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“Ho avuto un figlio e voglio vederlo crescere”, cosa pensano i papà Millennials. L’indagine

Intende avere figli? E se ne ha già, come pensa di gestire la vita privata con quella lavorativa? Immaginiamo che a ricevere queste domande in fase di colloquio per un lavoro fossero gli uomini. Ciò che emergerebbe rispetto al passato è che i papà stanno esplicitando con più chiarezza e determinazione il loro bisogno di godersi i propri figli, pretendendo tutele e servizi.

I padri Millennials, nati tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, sono tra i più presenti per i propri bambini. Una conferma arriva dai dati Inps che hanno evidenziato come, tra il 2019 e il 2022, le richieste di congedo parentale sono aumentate del 15%.

Inoltre, nel 2022 il numero di beneficiari di congedo obbligatorio di paternità è stato pari a 173mila, l’11% in più rispetto all’anno precedente. Cosa sta cambiando?

L’indagine di Reverse

Reverse, società internazionale di headhunting e Risorse Umane, ha condotto un’indagine qualitativa con l’obiettivo di far emergere le esigenze dei nuovi papà che desiderano sempre più trovare un equilibrio tra carriera e vita familiare e lo dichiarano apertamente in fase di colloquio.

I racconti degli Head hunter di Reverse che operano in Italia, Spagna, Francia e Germania insieme alle domande specifiche rivolte ad alcuni papà afferenti a diverse categorie professionali hanno aiutato a far luce sulla situazione italiana, confrontandola con quella estera.

“La nostra missione è agevolare l’incontro tra aziende e lavoratori – ha dichiarato Alessandro Raguseo CEO e Co-Founder di Reverse -. Troppo spesso, infatti, il rapporto tra impresa e candidato non va a buon fine per mancata conoscenza dell’altro. Aspetti apparentemente secondari, come il desiderio di flessibilità per essere più presente in famiglia, possono fare la differenza. Per questo abbiamo scelto di indagare questa nuova esigenza, con l’obiettivo di restituire una fotografia nitida alle aziende che si affidano a noi per trovare le proprie persone”.

Le testimonianze: come diventare padri ha impattato la vita lavorativa

Dalle testimonianze raccolte da Reverse emerge che i padri italiani tendono a voler essere sempre più presenti in famiglia. Ecco perché:

I papà vogliono essere di supporto alle madri durante i primi mesi di vita del bambino, i delicatissimi periodi del post partum e dell’allattamento;
Negli anni a seguire desiderano essere parte attiva della vita quotidiana dei propri figli, vivere la loro crescita in prima persona e non solo tramite foto e racconti di mamme, nonni e baby sitter;
Hanno il desiderio di supportare le mamme che lavorano, di appoggiarle nella realizzazione dei propri sogni professionali. E per fare questo sono contenti di spartire con loro i compiti genitoriali, per fare in modo che le mamme possano dedicarsi serenamente alla loro carriera.
Famiglia e lavoro diventano un progetto di vita condiviso;
Il lavoro da casa durante la pandemia ha messo in luce aspetti dell’equilibrio domestico che finora erano rimasti confinati alle chat tra mamme.

Diventare genitore mi ha aiutato a rivedere le mie priorità: ho sempre più il desiderio di tornare a casa per stare con i miei figli – dichiara Lorenzo, Project Manager di una grande azienda del settore Automotive – Ho alte ambizioni professionali ma allo stesso tempo non voglio rinunciare alla mia famiglia, perché i primi anni di vita dei figli non tornano e non si avrà tempo di stare con loro quando saranno troppo grandi”.

Dall’indagine risulta anche che la richiesta di usufruire del congedo di paternità completo e della flessibilità lavorativa è sempre più elevata anche se, ancora troppo spesso i papà che la richiedono si scontrano con un pregiudizio sociale che li spinge a giustificarsi. Non solo, i papà richiedono congedi paritari, o comunque più lunghi. Infatti, alla domanda “I giorni di congedo sono stati sufficienti per supportare al meglio la tua famiglia?” hanno tutti risposto “No: sarebbe stato necessario più tempo”.

