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Settimana corta, sì per 8 lavoratori su 10. Quali sono i...

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Settimana corta, sì per 8 lavoratori su 10. Quali sono i pro e i contro?

I lavoratori italiani vogliono la settimana corta. La richiesta arriverebbe quasi all’unisono secondo un’indagine della società NielsenIQ in cui l’80% degli intervistati si è dichiarato favorevole alla riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giorni. Accanto alla settimana corta, anche lo smart working è emerso come strumento fortemente auspicato dai lavoratori italiani per migliorare la propria salute e la cura della famiglia.

Le necessità dei caregiver

L’obiettivo è risaputo: poter conciliare meglio la propria vita professionale con quella personale, avendo più spazio per la cura di sé e della propria famiglia. Quest’ultimo termine racchiude in sé diversi significati e altrettante sfumature della nostra società. Molti dipendenti vorrebbero stare un giorno in più con i propri figli per goderseli e per crescerli, ma il 52% degli intervistati ha dichiarato di non essere genitore.

Dunque, ci sono altre ragioni che rendono auspicabile la settimana corta per 8 lavoratori su 10.

In primis gli anziani, spesso genitori affidati a grigie case di cure per mancanza di tempo (e in alcuni casi, di voglia). Il 13% del campione dice di doversi rivolgere a professionisti per la cura domestica, spendendo, in media, 107 euro al mese. Anche in questo caso la settimana corta viene percepita come un valido supporto da 8 intervistati su 10.
Quando però i soldi scarseggiano e non ci si può avvalere di un supporto esterno, la situazione si complica ulteriormente e il rischio è che si viva più a lungo, ma peggio.

In un contesto del genere la settimana corta, ma a parità di stipendio, verrebbe accolta positivamente dall’85% degli intervistati “caregiver”, che avrebbero l’opportunità di curare i propri familiari con maggiore autonomia. Su questo aspetto delicato della nostra società si è espressa anche Luana Zanella, vicepresidente della Commissione Affari Sociali alla Camera dei deputati, intervenendo al convegno Adnkronos Q&A “La cura delle persone” organizzato dall’Adnkronos lo scorso 11 luglio.
Dal suo intervento è emerso il ruolo centrale dei caregiver e la necessità di un welfare personalizzato, che tenga conto della specificità delle varie situazioni. Il rischio, altrimenti, è che i lavoratori, ma soprattutto le lavoratrici, siano costretti “a lasciare il proprio posto di lavoro per poter accudire i propri cari, che siano figli, genitori o altri parenti”, come ha ricordato la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, intervenuta in video all’evento Adnkronos.

Non solo caregiver

Se non si ha nessuno da curare, il risultato non cambia: avere un giorno libero in più a settimana permetterebbe di dedicare maggiore tempo al benessere personale, soprattutto per svolgere l’attività fisica (62% degli intervistati), ma anche fare gite e viaggi (54%). Insomma, la settimana corta viene vista come modalità per accrescere l’equilibrio tra lavoro e vita privata, come ha rivelato il 72% del campione, la soddisfazione personale (63%) e il tempo di qualità da dedicare alla famiglia e agli amici.

Più sacrifici, ma non sullo stipendio

Non è tutto rose e fiori, ma quasi.

Tra i possibili aspetti critici della settimana corta, gli intervistati evidenziano l’aumento del carico di attività durante i giorni lavorativi (51%), la maggior pressione e stress associato al raggiungimento degli obiettivi (37%) e i problemi di coordinamento con gli altri colleghi (27%). Ostacoli che i lavoratori sono pronti a superare: pur di lavorare un giorno in meno, un intervistato su due sarebbe disposto ad accettare una maggiore flessibilità sull’orario di lavoro durante la settimana lavorativa (52%), o un aumento della produttività durante i giorni lavorativi (47%) e un minor numero di pause (45%).

L’indicazione che arriva dal sondaggio NielsenIQ è chiara: non solo gli imprenditori, ma anche i lavoratori vorrebbero che la produttività aumenti e il tempo passato al lavoro sia più efficiente, abbattendo gli sprechi di tempo e riducendo le giornate di lavoro.

