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Perché il bonus mamme non decolla?

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Immaginate di poter ricevere un bonus di tremila euro all’anno solo per essere madri lavoratrici. Sembra una manna dal cielo, vero? Si tratta del bonus mamme introdotto dal governo Meloni, non richiesto, però, dal 40% delle lavoratrici con due o tre figli. Un’opportunità sfuggita di mano o una misura mal comunicata? I dati dell’Inps relativi ai primi cinque mesi del 2024 offrono uno sguardo su questa vicenda, rivelando le ragioni dietro la mancata adesione di molte donne.

Un’opportunità non colta da molte

A fine maggio 2024, solo 484.730 lavoratrici avevano richiesto il bonus mamme, nonostante la platea delle aventi diritto fosse significativamente più ampia, contando 793 mila potenziali beneficiarie tra dipendenti pubbliche, private e lavoratrici agricole a tempo indeterminato. Le lavoratrici precarie, autonome e domestiche, tuttavia, sono escluse da questa misura, il che riduce ulteriormente la possibilità di raggiungere una parte consistente della forza lavoro femminile.

Una delle ragioni dietro il basso tasso di adesione potrebbe essere la confusione generata dalla gestione di due differenti bonus mamme. Il primo, destinato alle madri con tre o più figli, è valido fino al 2026, mentre il secondo, riservato a quelle con due figli, uno dei quali sotto i dieci anni, scade a fine 2024. Questa distinzione ha creato incertezza tra le lavoratrici, amplificata dall’obbligo di presentare una domanda formale al datore di lavoro, un passaggio che molte non avevano previsto.

Solo 142 euro al mese nelle tasche delle mamme

La scoperta che il bonus di tremila euro è lordo e corrisponde solo a circa 1.700 euro netti ha deluso molte lavoratrici. Questo importo, distribuito mensilmente, si traduce in un aumento di circa 142 euro al mese, un contributo significativo ma non rivoluzionario. Inoltre, per ottenere il massimo beneficio, è necessario avere una retribuzione annua lorda superiore a 27.500 euro; chi guadagna meno riceve proporzionalmente di meno. L’aumento effettivo della busta paga è ulteriormente influenzato dalla decontribuzione generale del 6-7% prevista per il 2024, il che significa che l’incremento potrebbe essere inferiore rispetto alle aspettative.

Il bonus erogato dall’Inps è accessibile anche a dirigenti e funzionarie, senza limiti di reddito. Tuttavia, molte lavoratrici con redditi superiori ai 35 mila euro hanno erroneamente pensato di non aver diritto all’agevolazione, a causa di informazioni fuorvianti. Inoltre, la scarsa pubblicità della misura ha contribuito alla limitata adesione, lasciando potenzialmente inutilizzati parte dei 450 milioni di euro stanziati per questo scopo.

Un’analisi delle categorie di lavoratrici rivela differenze significative nell’adesione al bonus. Solo il 37% delle lavoratrici agricole a tempo indeterminato ha fatto richiesta dell’agevolazione, mentre la percentuale tra le dipendenti pubbliche è del 56%. Nel settore privato, il 62% delle lavoratrici aventi diritto ha presentato domanda.

Un bonus con tante ombre

Il bonus mamme 2024, pur essendo stato concepito per sostenere le lavoratrici con figli, ha sollevato diverse critiche. Una delle principali riguarda l’esclusione delle lavoratrici domestiche, autonome, libere professioniste e quelle con contratti a termine. Inoltre, l’esonero contributivo può comportare la riduzione di altre misure di sostegno come l’assegno unico o un aumento dell’Irpef, che potrebbero annullare parzialmente i benefici del bonus. Le simulazioni mostrano che l’incremento effettivo dello stipendio netto potrebbe essere inferiore alle aspettative a causa di imposte aggiuntive.

L’implementazione del bonus ha incontrato ostacoli burocratici che hanno causato ritardi nell’erogazione. A gennaio 2024, molte lavoratrici non avevano ancora ricevuto il bonus nelle loro buste paga a causa della mancata pubblicazione tempestiva della circolare Inps necessaria per l’attuazione della misura. Questo ritardo ha ulteriormente complicato la situazione, generando insoddisfazione e confusione tra le beneficiarie.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Aspettativa di vita in aumento, ma qualità della vita in...

