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L’Italia come la Francia, Le Pen come Meloni? Ecco tutte le differenze

La più evidente è la linea agli antipodi in politica estera

Marine Le Pen e Giorgia Meloni - Fotogramma

Non importa che il voto sia in Francia, in Grecia o in Papua Nuova Guinea: ci sarà sempre un politico italiano che cercherà di leggerlo in chiave nazionale. Ma quali sono le affinità e le differenze tra l’inedita situazione politica che emerge dalle legislative francesi, e il sorprendentemente stabile mondo italiano?

Fronte repubblicano contro Fronte Nazionale

Il Front National è stato fondato da Jean-Marie Le Pen nel 1972: sono 52 anni che il partito - oggi si chiama Rassemblement National - prova a sfondare il “cordone sanitario” che il sistema istituzionale francese gli ha teso intorno dalla sua nascita, considerandolo al di fuori dell’arco costituzionale e opponendo, a ogni ballottaggio raggiunto da un membro della famiglia Le Pen, il cosiddetto fronte repubblicano, un’alleanza “tutti contro uno” per tenere fuori un movimento, ispirato al MSI italiano, che affonda le sue radici nel petainismo e tra i collaborazionisti di Vichy. Diversamente dagli eredi di Almirante, che nel 1994 arrivarono al governo grazie al crollo della Dc e allo sdoganamento di Berlusconi, passando poi per la svolta di Fiuggi e il viaggio di Gianfranco Fini in Israele, fino al 2015 il Fronte Nazionale non aveva rinnegato un bel niente.

Ma in quell’anno, le frasi sulle camere a gas (“un dettaglio della Seconda Guerra Mondiale”) sono valse a Jean-Marie una multa per antisemitismo e la cacciata dal partito che aveva fondato. La figlia Marine, da tempo in prima linea, ha iniziato allora un processo edipico di “uccisione del padre”, che l’ha portata a bandire ogni ostilità con il popolo ebraico, nonché ad aprire su questioni fino a quel momento inaccettabili per i nostalgici del Fronte: diritti Lgbt, aborto, laicità dello Stato. Storico “l’outing” di Florian Philippot, vicepresidente del partito, che nel 2014 finì in prima pagina del rotocalco “Closer” con il suo compagno. Fu allora che Marine Le Pen iniziò a difendere pubblicamente le scelte “sacre” della vita privata di ognuno.

Una destra moderna ed europea? Non proprio…

L’apertura sui diritti civili, in un Paese peraltro dalla forte connotazione laica e libertaria, non sono però state sufficienti per considerare i lepenisti potabili per gli altri movimenti politici. Tralasciando i programmi degli ultimi 20 anni, in occasione di queste elezioni legislative, il Rassemblement National guidato dal 2022 dal giovane Jordan Bardella, ha incentrato la sua campagna elettorale sull’attacco agli stranieri. Con una serie di proposte unanimemente considerate incostituzionali, che avrebbero messo “i francesi prima di tutto”: nel welfare, nei servizi sociali, nelle graduatorie, indipendentemente dai diritti degli “altri” (residenti ma non di nazionalità francese). Oltre a discorsi molto duri contro la minoranza di origine musulmana e magrebina (oltre sei milioni di persone), Bardella e Le Pen si sono messi ad attaccare i cittadini con doppia nazionalità, sottintendendo una mancata fedeltà alla Repubblica e proponendo di escluderli da ruoli nella pubblica amministrazione (in particolare nei settori difesa, sicurezza, intelligence). Si tratta però di oltre 3,5 milioni di persone che sono parenti, colleghi e amici di altri milioni di francesi. Una proposta che ricorda le leggi che negli anni ’30 colpirono gli ebrei e che ha avuto un effetto notevole nell’impedire al RN di ripetere ai ballottaggi il buon risultato del primo turno.

L’Italia non ha la storia coloniale francese, non vive la stessa frattura culturale e sociale con il mondo islamico, non ha una comunità di persone con doppia cittadinanza numerosa e attiva come la Francia. Il RN, in particolare dopo il flop di Zemmour, si è posizionato come il nemico numero uno della comunità maghrebina, e cerca di attirare i voti sia di chi vive nelle banlieues a contatto con queste comunità, sia di chi le teme a prescindere. Semplificando molto, nel nostro Paese la comunità islamica è meno numerosa, è composta non da giovani africani di seconda o terza generazione (con molta rabbia nei confronti di una Francia che non ha saputo integrarli), ma da asiatici di prima generazione (pakistani e bengalesi) che tendenzialmente non vivono l’Islam in chiave politica e non covano risentimento per ragioni coloniali.