Il tempo oggi è il vero lusso. Ho bisogno di offrire tempo di qualità alla mia famiglia, a mio figlio, alla coppia e al lavoro – dichiara Matteo, socio-dipendente di una profumeria – Per poter conciliare tutto questo ho dovuto rivedere i miei orari lavorativi. È una questione di equilibrio nella gestione di tutte le proprie sfere, personali e lavorative: senza flessibilità questo equilibrio non potrebbe esistere”.

Il confronto con Germania, Spagna e Francia

Anche nel resto d’Europa si sta riscontrando la stessa tendenza, anche se l’Italia è leggermente un passo indietro. Nel Bel Paese, infatti, un padre lavoratore dipendente ha diritto a 10 giorni lavorativi di congedo di paternità obbligatorio contro i 5 mesi spettanti alla madre. In Spagna, il congedo retribuito al 100% è di 16 settimane per entrambi i genitori, in Germania arriva fino a 14 mesi cumulativi suddivisibili tra i due genitori, mentre in Francia il congedo di paternità è pari a 28 giorni.

“In Germania i candidati sono abituati ad esplicitare in modo del tutto chiaro e sereno i loro desiderata riguardanti la paternità – dichiara Gioia Busi, Delivery Manager, Reverse – Poco tempo fa, un candidato mi ha inviato una mail con tutte le richieste che desiderava rivolgere all’azienda per cui si candidava: si trattava di specifiche necessità orarie per poter passare del tempo con suo figlio, nato da poco. L’azienda ha accolto benissimo le sue richieste, con grande apertura e disponibilità”.

“In Spagna sono sempre più numerosi i candidati che chiedono esplicitamente flessibilità e smart working per poter essere più presenti in famiglia – afferma Manu Cano Munoz, Country Leader Spain, Reverse – Oggi per conquistare qualunque candidato padre in Spagna è imprescindibile andare incontro alle sue esigenze legate alla paternità”.

“Capita molto spesso che i candidati francesi, quando devono scegliere un’azienda, mi rivolgano domande specifiche su orari ed eventuali trasferte, perché vogliono capire quanto il lavoro possa conciliarsi con la loro vita da papà. E, se le condizioni non sono favorevoli, non esitano a rifiutare l’offerta – aggiunge Arlène Lalanne, Senior HR Project Manager, Reverse – Succede anche il contrario: a volte cercare migliori condizioni lavorative per gestire al meglio i figli rappresenta il loro maggiore driver di cambiamento. Ho seguito un candidato papà che voleva cambiare lavoro proprio per ottenere orari più adatti alla sua vita da genitore. La nuova azienda per cui si è candidato lo ha rassicurato, garantendogli la migliore flessibilità possibile. E lo ha conquistato”.

“Con questo studio abbiamo voluto dare nitidezza ad una tendenza ancora dai contorni sfumati. Si sprecano le parole sulla difficile presenza delle donne nel mondo del lavoro e forse la soluzione è dove non stiamo guardando, nel lavoro dei papà. Ascoltare le loro voci è stata la via per portare all’attenzione di chi opera nel mercato del lavoro i problemi ma anche le soluzioni. Soluzioni spesso concretizzabili in azienda oggi stesso”, ha concluso Beatrice Böhm, Marketing & Communication Manager Reverse.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Australia, divieto social per gli under 16. L’esperto: “In...

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social sentiment like

L’Australia introdurrà limiti di età per l’uso dei social media e la notizia ha già creato un dibattito internazionale.

La polemica sull’argomento si è amplificata nel Paese dopo la morte di una studentessa, Ella Catley-Crawford, di Brisbane, vittima giovanissima di cyberbullismo che a maggio si è tolta la vita e, secondo alcuni esponenti di governo, sarebbe solo la punta di iceberg molto più grande. Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha sostenuto che il divieto dei social sotto i 16 anni sarà legge “entro la fine dell’anno”, poiché il partito laburista sostiene con fermezza che questo “limite nasce per proteggere i bambini dai pericoli online”.

E in Italia si parla già di “Scuole smartphone free” e una petizione, con oltre 70mila firme, chiede il divieto di cellulari sotto i 14 anni e dei social sotto i 16. Secondo il pedagogista Daniele Novara, oltre che essere un bene per la salute dei giovani, sarebbe un grande “gesto di civiltà per il nostro Paese”.