Il tutto purché non si tocchi la busta paga, dato che solo il 10% sarebbe disposto ad accettare una riduzione anche leggera dello stipendio. D’altronde l’Italia si è aggiudicata il poco invidiabile titolo di “maglia nera degli stipendi” secondo l’ultimo rapporto Ocse. Peggio del Belpaese solo Repubblica Ceca e Svezia. Nel 2023, i lavoratori italiani hanno subito una contrazione degli stipendi reali pari al -6,9% rispetto al 2019, e se si allarga lo sguardo il quadro diventa cupo.
Dal 1991 al 2023, gli stipendi reali sono cresciuti solo del +1% contro il 32,5% della media dei Paesi dell’organizzazione, anche se per il governatore di Bankitalia Fabio Panetta: “l’attuale aumento delle retribuzioni rappresenta un inevitabile recupero del potere d’acquisto, destinato ad affievolirsi a mano a mano che si ridurrà la perdita da recuperare. Inoltre – ha ricordato all’Assemblea Abi 2024 – i minori costi degli input produttivi intermedi e i cospicui profitti sin qui accumulati consentono alle imprese di assorbire la crescita salariale senza trasferirla sui prezzi finali”.

Lo smart working

Se i salari non sono sufficienti a rilanciare la natalità e gli sforzi politici non bastano, il ruolo delle aziende diventa fondamentale per riequilibrare il work life balance. Le iniziative in tal senso sono tante, ma appannaggio quasi esclusivo delle realtà medio-grandi.

Tra le soluzioni più indolori per le aziende e utili per i lavoratori c’è lo smart working, forse l’unico lascito positivo di quel periodo terribile che è stato la pandemia.

Dall’indagine NielsenIQ emerge che lo smart working è ormai una realtà consolidata per diverse realtà: un intervistato su 3 lavora in modalità full remote o ibrida. In media viene concesso per il 37% delle ore totali di lavoro (uno o due giorni, su cinque).

La preferenza per il lavoro agile, tuttavia, non è schiacciante: il 49% del campione preferisce il lavoro agile, mentre il 42% preferisce recarsi in ufficio.

Perché non c’è una preferenza netta per il lavoro da casa? Una possibile chiave di lettura viene offerta da Alessandra Bocca: “Abbiamo rilevato che fosse richiesto non solo lo smart working ma anche una presenza all’interno degli uffici per cementare quelle relazioni umani che restano importanti per i dipendenti”, ha spiegato la manager di Mundys intervenendo all’evento Adnkronos dello scorso 11 luglio.

Pro e contro dello smart working

Lo smart working offre diversi benefici, a partire dalla riduzione dei tempi di spostamento per raggiungere il luogo di lavoro, che in media ammonta a 41 minuti e viene riscontrato dal 77% degli intervistati. Collegato a questo aspetto c’è un miglior work life balance, riscontrato dal 65% del campione e anche una riduzione dei costi mensili, riscontrata dal 72% del campione. Secondo l’indagine, in media un italiano spende 124 euro al mese tra spese di spostamento e prenzi di lavoro, non proprio spiccioli a fronte dei salari italiani.

Tra i maggiori rischi percepiti del lavoro da casa, invece, ci sono l’isolamento sociale (59%), la sedentarietà (58%) e la difficoltà a separare lavoro e vita privata (44%).

Gli esempi di Intesa San Paolo e Luxottica

Mentre i lavoratori italiani sognano (e quelli greci fanno i conti con la settimana lunga), alcune grandi realtà smuovono i primi tasselli. Intesa Sanpaolo è stata la prima azienda a introdurre nel nuovo modello organizzativo del lavoro la settimana corta, già a inizio 2023.
Un’attenzione ai suoi lavoratori che si aggiunge ad altre misure già ricomprese nella contrattazione di Gruppo. Tra gli aventi diritto, circa il 70% ha attivato l’opzione per lavorare un giorno in meno a parità di ore lavorate. Di questi il 46% nel corso del 2023 ha utilizzato la settimana corta, per un totale di oltre 46.700 settimane, ma il dato è in crescita.