Nato, Unione Europea, Stati Uniti

Giorgia Meloni all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina si è schierata nettamente in difesa di Kyiv, e da presidente del Consiglio ha ribadito il legame con gli Stati Uniti e il ruolo italiano nella Nato, instaurando anche una stretta relazione con Ursula von der Leyen. Marine Le Pen è, tuttora, agli antipodi in politica estera. Se il francese medio diffida degli Stati Uniti, la leader di RN è sempre andata al di là della diffidenza, schierandosi più volte contro Washington e al fianco di Putin, il “patriota”. Nel 2014, a poche settimane dall’annessione illegale della Crimea, il suo partito ottenne un prestito da 9 milioni di euro da una banca ceco-russa. Ha sempre difeso questa scelta spiegando che le banche dell’UE non le facevano credito, e che le alternative erano cinesi o iraniane.

Nella campagna elettorale per le europee, Marine Le Pen è apparsa in videomessaggio durante il summit di Identità e Democrazia, il gruppo europeo di cui forse non farà più parte, organizzato a Roma dalla Lega. Nel video, buona parte era dedicata a un attacco a Giorgia Meloni per il suo rapporto con Ursula von der Leyen, considerata da Le Pen la causa del disastro economico e sociale europeo. Anche in questo campo, le differenze tra la destra francese (ricordiamo che Le Pen si definisce “né di destra né di sinistra, ma solo patriota”, come Putin) e la destra di Fratelli d’Italia, restano notevoli.

La posizione (comoda) dell’opposizione

Quando nacque il governo Draghi, all’inizio del 2021, Fratelli d’Italia fu l’unico partito italiano a restare all’opposizione. Persino la Lega che fu no-Euro e poi giallo-verde si unì alla grande coalizione guidata dall’ex presidente Bce. Aver evitato i palazzi romani sin dalla nascita del partito (nel 2012) ha permesso a Meloni e i suoi di sfruttare al massimo l’effetto anti-establishment (o “underdog”, come si è auto-definita) e vincere le elezioni nel 2022. I Le Pen hanno avuto vita molto difficile all’Assemblea nazionale: il sistema uninominale a due turni per decenni ha tenuto fuori gran parte dei loro candidati. Nel 2022, con Macron rieletto ma indebolito in parlamento, ottengono 89 seggi e per la prima volta riescono a formare un gruppo. Con il voto di ieri arrivano a 126 deputati (più i ribelli di Eric Ciotti) e diventano il primo partito. Esclusi dal governo, hanno la chance di continuare ad accumulare consensi, reiterando l’accusa di “golpe amministrativo” e di “alleanza del disonore” contro il fronte repubblicano.

A differenza di Meloni, però, potrebbero non essere i soli all’opposizione. Bisogna ancora capire quale ruolo e quale peso potrà avere La France Insoumise, partito di Mélenchon, nel governo che verrà. Prima del ballottaggio, Macron aveva detto che avrebbe tenuto fuori dalla maggioranza l’odiato leader della sinistra oltranzista. Ieri sera Edouard Philippe, ex primo ministro macroniano, ha detto che andrà costruita una coalizione con dentro tutti tranne Rassemblement National e France Insoumise. Mélenchon appena si sono chiuse le urne ha subito preso il controllo della narrazione del Nuovo Fronte Popolare, e ora socialisti, comunisti e ambientalisti non possono scaricarlo, non subito almeno.

Un terzo “incomodo” fuori dalla grande coalizione potrebbe essere anche il gruppo dei Repubblicani, gli eredi dei gollisti che da Sarkozy in poi hanno perso milioni di voti a favore di Le Pen e Macron. Far parte della nascente maggioranza avrebbe il vantaggio di piazzare qualche pedina al governo e lo svantaggio di finire definitivamente scavalcati dalla destra più “pura”, cioè dai ribelli di Eric Ciotti e dal Rassemblement National. Ieri sera uno dei leader repubblicani con ambizioni per l’Eliseo, Laurent Wauquiez, ha detto che non ci sarà “né coalizione né compromissione” con la strana alleanza sinistra+centristi. Il partito, dopo lo scisma di Ciotti, non ha una guida ufficiale, e non è detto che ubbidirà compatto a questo ordine.