Australia e social: verso il divieto

Le piattaforme social prevedono già limiti di età fissate tra i 13 e i 14 anni. Il problema, secondo le famiglie, i genitori e gli esperti, è che non mettono in pratica i dovuti controlli per assicurarsi che non si iscrivano ragazzi più piccoli. È per questo motivo che il premier australiano, entro la fine dell’anno, ha previsto l’introduzione di una legge per aumentare il limite di età a 16 anni. L’Australia, in questo modo, diverrebbe uno tra i primi Paesi al mondo a imporre un’età minima per l’uso dei social media.

In una riunione straordinaria del governo nazionale, Albanese chiederà ai rappresentanti regionali di sostenere la proposta approvata dal suo governo. Ma non è solo una scelta politica, perché, come riporta l’Herald Sun, gli esperti che studiano la legge sostengono che il piano del governo di imporre limiti di età sui social media ha fondamenta scientifiche.

Quali rischi corrono gli adolescenti con i social?

Il dottor Simon Wilksch, ricercatore senior in psicologia presso la Flinders University, ha affermato al quotidiano australiano che il suo lavoro con i giovani di età compresa tra 11 e 13 anni ha dimostrato un legame tra i disturbi alimentari e la quantità di tempo che trascorrono sui social media: “L’inizio e la metà dell’adolescenza sono periodi in cui il cervello cerca ricompense sociali, in cui aumenta la sensibilità all’attenzione e all’approvazione degli altri”.

E le sue tesi sono supportate dalla professoressa neuroscienziata Selena Bartlett della Queensland University of Technology, secondo la quale, il cervello degli adolescenti è vulnerabile perché si trova in “un periodo di neuroplasticità”. “Il cervello del bambino è aperto all’impulsività e alla scarsa capacità decisionale, ovvero alla dipendenza. Il cervello non è completamente sviluppato fino ai 22 anni per le ragazze e ai 25 per i ragazzi”.

Anche uno studio globale pubblicato su Lancet Psychiatry ha scoperto che gli indicatori della salute mentale dei giovani sono diminuiti in tutto il mondo negli ultimi due decenni e che l’età di massima insorgenza delle malattie mentali è proprio 15 anni.

La reazione alla notizia

Se c’è chi da un lato accoglie la notizia con entusiasmo, meno felici sembrano essere i gestori di queste piattaforme. In primis, il danno è d’immagine, perché sostenere che non si fa a sufficienza per tutelare i minori, oltre che un reato perseguibile, sarebbe un grande colpo di reputazione. Ma è anche una questione di applicabilità delle norme.

Meta, società di Facebook e Instagram, ha dichiarato che avrebbe collaborato con il governo australiano nel processo di consultazione alla formazione della norma. Lo scorso settembre, Antigone Davis, vicepresidente globale per la sicurezza dell’azienda, ha dichiarato a una commissione parlamentare che gli utenti di tecnologia di età inferiore ai 16 anni dovrebbero avere bisogno dell’approvazione dei genitori prima di scaricare le app. Altre piattaforme, invece, sostengono di avere già limiti di questo tipo e che faranno il possibile per mediare i contenuti al proprio interno anche per le fasce minime di età consentita.

Per quanto riguarda i limiti negli altri Paesi, dagli Stati Uniti, alla Corea del Sud, passando per India e Brasile, già sono in vigore per gli adolescenti o si sta altrettanto pianificando di introdurre regole simili.

L’Unione europea si è espressa in passato, con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ha sostenuto che alcune di queste piattaforme rischiano di creare depressione e ansia. Una conseguenza è la decisione di sette famiglie francesi che hanno provveduto per vie legali contro TikTok perché, secondo loro, “non farebbe abbastanza per moderare i contenuti, amplificando il dolore dei figli”.

“Smartphone free” in Italia

In Italia, una petizione, a firma di pedagogisti e psicoterapeuti e presentata al governo, chiede esattamente un divieto degli smartphone sotto i 14 anni e e dei social sotto i 16. “La notizia che arriva dall’Australia – ha commentato Daniele Novara, pedagogista e ideatore della petizione in Italia – è sicuramente positiva, è anche una delle richieste presenti nell’appello ‘Stop smartphone e social sotti i 14 e 16 anni’ indirizzato al governo italiano”.