Intanto, un recente sondaggio interno ha rilevato che il 99% dei bancari di Intesa Sanpaolo che lavora in smart working e utilizza la possibilità di distribuire l’orario settimanale su 4 giorni anziché 5, in futuro vuole continuare a farlo, mentre il 45% vorrebbe più giorni da remoto a disposizione.

Anche Luxottica si è mossa in questa direzione. L’accordo fra il colosso della produzione e commercio di occhiali e i dipendenti consiste in 20 settimane corte da 4 giorni nel corso dell’anno, a parità di stipendio.

Esempi sicuramente incoraggianti, ma sporadici. D’altronde non si può esigere che le imprese risolvano da sole quello che è un problema politico e sociale come la crisi demografica.
Il cambiamento è iniziato, ora tocca alle istituzioni incentivare la settimana corta e lo smart working, che, insieme agli aumenti salariali, sono le uniche arme credibili per arrestare la denatalità. Che è anche un problema di produttività.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Asma e aborto: c’è un legame?

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Le cure per l’asma sembrano essere correlate a maggiori probabilità di aborto spontaneo. A confermarlo è una ricerca danese, secondo la quale le donne che ne soffrono hanno rischi maggiori di incorrere in problemi di fertilità.

“Abbiamo scoperto che le donne che soddisfano la definizione di asma avevano un tasso più elevato di perdita fetale e un maggiore ricorso a trattamenti per la fertilità. Più grave era l’asma e più riacutizzazioni sperimentavano le donne, più era probabile che avessero bisogno di trattamenti per la fertilità”, ha affermato l’autrice principale dello studio, la dottoressa Anne Vejen Hansen, del dipartimento di medicina respiratoria presso l’ospedale universitario di Copenaghen.

Lo studio

Lo studio ha raccolto i dati di circa 770.000 donne danesi nate tra il 1976 e il 1999. Il monitoraggio è avvenuto dal 1994 al 2017, durante i loro anni riproduttivi migliori. Già nel 2021 alcune evidenze dimostravano la correlazione. La dottoressa Anne Vejen Hansen e il suo team hanno presentato i risultati martedì a Vienna, in occasione del convegno annuale della European Respiratory Society (ERS).

Ciò che è emerso è che le donne affette da asma hanno maggiori probabilità di avere un aborto spontaneo rispetto alle donne che non soffrivano di questa patologia respiratoria, con percentuali rispettivamente del 17% e del 15,7%.

Era anche più probabile che avessero una cartella clinica che dimostrasse che avevano dovuto provare un trattamento per la fertilità: il 5,6% delle donne affette da asma lo aveva fatto, rispetto al 5% delle donne senza asma.

Genitorialità a rischio?

Non solo una correlazione negativa. Lo studio ha anche evidenziato che la maggior parte delle donne affette da asma sia riuscita a superare questi ostacoli e ad avere un figlio: il 77% delle donne, indipendentemente dall’avere l’asma, è diventata madre.

“È rassicurante che le donne sembrino avere lo stesso tasso di natalità, indipendentemente dal loro asma”, ha affermato la dottoressa Lena Uller, presidente del gruppo ERS su farmacologia e trattamento delle vie aeree e responsabile del gruppo di ricerca di immunofarmacologia respiratoria presso l’Università di Lund in Svezia.

“Tuttavia, i risultati indicano anche che le donne con asma dovrebbero prendere in considerazione potenziali sfide riproduttive nella loro pianificazione familiare”, ha affermato Uller in un comunicato stampa dell’ERS. “Se le donne con asma sono preoccupate per la loro fertilità, dovrebbero parlarne con il loro medico”.

Quanto al modo in cui l’asma potrebbe interferire con la fertilità e la gravidanza, è ancora sconosciuto, ha affermato Hansen. “Potrebbe essere correlato a un’infiammazione sistemica in tutto il corpo, compresi gli organi riproduttivi delle donne”, ha ipotizzato.

I risultati, perciò, sono da considerarsi preliminari finché non saranno pubblicati su una rivista sottoposta a controprova scientifica.

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Apre a Torino la contestata ‘Stanza dell’ascolto’ per...