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L’aspettativa di vita globale è destinata a salire vertiginosamente. Gli uomini vedranno un incremento di 4,9 anni, mentre per le donne l’aumento sarà di 4,2 anni tra il 2022 e il 2050. Lo rivela il Global Burden of Disease Study (GBD) 2021, nel suo studio, pubblicato su The Lancet, effettuato con l’obiettivo di quantificare le tendenze sanitarie. Queste previsioni sono basate su un’analisi dettagliata dei dati di salute provenienti da 204 paesi e territori.

Crescita dell’aspettativa di vita

Il balzo significativo dell’aumento della prospettiva di via indica un miglioramento complessivo delle condizioni di salute a livello mondiale. Questo incremento sarà particolarmente pronunciato nei paesi con aspettative di vita attualmente inferiori, contribuendo a ridurre le disuguaglianze sanitarie tra diverse regioni geografiche.

Le cause di questo miglioramento sono molteplici e includono l’adozione di misure di sanità pubblica efficaci che hanno ridotto la mortalità per malattie cardiovascolari, Covid-19, e un ampio spettro di malattie trasmissibili, materne, neonatali e nutrizionali. Inoltre, il miglioramento delle infrastrutture sanitarie, l’aumento dell’accesso alle cure mediche di qualità e l’implementazione di programmi di prevenzione hanno giocato un ruolo cruciale.

Un altro fattore determinante è stato il progresso nella lotta contro le malattie infettive. La distribuzione globale di vaccini, i miglioramenti nella gestione delle emergenze sanitarie e l’adozione di pratiche igieniche più rigorose hanno contribuito a ridurre la diffusione e la mortalità di molte malattie infettive. Anche la gestione efficace delle malattie croniche non trasmissibili come il diabete, le malattie respiratorie croniche e il cancro ha contribuito significativamente al prolungamento della vita.

Il Dr. Chris Murray, presidente delle Scienze Metriche della Salute all’Università di Washington e direttore dell’Istituto per la Misurazione e la Valutazione della Salute (IHME), ha sottolineato che, nonostante le persistenti disuguaglianze sanitarie tra le regioni a basso e alto reddito, il divario nell’aspettativa di vita sta diminuendo. Questo è un segnale positivo che indica una convergenza globale verso una maggiore longevità.

Tuttavia, è importante notare che l’aumento dell’aspettativa di vita non è esente da sfide. Mentre più persone vivranno più a lungo, si prevede anche un aumento degli anni vissuti in condizioni di salute non ottimali. Questo spostamento comporta un passaggio da anni di vita persi ad anni vissuti con disabilità, il che evidenzia la necessità di affrontare non solo la durata della vita, ma anche la qualità della vita stessa.

Il passaggio dalle malattie trasmissibili alle non trasmissibili

Lo studio evidenzia anche un cambiamento continuo del carico di malattia dalle malattie trasmissibili alle malattie non trasmissibili, come le malattie cardiovascolari, il cancro, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e il diabete. Questo passaggio è il risultato di miglioramenti significativi nella prevenzione e nel trattamento delle malattie infettive, che hanno ridotto la loro prevalenza e gravità. Tuttavia, l’aumento dell’aspettativa di vita e le trasformazioni nello stile di vita hanno portato a un incremento delle malattie non trasmissibili, le quali richiedono un approccio sanitario diverso e più complesso.

Fattori di rischio associati alle malattie non trasmissibili, come l’obesità, l’ipertensione, una dieta non ottimale e il fumo, avranno il maggiore impatto sul carico di malattia della prossima generazione. L’urbanizzazione crescente, i cambiamenti nelle abitudini alimentari, l’aumento della sedentarietà e l’invecchiamento della popolazione sono tutti elementi che contribuiscono all’aumento delle malattie non trasmissibili. Questo spostamento comporta un’importante sfida per i sistemi sanitari globali, che devono adattarsi a una nuova realtà in cui la gestione delle malattie croniche e la promozione di stili di vita sani diventano prioritarie.