Secondo l’esperto, infatti, le “piattaforme devono avere l’obbligo di controllare l’età dei loro utenti e i governi devono agire perché questa legge venga rispettata. Il controllo non può essere delegato totalmente ai genitori che devono concentrarsi sull’educazione e non sulle procedure di vigilanza. I genitori oggi sono lasciati soli, come se la crescita delle nuove generazioni fosse un problema solo loro e non dell’intera comunità. Quindi guardo con estremo interesse quello che sta succedendo nel mondo. L’Australia si sta facendo capofila di un movimento internazionale su cui l’Italia assolutamente non dovrebbe risultare una retroguardia, ma un’avanguardia”.

E ha concluso: “Certo il nostro appello, che ha raccolto 70.000, punta anche al divieto di utilizzo di smartphone sotto i 14 anni, cosa che garantirebbe davvero alle nuove generazioni di evitare che il loro cervello entri in uno stato osmotico con i vari device. Gli smartphone sono capaci di attaccarsi alle aree dopaminergiche neuro-cerebrali impedendo ai bambini, alle bambine, ai ragazzi e le ragazze di fare una vita normale fatta di relazioni, di gioco, di spazi aperti. Non possiamo rimanere immobili di fronte a una generazione che rischia di isolarsi nelle camerette in una condizione di gravissimo rischio psico-evolutivo. Rischio abbondantemente segnalato da tutti gli indicatori psichiatrici e sociologici”.

Ma non è solo una questione di salute per i giovani, per Novara è proprio “un indice di civiltà. Ricordiamoci che siamo il Paese che per primo ha abrogato nel mondo le classi differenziali e i manicomi, due leggi a tutela delle fasce più deboli e fragili della nostra società. Ora si pone un problema simile e mi auguro che la politica, che già ha dato segnali di interesse, passi al più presto dalle parole ai fatti, con norme chiare che non lascino il cerino per l’ennesima volta in mano ai genitori”.

E le opinioni del pedagogista trovano il ministro dell’Istruzione italiano d’accordo. Infatti, secondo Valditara bisognerebbe “che i giovani prendano una pausa, almeno a scuola, dallo smartphone per fare in modo che non maturino una dipendenza”.

“Facciamo che le scuole siano ambienti smartphone free. Molti Paesi hanno già avviato un percorso di contenimento dell’utilizzo in particolare per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado, come abbiamo fatto noi”. Ma si può fare di più: “vietare l’accesso ai social ai minori di 15 anni – sostiene Valditara -. Esiste già una direttiva europea che interviene su questo settore, ora bisogna arrivare al riconoscimento dell’utente”. Dell’uso degli smartphone a scuola e dei social sotto una certa età, si discuterà il 25 novembre a Bruxelles.

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Medico di base per le persone senza dimora, un’attesa...

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Homeless

Dopo un’attesa durata quindici anni, il riconoscimento di un medico di base alle persone senza fissa diventa realtà, per ora nelle 14 città metropolitane dove questo fenomeno è più frequente.

Mercoledì 6 novembre, infatti, il Senato ha finalmente approvato all’unanimità una legge che assicura l’accesso all’assistenza sanitaria per gli homeless in Italia, incluse le cure del medico di base. Presentata dal deputato Marco Furfaro (Pd), la nuova norma colma un vuoto che ha lasciato per troppo tempo oltre 100.000 persone escluse da cure essenziali per il semplice fatto di non avere una residenza anagrafica. Un paradosso che teneva queste persone ancora più ai margini della società. La riforma seguirà due anni di sperimentazione, ma l’obiettivo è renderla strutturale.

Fino ad oggi, chi viveva in strada poteva accedere solo alle cure di emergenza, come quelle garantite nei pronto soccorso, mentre ogni altra prestazione del Servizio Sanitario Nazionale era inaccessibile. Molti Comuni avevano adottato soluzioni temporanee, come la creazione di indirizzi “fittizi” per iscrivere le persone senza dimora alle liste sanitarie, ma si trattava di un espediente instabile, complesso e applicati in casi sporadici.