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A nulla sono valse le polemiche, le proteste e un ricorso al Tar (dichiarato non ‘urgente’ e dunque ancora pendente): a un anno dall’accordo tra l’Azienda ospedaliero-universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino e il Movimento per la Vita, associazione anti-abortista di ispirazione cattolica e conservatrice, all’ospedale Sant’Anna del capoluogo piemontese ha aperto una “stanza dedicata all’accoglienza e all’ascolto” per le donne che intendono interrompere la propria gravidanza.

Si tratta di uno sportello accessibile su appuntamento, ‘liberamente’ e ‘volontariamente’ (nelle parole dell’assessore regionale alle Politiche sociali Maurizio Marrone che l’ha voluto), da chi vuole abortire e intende parlarne prima con qualcuno. Lunedì 9 settembre ha aperto ufficialmente i battenti, anche se non ci sono state richieste. Occorre precisare che se rivolgersi ai volontari della ‘stanza’ è una scelta personale, i sanitari dell’ospedale possono comunque indirizzare le donne verso questo passaggio prima di procedere all’intervento.

Dietro all’accordo, come accennato, c’è anche l’assessore Marrone, di Fratelli d’Italia, secondo cui lo sportello servirà ad aiutare le donne che desiderino “farsi aiutare nel vedere garantito il diritto ad avere i loro figli con progetti di sostegno”, e a “far superare le cause che potrebbero indurle alla interruzione della gravidanza”.

Non è ben chiaro tuttavia quali siano queste cause: tentennamenti dovuti alla pressione sociale, sensi di colpa di varia provenienza? Sicuramente c’è la volontà di fornire un supporto economico, ma si tratta di un aiuto una tantum e dunque si può dubitare che possa fare la differenza nella scelta di una persona.

L’iniziativa finanziata da soldi pubblici

Al di là dei dubbi, c’è anche un altro problema: la ‘stanza’ sarà finanziata dal ‘Fondo vita nascente’, istituito con una delibera dalla Regione Piemonte e finanziato dunque con soldi pubblici: oltre 400mila euro negli anni scorsi, quasi un milione di euro per il 2024.

Claudio Larocca, presidente regionale del Movimento per la Vita, ha detto che il fondo servirà ad acquistare materiali per la prima infanzia – ad esempio latte in polvere o pannolini – da dare a chi decide di abortire per motivi economici, in modo da motivarla a cambiare idea.

Tuttavia rimane confusione sull’utilizzo dei fondi e sul criterio con cui verrebbero erogati alle donne (tramite ISEE, graduatorie o cosa?) e anche sul loro effettivo utilizzo: secondo quanto denunciato dalle associazioni femministe e per i diritti civili, i soldi potrebbero anche essere usati per fare ‘propaganda anti-abortista’. D’altronde è lo stesso bando per il finanziamento del Fondo vita nascente a prevedere che il 35% dei fondi venga usato per consulenze esterne, pubblicità e promozione. Ricordiamo però che si tratta di soldi pubblici e che il nostro ordinamento, almeno in teoria, garantisce l’aborto.

La scelta dell’ospedale pubblico Sant’Anna nemmeno è casuale: è il primo centro in Italia per numero di parti (6414 nel 2022) e il primo in Piemonte per interruzioni volontarie di gravidanza: 2500 quelle effettuate nel 2021, il 50% di tutta la regione.

I problemi della legge 194/78

Il problema è a monte: la famosa legge 194/78 infatti non tutela il diritto di abortire in sé come espressione della libera scelta e dell’autodeterminazione della donna, quanto il diritto di accedere all’interruzione di gravidanza in presenza di “situazioni sfavorevoli”.

In pratica, la norma regola i casi in cui l’aborto non è reato e anzi prevede esplicitamente che i consultori stipulino accordi con delle associazioni che aiutino “la maternità difficile dopo la nascita”. Prevede anche che i consultori contribuiscano a far “superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza”. Espressione non a caso usata dall’assessore Marrone che, come sta avvenendo sempre più nel dibattito in materia, può dire che “stiamo soltanto applicando la legge”.