La sinistra italiana sogna Parigi e Londra (ma si sveglia a Roma)

Dopo il successo di Keir Starmer e lo scatto della sinistra francese, in Italia torna il modello straniero come strategia per riconquistare il potere. Un film già visto: dalla B di Blair alla Z di Zapatero, c’è sempre un leader oltreconfine che custodisce la ricetta per una vittoria progressista. La sinistra italiana è riuscita addirittura a chiamare un partito in onore di un premier della Grecia – l’unico paese allora messo peggio di noi in termini economici – durato il tempo di un’elezione e un referendum (“L’Altra Europa con Tsipras”). Il problema è che i francesi non hanno (ancora) trovato il modo di far convivere il partito comunista e Horizons, la “gamba destra” del gruppo macronista, due ruoli che in Italia potremmo assegnare a Fratoianni e Calenda. O di far la pace tra il leader di Place Public Raphaël Glucksmann e Jean-Luc Mélenchon, definito solo tre giorni fa, in piena campagna elettorale in cui doveva fingere armonia, “un problema immenso”. Per ora il campo largo italiano, che non esiste a livello nazionale ma fa capolino alle elezioni amministrative con alterne fortune (bene nei comuni, meno nelle regioni), dovrà trovare al suo interno – se esiste – il modo di creare una coalizione strutturata.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Politica

Grillo ad avvocato: “Posso pagarti col...

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Prof. Sammarco (presentato al garante dalla Raggi) in un parere sconsiglia di impugnare voto iscritti su simbolo e 2 mandati - il problema della parcella

Grillo ad avvocato:

"Ora fermiamoci con le carte bollate, voglio sconfiggere Conte sul piano mediatico...". Se lo scontro tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte per il controllo del Movimento 5 Stelle fosse una guerra, potremmo definire quella attuale una fase di stallo. Sì, perché a quanto apprende l'Adnkronos da fonti beninformate, il garante e co-fondatore del M5S avrebbe deciso di togliere il piede dall'acceleratore per quanto riguarda l'offensiva legale contro l'ex presidente del Consiglio e di tenere un profilo più basso, pur senza rinunciare a qualche stilettata via social.

Questo cambio di strategia sarebbe dovuto a diversi motivi. Di natura economica, innanzitutto: parliamo della parcella chiesta a Grillo dall'avvocato Pieremilio Sammarco (spese che il comico genovese avrebbe proposto di onorare attraverso un crowdfunding, una raccolta fondi) ma soprattutto del rischio, più che concreto, di perdere lo scudo legale garantito dal M5S e il contratto di consulenza da 300mila euro l'anno che lega Grillo al Movimento. Senza trascurare le ragioni prettamente giuridiche: nel parere richiesto dal garante, infatti, l'avvocato Sammarco in buona sostanza avrebbe spiegato a Grillo che le sue speranze di impugnare un eventuale voto degli iscritti su nome, simbolo M5S e regola del doppio mandato sono ridotte al lumicino. Ma andiamo con ordine e proviamo a ricostruire le ultime fasi della diatriba legale che vede contrapposti 'l'Elevato' e l'ex premier.

Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre si infiamma lo scontro ai vertici del M5S e il co-fondatore del Movimento 5 Stelle decide che è arrivato il momento di passare alle aule di tribunale. È l'ex sindaca di Roma Virginia Raggi, fedelissima di Grillo e principale esponente dell'opposizione interna a Giuseppe Conte, a favorire l'incontro tra il comico e l'avvocato Sammarco, titolare dello studio nel quale la stessa consigliera capitolina ha lavorato in passato. Il primo faccia a faccia tra Grillo e il professor Sammarco avviene a Roma il 4 di settembre, in territorio neutro: non presso lo studio Sammarco - situato a pochi passi da Piazza Cavour - ma in zona Parioli, lontano da occhi e penne indiscrete.

Il legale, che nel corso della sua carriera professionale ha già affrontato cause relative all'uso di simboli partitici, elabora su richiesta di Grillo un parere nel quale mette nero su bianco quali sono le vie percorribili e quali, invece, gli ostacoli insormontabili in questa lunga guerra di logoramento: da un lato, apprende l'Adnkronos, Sammarco intravede la possibilità concreta di sfilare il simbolo del M5S all'associazione presieduta da Conte; dall'altro fa capire a Grillo che impedire il voto degli iscritti sui "tre pilastri" (nome, simbolo e regola del doppio mandato) è molto, molto difficile, ammesso che l'iter procedurale impostato da Conte per arrivare al voto dopo l'assemblea costituente sia lineare e privo di intoppi (e le opacità, secondo alcuni fedelissimi di Grillo, non mancherebbero, a partire dalla questione degli iscritti aventi diritto al voto).