Un diritto universale che diventa reale

Con la nuova legge, finalmente chi vive in strada potrà avere un medico di base senza il bisogno di un indirizzo formale. È una svolta tanto semplice quanto necessaria: poter contare su una figura medica stabile significa prevenire e curare patologie croniche, garantendo dignità e sicurezza anche a chi è più vulnerabile. La salute è un diritto di tutti, ma per le persone senza dimora, fino all’approvazione di questa legge, era un diritto solo sulla carta, anche se di rango costituzionale (art. 32).

Il contributo di Avvocato di Strada e una battaglia lunga anni

La battaglia per questa legge ha origini lontane e ha visto in prima linea Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di Strada. L’associazione fornisce dal 2001 assistenza legale gratuita alle persone senza dimora, affrontando quotidianamente casi di esclusione e difficoltà burocratiche che impediscono l’accesso ai servizi essenziali. Fu proprio Mumolo a proporre una prima versione della legge più di quindici anni fa, ma l’iter parlamentare si era bloccato per tre legislature consecutive.

Due anni fa, Mumolo era riuscito a ottenere l’approvazione di una legge regionale in Emilia-Romagna che per la prima volta garantiva il medico di base anche a chi non aveva una residenza. Da lì, l’iniziativa si era estesa in altre regioni come Abruzzo, Calabria, Liguria, Marche e Puglia, dove leggi simili erano state approvate. “In questo modo tante persone affette da malattie croniche hanno potuto iniziare a curarsi,” ha spiegato Mumolo, sottolineando come queste leggi abbiano già salvato delle vite.

Un fondo da 1 milione di euro

La nuova normativa prevede un fondo di 1 milione di euro all’anno per il 2025 e il 2026 per avviare un programma sperimentale nelle principali 14 città metropolitane d’Italia: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia. Qui si concentrano le maggiori popolazioni di persone senza dimora e dove l’accesso al medico di base sarà, per molte persone, una novità che potrà fare la differenza. L’obiettivo è estendere il diritto alla salute in modo uniforme e duraturo, evitando che la mancanza di una residenza continui a essere una barriera.

Un passo avanti verso una sanità inclusiva

Questo provvedimento non solo rappresenta un traguardo per chi vive in strada, ma getta le basi per una sanità più inclusiva e sostenibile, in un periodo in cui il Ssn è in grave crisi. Anche se per molti è controintuitivo, permettere a tutti di accedere alle cure di base può contribuire a ridurre la pressione sui pronto soccorso, alleggerendo i costi per il Sistema e migliorando complessivamente la salute pubblica.

L’inclusione sanitaria per le persone senza dimora è anche una questione di giustizia sociale: offrire protezione sanitaria a chi è più vulnerabile significa proteggere il diritto alla salute di tutta la comunità. Una sanità che esclude diventa inevitabilmente più costosa e meno efficace.

Un futuro dove nessuno è invisibile

Con questa legge, l’Italia compie un passo importante verso una società più giusta e coesa. Per troppo tempo, il diritto alla salute per chi non aveva una casa è stato considerato un “problema irrisolvibile”. Ora, invece, il riconoscimento di questo diritto rende finalmente concreto un principio semplice e fondamentale: nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno deve essere invisibile.

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Ansia da elezioni, scuola di New York concede un giorno di...

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Corridoio Scuola Canva

Votare può essere stressante, ma in America ancora di più. O, almeno, è quanto sostiene una scuola privata d’élite di New York che ha consentito un giorno di riposo dopo le elezioni a chi fosse deluso o agitato.

La Ethical Culture Fieldston School, una delle scuole private più prestigiose della città, ha annunciato che, in seguito alle elezioni presidenziali, gli studenti che si fossero sentiti stressati, ansiosi o emotivamente preoccupati, avrebbero avuto un supporto psicologico nell’istituto, con esperti a disposizione. Una notizia che, però, ha creato qualche perplessità.

“Un giorno di riposo per affrontare lo stress elettorale”

La Fieldston, situata nel quartiere di Riverdale nel Bronx di New York City, ha riconosciuto che il clima politico delle elezioni americane 2024 avrebbe potuto causare ansia e stress tra gli studenti, soprattutto in un periodo di crescente polarizzazione e tensione per le conseguenze.

Così, in un’email inviata alle famiglie, la preside della scuola superiore, Stacey Bobo, ha dichiarato che l’istituto è consapevole dell’ “alto rischio ed emozionante” periodo che segue le elezioni e ha deciso di offrire supporto a chiunque ne avesse bisogno.