Per affrontare efficacemente il carico crescente delle malattie non trasmissibili, sono necessarie politiche sanitarie mirate che promuovano la prevenzione e la gestione dei fattori di rischio. Interventi come la riduzione del consumo di tabacco, la promozione di diete equilibrate e di attività fisica regolare, e il miglioramento dell’accesso a cure mediche di qualità per condizioni croniche, possono contribuire a ridurre l’impatto delle malattie non trasmissibili. In questo contesto, è fondamentale un approccio integrato che coinvolga non solo il settore sanitario, ma anche politiche educative, urbane e alimentari, per creare ambienti favorevoli a uno stile di vita sano e sostenibile.

Proiezioni di salute globale

L’aspettativa di vita globale è prevista aumentare da 73,6 anni nel 2022 a 78,1 anni nel 2050, registrando un incremento di 4,5 anni. Tuttavia, la speranza di vita in buona salute mostrerà un aumento più modesto, passando da 64,8 anni nel 2022 a 67,4 anni nel 2050, con un guadagno di soli 2,6 anni.

Le proiezioni indicano che la gestione delle malattie croniche non trasmissibili diventerà una priorità sempre più critica, con un impatto crescente sul carico di malattia globale. Di conseguenza, l’attenzione si sposterà dal semplice aumento della durata della vita alla promozione di una vita sana e attiva.

La ricerca evidenzia inoltre che, mentre i tassi di mortalità per molte malattie infettive e carenze nutrizionali continuano a diminuire grazie ai progressi nella sanità pubblica, il carico delle malattie si sta gradualmente spostando verso condizioni croniche e disabilità. Questo cambiamento richiederà una nuova strategia globale che integri prevenzione, trattamento e gestione delle malattie croniche non trasmissibili, nonché un rafforzamento dei sistemi sanitari per affrontare le crescenti esigenze di una popolazione in invecchiamento. Infine, le proiezioni mostrano che, pur con un miglioramento complessivo delle condizioni di salute, esisteranno ancora disparità significative tra diverse regioni del mondo.

Riduzione del carico di malattia globale

Secondo il dottor Stein Emil Vollset, primo autore dello studio e leader dell’Unità Collaborativa GBD presso l’Istituto Norvegese di Sanità Pubblica, “gli effetti previsti a livello globale sono più forti nello scenario ‘Miglioramento dei Rischi Comportamentali e Metabolici’, con una riduzione del carico di malattia del 13,3% nel 2050 rispetto allo scenario ‘di riferimento’”. Questo scenario si focalizza sulla mitigazione dei principali fattori di rischio legati alle malattie non trasmissibili, come l’obesità, l’ipertensione, la dieta non ottimale e il fumo. La riduzione del carico di malattia rappresenta una misura combinata degli anni di vita persi a causa di morte prematura e degli anni vissuti con disabilità, offrendo una visione completa dell’impatto delle malattie sulla popolazione.

Le politiche di intervento mirate a migliorare i comportamenti e i rischi metabolici hanno dimostrato di avere un impatto significativo, riducendo non solo la prevalenza delle malattie non trasmissibili ma anche migliorando la qualità della vita e l’aspettativa di vita sana. Inoltre, l’adozione di politiche sanitarie proattive può portare a un miglioramento significativo della salute globale. Ad esempio, campagne di sensibilizzazione e educazione sanitaria, l’accesso a cure preventive e trattamenti efficaci, e l’implementazione di regolamenti più rigidi contro i comportamenti dannosi sono strategie che possono contribuire a questa riduzione del carico di malattia.

La ricerca evidenzia l’importanza di un approccio integrato e multisettoriale per affrontare le sfide sanitarie globali. Le collaborazioni tra governi, organizzazioni sanitarie e comunità locali sono essenziali per sviluppare e implementare interventi efficaci.

Scenari alternativi

Gli autori dello studio hanno analizzato vari scenari alternativi per confrontare i possibili risultati di salute se diverse misure di sanità pubblica potessero eliminare l’esposizione a diversi gruppi di fattori di rischio entro il 2050. I tre scenari principali analizzati sono:

ambiente più sicuro: prevede la riduzione delle esposizioni ambientali nocive, come l’inquinamento dell’aria e l’esposizione a sostanze chimiche pericolose;
miglioramento della nutrizione infantile e vaccinazione: l’accento è posto sul miglioramento della nutrizione nei bambini e sull’aumento della copertura vaccinale;
miglioramento dei rischi comportamentali e metabolici: mira a ridurre i fattori di rischio come il fumo, l’obesità e la pressione alta con interventi che promuovono stili di vita più sani.

