servizio sanitario nazionale ma anche per ringraziare i giovani chirurghi per il coraggio, l’abnegazione, per il senso che danno alla nostra professione, cioè salvare vite umane. Ma ci aspettiamo il massimo dell’impegno anche dalle Istituzioni”.