Ma la battaglia continua, a partire dal ricorso presentato al Tar ad ottobre 2023 dalla CGIL e dal movimento femminista Se Non Ora Quando Torino, che hanno chiesto che l’accordo venisse revocato perché in violazione dei principi della legge 194/78. La discussione del ricorso, presentato in ‘urgenza’ ma la cui urgenza non è stata riconosciuta, è stata rimandata a data da definirsi. Ora che la stanza è stata aperta, le associazioni torneranno all’attacco: “Credo che la Regione Piemonte, in completa sintonia col governo centrale, stia continuando a fare propaganda sulla famiglia e sulla natalità sulla pelle delle donne, e questo è inaccettabile”, ha commentato Anna Maria Poggio, segretaria della Cgil piemontese.

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Manovra, più incentivi per chi ha figli, fine bonus per chi...

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Le maglie sono strette, l’intenzione è chiara: con la Manovra finanziaria, il governo vuole aumentare i sostegni per chi ha figli e diminuire i bonus a chi non ne ha. L’obiettivo, dichiarato e necessario, è contrastare la denatalità, da cui dipende la tenuta del sistema Paese, incluse le Manovre future. Il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha chiarito che non si può fare tutto con le poche risorse a disposizione, (25 miliardi di euro, come la scorsa manovra).

Tra conferme e possibili cambiamenti, la Manovra dovrebbe mantenere alcuni dei pilastri della scorsa Legge di bilancio, mentre il Mef studia la possibile introduzione del quoziente familiare per le detrazioni.

Conferme: taglio del cuneo fiscale e rimodulazione Irpef

Tra le conferme più attese spicca il taglio del cuneo fiscale. Già previsto per il 2024, sarà esteso anche al 2025 e riguarderà circa 14 milioni di lavoratori, con una riduzione dei contributi previdenziali di 7 punti percentuali per i redditi fino a 25 mila euro e di 6 punti per quelli fino a 35 mila euro. Il taglio ha un costo stimato di 9,4 miliardi di euro e si traduce in un aumento dello stipendio netto di circa 100 euro al mese per circa 14 milioni di lavoratori.

Parallelamente, il governo confermerà anche la riduzione dell’Irpef, passata da quattro a tre aliquote, forse con qualche ritocco. Senza modifiche la conferma varrebbe circa 4 miliardi di euro.
Parte della maggioranza, Lega in primis, spinge per una riduzione della seconda aliquota dal 35% al 33% e dell’estensione del tetto del secondo scaglione fino ai 60 mila euro annui. Oltre, scatterebbe il terzo e ultimo scaglione con un’aliquota del 43%. Questa nuova misura coinvolgerebbe circa 8 milioni di lavoratori, il cosiddetto ceto medio, con un costo ulteriore di circa 4 miliardi.

Alcune forze politiche, come Forza Italia, spingono inoltre per l’introduzione di una zona “zero tasse” per i redditi fino a 12 mila euro. Il partito guidato da Antonio Tajani chiede anche l’innalzamento delle pensioni minime da 615 a 650 euro mensili, “con l’obiettivo di arrivare a mille euro entro la fine della legislatura”.

Detrazioni per chi ha figli: che cosa è il quoziente familiare?

Un cambiamento significativo potrebbe riguardare le detrazioni fiscali per chi ha figli. Il principio alla base di questa misura è semplice: alleggerire il carico fiscale delle famiglie numerose, riducendo o eliminando alcune detrazioni per chi non ha figli.

Per fare questo, il governo pensa al quoziente familiare, un indicatore della situazione economica delle famiglie che permette di calcolare l’imposta sul reddito non solo in base ai guadagni individuali, ma anche in base al numero di componenti del nucleo familiare. In questo modo, le famiglie con più figli potrebbero beneficiare di detrazioni più elevate e quindi pagare meno imposte.
Al momento, viene utilizzato solo in via di sperimentazione per l’agevolazione del superbonus edilizio al 90% sugli edifici unifamiliari. Il dicastero dell’Economia e delle Finanze ha già provato ad estenderne l’applicazione in occasione della scorsa legge di Bilancio, ma l’ipotesi è stata poi accantonata.