Vollset ha osservato che lo scenario con il maggiore impatto globale sulla riduzione del carico di malattia (misurato in anni di vita persi per disabilità e morte prematura, o riduzione del carico di malattia) è quello del miglioramento dei rischi comportamentali e metabolici. Questo scenario prevede una riduzione del 13,3% del carico di malattia nel 2050 rispetto allo scenario di riferimento. Tuttavia, anche gli altri scenari mostrano riduzioni significative del carico di malattia, dimostrando la necessità di progressi continui e risorse dedicate in queste aree cruciali.

La combinazione di questi scenari offre una visione ottimistica delle possibilità di miglioramento della salute globale attraverso interventi mirati e coordinati, sottolineando l’importanza di politiche sanitarie proactive e basate su evidenze.

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Giornata del bikini, storia e origini di un’icona della moda

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Il bikini compie 78 anni. L’iconico costume da bagno, oggi tra i più indossati al mondo, ha una storia e origini lontane e nel corso degli anni ha assunto significati via via sempre diversi. Dalla voglia di emancipazione delle donne, sempre “costrette” a coprirsi per il buon costume, fino alla denominazione che richiama un ordigno esploso sulle isole Marshall durante la Seconda guerra mondiale: ecco come è evoluto e come si è trasformato questo capo di abbigliamento.

La nascita del bikini da spiaggia

Louis Reard e Jacob Heim sono i due stilisti francesi ai quali si attribuisce la paternità del bikini. Decisero di chiamare questo capo di abbigliamento che gettarono in passerella, come gli ordigni nucleari che fecero esplodere l’atollo ‘Bikini’ nel Pacifico. Un corpo seminudo, rispetto agli standard precedenti, creò non poco scalpore e a indossarlo fu una spogliarellista del Casinò di Parigi, perché nessuna modella volle assecondare la follia degli stilisti.

Da quel momento in poi, però, le donne non l’hanno voluto più togliere e, tra sfilate di moda e attrici al cinema, questo indumento è diventato una vera e propria icona di stile al mare.

Storia del bikini

Il bikini, però, non nasce negli anni Quaranta, ma ha origini ben più antiche. Già presente nei mosaici del III secolo dopo Cristo, l’usanza di indossare un “due pezzi” serviva alle atlete per coprire le zone intime durante le competizioni agonistiche.

Prima di vederlo sulle spiagge mondiali sono trascorsi secoli e sono stati abbattuti divieti e pregiudizi. Prima fu proibito in Spagna, Portogallo e in Italia. Poi il Vaticano lo descrisse come un indumento “peccaminoso” e solo quando le dive degli anni Cinquanta lo indossarono nelle pellicole cinematografiche, fu “liberalizzato”.

Lucia Bosè, nel 1947, lo indossò durante Miss Italia al posto del costume intero, facendolo divenire l’indumento prediletto dal concorso di bellezza. Così come, Brigitte Bardot, in “E Dio creò la donna” (1957) lo indossò con nonchalance. E poi Ursula Andress, uscì dall’acqua in bikini in “Agente 007. Licenza di uccidere” consacrandolo come l’indumento da spiaggia perfetto.

Nel corso degli anni, però, dopo questa prima emancipazione femminile, il bikini è diventata l’ossessione delle donne alle porte dell’estate e della prova costume, tanto da ribattezzare quest’ansia “Bikini blues”.

Bikini blues

Dimagrire per entrare nel bikini, senza pancia o cellulite, ha preso il posto della forza e del potere seduttivo che questo capo di abbigliamento ha rappresentato per oltre un secolo. Bikini blues è il termine coniato per indicare proprio la paura di non essere pronti alla prova costume e dover rimandare all’estate successiva l’indossare l’indumento, prediligendo costumi interi o stoffe coprenti.

Secondo uno studio di MioDottore, il Bikini Blues colpisce il 45% degli italiani, di cui il 60% interessa le persone di sesso femminile, sottoposte maggiormente a giudizio per canoni estetici che non sempre rispecchiano il rapporto tra estetica e salute. Percentuali che non stupiscono se si considera che per l’89% degli italiani l’aspetto esteriore rappresenta un aspetto importante e che meno della metà apprezza i suoi connotati fisici.