Le obiezioni di Sammarco non frenano Grillo, anzi. Il garante è determinato come non mai: "Faremo come Highlander, ne rimarrà soltanto uno. Dobbiamo fermare il Mago di Oz..." avrebbe scherzato il comico con i suoi. Ma è quando Sammarco presenta il conto della parcella che Grillo inizia a essere tormentato dai primi dubbi. Dopo aver appurato che l'avvocato romano non avrebbe lavorato pro-bono, il comico tira fuori dal cilindro l'idea del crowdfunding: in pratica, una colletta sul web per raccogliere i soldi necessari a onorare le spese legali. L'idea, riferiscono fonti vicine al dossier, non vede Sammarco particolarmente entusiasta.

Passa qualche giorno e Grillo chiede al prof. Sammarco di sospendere qualsiasi azione giudiziaria contro Conte. E forse non è un caso che, quando il 20 settembre l'Adnkronos intercetta Sammarco all'entrata del suo ufficio legale, l'avvocato paventi la possibilità che la querelle tra Conte e Grillo (derubricata a "lite moglie-marito") possa risolversi fuori dalle aule di tribunale. A raffreddare l'animo barricadero di Grillo, però, sarebbe stata soprattutto la minaccia della sospensione del contratto da 300mila euro e della manleva legale garantita dal M5S. Conte avrebbe fatto recapitare un messaggio molto preciso a Grillo, sintetizzabile più o meno così: al primo atto giudiziario che intraprendi contro di me e il Movimento, annullo il contratto di consulenza e faccio cadere lo 'scudo' che ti esenta dal pagamento delle spese legali per le cause. Senza escludere un risarcimento danni e quindi il versamento degli arretrati. Una doccia gelata per Grillo, che scende a più miti consigli senza però rinunciare alla sua proverbiale vis polemica.

Via web, infatti, 'l'Elevato' continua a pungolare Conte. Sul suo blog il garante inaugura la "bacheca del mugugno" raccogliendo gli sfoghi di iscritti e militanti contro il leader pentastellato; e in ultimo, posta sui social una foto che lo ritrae con la barba lunga, accompagnata dalla didascalia "sto ancora aspettando le risposte di Conte...". Ma le schermaglie, assicura chi conosce bene Grillo, non finiranno certo qui.

(di Antonio Atte)

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Politica

Lega, al via a Pontida edizione 36: Salvini ricorda i...

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Omaggio anche alle vittime del "terrorismo islamico del 7 ottobre"

Lega, al via a Pontida edizione 36: Salvini ricorda i militanti scomparsi

Con l'omaggio ai volontari della Lega che non ci sono più e alle "vittime del terrorismo islamico" del "7 ottobre 2023", è iniziata a Pontida la 36esima edizione della kermesse principale del partito guidato da Matteo Salvini.

Mentre scorrevano sui monitori i volti dei leghisti scomparsi, Salvini, in camicia bianca, si è raccolto in un momento di silenzio. Diffuse anche le immagini dell'attacco a Israele. Accanto a lui diversi esponenti del partito come il ministro Roberto Calderoli, i capigruppo di Camera e Senato Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, e tanti europarlamentari.

Poi la parola è passata al leader del giovani, Luca Toccalini, che ha ringraziato il segretario per quanto fatto, con particolare riferimento alla vicenda che lo vede a processo a Palermo. "Forza Salvini", ha detto il leader dei ragazzi padani.

Tra gli stand anche nduja calabrese e pasticciotti pugliesi

Sul pratone di Pontida trovano posto due stand con la raccolta firme in solidarietà di Matteo Salvini, per il processo Open Arms. I leghisti registrano i nomi di chi aderisce, con tanto di tessera da ritirare del 'Comitato per la sicurezza dei confini', un card blu, formato tascabile con il volto di Salvini. Tra gli stend regionali, da quello del Trentino, a quello della Calabria, passando per quelli di tutte le regioni dello Stivale, fanno bella mostra i prodotti tipici, con tanto di assaggio. Dalle Mele del trentino, ai formaggi della Val d'Aosta, alla 'nduja calabrese, al pasticiotto pugliese. Sul pratone per ora pochi militanti, in attesa dei pullman in arrivo, mentre una coppia di leghisti sfoggia una tuta da carcerato a strisce verticali, bianche e rosse, e il cartello 'ho votato Salvini arrestate anche me'. Un altro, sul dorso della t-shirt verde ha aggiunto: "L'Italia non è una e non lo sarà mai".