Il quoziente familiare, già adottato in altri Paesi europei come la Francia, è un indicatore più semplice rispetto all’Isee perché si ottiene dividendo il reddito complessivo del nucleo familiare per il numero dei suoi componenti in base a dei coefficienti, senza tener conto della composizione del patrimonio, come fa l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente. Entrambi gli indicatori favoriscono le famiglie con più figli, anche se con motivazione differenti: il quoziente familiare perché divide il reddito per un numero maggiore di componenti, l’Isee perché considera la presenza di figli come un fattore che aumenta il bisogno economico della famiglia.

Gli effetti del quoziente familiare

Il quoziente familiare impatterebbe sul calcolo dell’Irpef: a parità di reddito viene avvantaggiato il nucleo familiare più grande e il risparmio aumenterebbe al crescere del reddito, avvantaggiando così le famiglie con redditi più elevati. Inoltre, l’aliquota Irpef verrebbe probabilmente applicata sull’intero reddito del nucleo e non più solamente sul reddito personale di ognuno dei componenti.

In pratica, il quoziente familiare ribalterebbe l’attuale sistema di tassazione, che è basato su redditi individuali. Infatti, oggi se i due coniugi hanno redditi diversi, vengono tassati diversamente, in base alle aliquote. Con il quoziente familiare, invece, si tasserebbe l’intero reddito del nucleo con la stessa aliquota rischiando di disincentivare il coniuge che guadagna meno.

[Qui per approfondire: come si calcola il quoziente familiare?]

Per la Manovra 2025, l’idea è di utilizzare questo sistema per determinare l’entità delle singole detrazioni. L’idea alla base è sempre la stessa: sostenere la natalità in un Paese che, secondo le previsioni, vedrà la sua popolazione in età lavorativa ridursi di 5,5 milioni di persone nei prossimi 15 anni.

Bonus mamme a rischio?

Se il taglio del cuneo fiscale e la rimodulazione dell’Irpef sembrano andare spedite verso la riconferma, non si può dire lo stesso per il bonus mamme. La conferma di questa misura, che prevede l’esenzione totale dai contributi per le lavoratrici madri con almeno due figli fino ai dieci anni, è una di quelle più in dubbio per la Manovra 2025.

Le incertezze derivano soprattutto dall’alto costo della misura e dal dibattito politico in corso su quali siano le priorità di spesa per il 2024. La sua cancellazione potrebbe comportare una riduzione del supporto diretto alle famiglie che il governo potrebbe compensare con un rafforzamento di altre misure per la natalità, come l’assegno unico (di cui il ministro Giorgetti ha smentito il taglio) e le detrazioni fiscali.

Le richieste delle famiglie numerose

La ratio con cui vuole intervenire il governo incontra le richieste delle famiglie numerose (con 3 o più figli), che recentemente si sono radunate a Brescia. La convention annuale dell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose (Anfn) ha riunito 350 famiglie con tre o più figli provenienti da tutta Italia. Le coppie che con tre o più figli rappresentano l’8,7% del numero complessivo dei nuclei familiari; una percentuale che scende all’1% se si considerano le coppie con quattro o più figli.

L’incontro è stato un’occasione per discutere delle difficoltà che le famiglie numerose affrontano in Italia e per fare il punto sulle politiche di sostegno che, secondo molti partecipanti, sono ancora gravemente insufficienti. Nonostante la presenza simbolica della ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, tramite videomessaggio, il sentimento prevalente è stato di frustrazione, con numerosi genitori che hanno espresso il loro malcontento per la propria situazione anche in relazione agli altri Paesi europei.

I genitori delle famiglie numerose chiedono un impegno più concreto e incisivo da parte della politica.

A differenza di altri Paesi europei, dove le famiglie numerose ricevono sostanziali agevolazioni fiscali e sussidi, in Italia gli aiuti questi aiuti vengono spesso definiti come “briciole”. L’aumento del caro-vita ha aggravato questa condizione soprattutto perché gli effetti dell’inflazione si moltiplicano all’aumentare dei figli molto più velocemente dei benefici.

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