La piattaforma di psicologi e psicoterapeuti online, invece, ha sottolineato che negli anni si è andata creando una “Sindrome da Bikini”. Quest’ultima riflette una “condizione psicologica diffusa caratterizzata da una forte ansia per l’apparenza fisica, specialmente in contesti in cui il corpo è esposto, come in spiaggia o in piscina. Gli effetti psicologici possono essere significativi: aumentano l’insicurezza e l’autocritica, alimentando un ciclo di stress e insoddisfazione legata al proprio corpo. Questo può manifestarsi in diversi problemi di salute mentale, tra cui disturbi alimentari, depressione, ansia sociale”.

Il consiglio? Ignorare le critiche, accettare i propri difetti estetici in quanto peculiari e personali e non cedere alla retorica del “se vuoi dimagrire basta volerlo sul serio”. Ogni corpo riflette spesso lo stato della propria mente ed è sufficiente prendersi cura di entrambi attraverso una corretta alimentazione, sport e ricercare ciò che vada meglio per il proprio benessere mentale. In caso di difficoltà, rivolgersi a esperti nei vari settori è la cosa più utile.

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Il caso Giappone, niente festività per i papà

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Paese che vai, festività che trovi. In Giappone, ad esempio, 16 festività (shukujitsu) non includono quelle relative ai ruoli genitoriali, ma solo una in particolare tiene conto della mamma e non del papà. Perché? Il Paese ha la fama di non avere una parità genitoriale nella cura dei figli. Fattore, questo, comune anche in Italia fino a qualche anno fa. Ma come si può invertire il trend e creare una maggiore equità nei ruoli di cura?

“Grati alle madri”

È da poco trascorsa la Festa del Papà in Giappone e il Japan Times, tra i principali quotidiani giapponesi in lingua inglese, ha scritto in merito: “Mentre queste festività “non ufficiali” sono importazioni straniere spesso mascherate da strategie di marketing abilmente camuffate per vendere cioccolatini, fiori e altri regali, gli shukujitsu sono stabiliti da una legge promulgata nel 1948. Tra i 16, quelli che riguardano la famiglia sono il Giorno del rispetto per gli anziani, il terzo lunedì di settembre, e il Giorno dei bambini, il 5 maggio. Mentre il primo è autoesplicativo, il secondo include una formulazione che riflette una forte fissazione sui ruoli di genere”.

L’articolo 2 della legge sulle festività pubbliche, infatti, stabilisce che la giornata dei bambini è un’occasione per i giapponesi di “rispettare la personalità dei bambini e impegnarsi per il loro benessere – ma soprattutto – essere grati alle loro madri“. Madri! E i papà?

La denatalità giapponese: anche una questione di parità di genere

L’aumento della denatalità in Giappone passa anche attraverso uno stereotipo molto radicato nel Paese. E cioè che gli uomini abbiano il compito di lavorare, mentre alle donne spetti il ruolo di cura della casa e della famiglia. Un sondaggio del National Center for Child Health and Developmemnt ha riscontrato che il 95,6% dei padri e partner maschili intervistati sosteneva fosse naturale per le coppie dividere equamente questi i doveri domestici e la gestione dei figli.

Sempre secondo il sondaggio, il 49,7% ha dichiarato che manca un sistema e un ambiente che rendano facile per i padri crescere i propri figli, mentre il 33,1% ha affermato che, nonostante facciano del loro meglio nelle faccende domestiche e nella cura dei bambini, non ricevono alcun riconoscimento.
All’inizio di giugno, il ministero della Salute ha pubblicato le sue ultime statistiche sul tasso di fertilità totale del Giappone. Si tratta del numero medio di nascite per donna durante i suoi anni fertili. La cifra è scivolata per l’ottavo anno consecutivo, raggiungendo un minimo storico pari a 1,20 nel 2023. Nel frattempo, anche il numero di matrimoni ogni 1.000 persone è sceso a 3,9 lo scorso anno, mentre l’età media delle madri che danno alla luce il loro primo figlio è salita a 31,0, rispetto ai 27,5 del 1995.