Nel pratone campeggiano le bandiere del Veneto e della Lombardia. Vasco Rossi, Lucio Battisti, ma anche Jimmy Fontana sono i cantautori selezionati per la musica diffusa dalle casse sul palco . Ma il brano più gettonato è "Generale" di De Gregori, che più volte viene lanciato, mentre non a caso lo stesso generale Roberto Vannacci ha visitato gli stand sotto al palco fermandosi per accontentare i tanti che si sono avvicinati per un selfie con l'ex capo della Folgore.

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Politica

Follini: “Politica concentrata su cortile casa, studi...

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Il punto di vista di Marco Follini per Adnkronos

Follini:

"Se io fossi un giovane appassionato di politica alle prime armi (condizione assai lontana da me, ovviamente) cercherei di occuparmi solo e soltanto di politica estera. E’ lungo quella frontiera infatti che si decide il futuro del mondo, e anche quello del nostro paese e della sua sfera pubblica. Cosa che è sempre stata vera, ma mai fino a questo punto. E cioè fino al punto in cui quello che accade fuori dai nostri confini produce in tempo reale conseguenze così importanti, così strategiche e perfino così dirompenti da rendere ormai quasi del tutto irrilevante quel casalingo chiacchiericcio che da sempre ci tiene inutilmente compagnia.

Nel mondo di oggi, con buona pace dei sovranisti, nessun paese è davvero “sovrano”. Non lo siamo noi, non lo sono gli altri. La nostra sovranità non è più limitata dalle alleanze, come si temeva al tempo della guerra fredda. Il suo limite sta piuttosto da un lato nella velocità con cui si fa strada la globalizzazione e dall’altro lato dal disordine che ne accompagna il cammino. Così, mentre la politica interna è ridotta alla mesta contabilità di pronunciamenti pressoché irrilevanti, la scena mondiale offre invece mille spunti su cui esercitare quel minimo di influenza che ci è data in sorte.

Per giunta il nostro paese si trova su una di quelle linee di confine che determineranno il futuro del pianeta. Non più la vecchia cortina di ferro tra est e ovest. Ma la nuova frattura che oppone quel che resta dell’occidente e quel che affiora del cosiddetto sud globale. Posizione strategica che ci offre molte possibilità -a patto di cercare di coltivarle con qualche buona idea. Insomma, a due passi da noi e dalle nostre piccole beghe si apre uno scenario che può fare molta paura e può destare qualche speranza. Laddove il bivio tra la paura e la speranza ci dovrebbe sollecitare a cercare di dare il meglio di noi stessi.

La difficoltà però è che per coltivare idee e cercare di contare qualcosa occorre prima liberarci del fardello di una politica minore, tutta concentrata sul cortile di casa e incapace di guardare oltre lo steccato. Ed è lì che invece siamo impantanati. Poiché il ceto politico che ha preso ad affermarsi all’indomani della prima repubblica si è liberato dal fardello della troppa ideologia, ha archiviato dottrine e scuole di partito, ha limato le unghie del vecchio professionismo; ma non ha neppure tentato di sostituire a tutto questo una minima forma di cultura della polis. Quando va bene ci si limita a qualche frase di circostanza da veicolare nei pastoni televisivi. Quando va meno bene ci si rampogna a vicenda demonizzando quegli avversari che pure in una democrazia degna del nome dovrebbero essere tenuti molto più da conto.

Tutto questo confronto politico che si rincorre di giorno in giorno dovrebbe risultare alla fine piuttosto noioso e ripetitivo per i dirigenti più capaci e fantasiosi. Ai quali per l’appunto verrebbe da indicare piuttosto la strada delle questioni internazionali come surrogato delle loro stesse delusioni. Con un caldo invito a imparare le lingue, a viaggiare, a leggere Limes, a studiare i dossier, ad affacciarsi insomma oltre il cortile di casa. Laddove magari il loro impegno politico potrebbe trarre nuovi spunti e magari perfino offrire occasioni di crescita.

Naturalmente aprire i dossier internazionali significa misurarsi sulla loro complessità. E prendere atto che nessuno dei problemi del mondo si risolve in un moto di indignazione, scendendo in piazza e magari tifando a sproposito (come si farà oggi a Roma). Al contrario proprio l’insieme delle ragioni e dei torti che si addensano lungo tutte le frontiere del pianeta dovrebbe fornire a una nuova generazione l’occasione e gli strumenti per fare i conti con la loro identità e con il loro destino in modi che non siano né troppo arroganti, né troppo superficiali, né troppo ripiegati su se stessi.

Per chi ama la politica non ci sarà occasione migliore di questa. A patto di affrettarsi a coglierla".

(di Marco Follini)

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