Numeri che si scontrano, però, con la volontà degli uomini di riprendersi il ruolo che desiderano: (anche) a casa con i propri figli.

E in Europa?

La divisione dei lavori domestici e la parità di genere professionale non sono problemi solo del Giappone. Lo stesso vale anche per molti Paesi d’Europa e per l’Italia stessa in primis. Le statistiche dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere riportano che circa il 91% delle donne con figli dedica almeno un’ora al giorno ai lavori domestici, mentre la percentuale scende al 30% tra gli uomini con figli.

L’Eige ha rilevato anche che le donne con un’occupazione altamente qualificata tendono a cercare più spesso aiuti esterni per le faccende domestiche, a differenza degli uomini che, a parità di qualifiche e titoli di studio, sembrano più restii. Qualcosa però si sta “muovendo”. Nell’ultimo decennio, Francia, Lussemburgo, Italia, Germania e Spagna hanno registrato un netto aumento della parità nei ruoli e nella cura della casa e della famiglia.

In Italia, ad esempio, è pari a 24,9 il divario, in punti percentuali, tra la quota di donne 25-49 che dedicano oltre 50 ore alla settimana alla cura dei figli (32,1%) e i coetanei uomini (7,2%). E a seguito della maternità, nel nostro Paese, è una donna su cinque a dover lasciare il mercato del lavoro per problemi di inconciliabilità tra i ruoli.

La maternità influenza il tasso di occupazione e l’Italia, in merito, ha una media molto più bassa degli altri Paesi Ue: 62,6% a fronte del 76,2% europeo nel 2022. Divari che permangono all’aumentare del numero dei figli.

“Super papà” vs “Equilibriste”

Sono state denominate “Equilibriste” da Save The Children, ma dei “super papà” neanche l’ombra. Avere un figlio cambia la vita, indipendentemente dal genere del genitore. Ma quando si parla delle mamme sembra sempre che ciò sia più impattante. La disparità di genere professionale e nella cura della casa e famiglia, quindi, si è aggiudicata negli anni il podio tra le cause della denatalità crescente in molti Paesi. Disparità di genere che non conviene neppure all’economica e al Pil: l’Ocse ci dice che colmare il gender gap sul piano occupazionale potrebbe aumentare il Pil di circa il 10% entro due decenni o poco più.

L’Ue, per coinvolgere i papà, ha lanciato un progetto che prende il nome di “4E-parent”. L’obiettivo è quello di rendere più partecipi i padri nella gestione della famiglia e nel supporto alla partner. Promuovere, inoltre, una mascolinità accudente attraverso il coinvolgimento concreto dei papà fin dalla gravidanza. La letteratura scientifica sostiene da tempo che il coinvolgimento da subito, pratico ed empatico del padre nella genitorialità ha numerosi esiti positivi sui piani psicofisico e sociale:

• Migliora lo sviluppo cognitivo, sociale e affettivo dei bambini e delle bambine
• Crea fin dall’inizio un forte legame affettivo fra padre e i figli e le figlie
• Migliora la salute psico-fisica dei bambini e delle bambine così come della madre
• Diminuisce i rischi durante la gravidanza e il parto
• Facilita l’allattamento
• Diminuisce le probabilità di violenza domestica
• Contribuisce alla parità fra uomini e donne, anche nella condivisione della cura.

“Le azioni del progetto intendono promuovere una genitorialità equa e responsabile di tutti i genitori, compresi quelli dello stesso sesso, lavorando alla decostruzione degli stereotipi di genere che rendono difficile lo sviluppo di una mascolinità accudente e di una genitorialità ampia e soddisfacente per tutte le componenti della famiglia”.

E tornando al Giappone, alcuni passi per promuovere una maggiore parità di genere sono altrettanto in atto. Il primo ministro Fumio Kishida ha promesso di favorire un aumento della percentuale di donne dirigenti nelle grandi aziende, dall’11,4% al 30% o più, entro il 2030. Mentre, contro la denatalità, ci sono progetti che vanno all’Ai con app governative per aumentare le possibilità di incontri tra le persone, sino a incentivi economici a favore delle famiglie con figli.

Nel Global Gender Report del World Economic Health del 2024, il Giappone si è classificato al 118esimo su 146 Paesi nella classifica del divario di genere. L’Italia occupa l’87esimo posto.

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