L’istituto, inoltre, ha annunciato che non avrebbe assegnato compiti e non ci sarebbero state interrogazioni. E, per gli studenti che non si fossero sentiti in grado di partecipare pienamente alle lezioni, un giorno di riposo era autorizzato senza che ciò influenzasse le loro valutazioni accademiche. Inoltre, la scuola ha messo a disposizione psicologi per supportare emotivamente gli studenti durante questa settimana di stress elettorale. “Indipendentemente dall’esito delle elezioni”, ha scritto la preside Bobo, “abbiamo creato lo spazio per fornire agli studenti il supporto di cui avrebbero potuto aver bisogno”.

La reazione alla notizia

La decisione si inserisce in un contesto più ampio di crescente attenzione alla salute mentale degli studenti, un tema che sta diventando sempre più centrale nelle scuole degli Stati Uniti. Le elezioni del 2024, infatti, sono state descritte da entrambe le principali forze politiche come una “scelta decisiva sul futuro della democrazia americana, un tema che non ha mancato di suscitare preoccupazioni anche tra i più giovani.

La risposta alla decisione della Fieldston è stata diversa. Alcuni genitori hanno lodato l’iniziativa, vedendo in essa una risposta responsabile alle difficoltà emotive dei giovani in un periodo così turbolento. Altri hanno visto nella decisione un segno di eccessiva protezione. Il comico Jerry Seinfeld, che in passato ha avuto due figli iscritti alla Fieldston, ha dichiarato al New York Times che iniziative come questa hanno contribuito a spingere il suo figlio minore a cambiare scuola. “Ecco perché i ragazzi odiavano questa scuola“, ha detto Seinfeld. “Queste persone sembrano pensare che questo sia il modo giusto di educare i giovani, ma in realtà li stanno incoraggiando a essere deboli“.

Salute mentale nelle scuole

La decisione della Fieldston si inserisce in un contesto di crescente preoccupazione per la salute mentale dei giovani. Secondo un rapporto dell’American Psychological Association (Apa), quasi il 70% degli adulti statunitensi ha dichiarato che le elezioni sono una fonte importante di stress. Questa situazione è stata aggravata dai recenti dati che mostrano un aumento dei tassi di ansia e depressione, soprattutto tra i giovani adulti. Nel 2022, oltre il 26% dei ragazzi con un’età compresa tra i 18 e i 29 anni ha segnalato sintomi di ansia.

In effetti, i tassi di ansia e depressione tra gli adulti statunitensi sono aumentati significativamente negli ultimi anni. Secondo una recente indagine del Centro statunitense per il controllo e la salute mentale, nel 2022 circa il 18,2% degli adulti ha riportato sintomi di ansia, rispetto al 15,6% del 2019, con i giovani adulti tra i 18 e i 29 anni che sono i più colpiti. Più di un quarto di loro (26,6%) ha riferito di aver sofferto di sintomi di ansia nelle due settimane precedenti il sondaggio.

Allo stesso modo, i tassi di depressione tra gli adulti sono aumentati dal 18,5% al 21,4% nel periodo 2019-2022, con il 27% dei giovani adulti che ha dichiarato di essersi sentito depresso nelle ultime due settimane prima del sondaggio.

Questi dati riflettono, inoltre, le osservazioni del Dottor Vivek Murthy, chirurgo generale degli Stati Uniti, che ha parlato nel 2021 di una “crisi” nella salute mentale tra i giovani, un fenomeno amplificato da fattori come il cambiamento climatico, la disuguaglianza economica e la violenza armata. L’ansia legata a eventi come le elezioni presidenziali si inserisce quindi in un quadro già preoccupante.

La scelta della Fieldston di esentare gli studenti dalle lezioni e di offrire supporto psicologico non è solo un gesto di empatia, ma anche una risposta alle difficoltà che molti giovani affrontano in tempi di incertezza e divisione politica. L’educazione e la gestione delle emozioni legate agli eventi politici sono diventate questioni sempre più rilevanti nelle scuole, che si trovano a fronteggiare non solo l’insegnamento accademico ma anche il benessere psicologico dei loro studenti.

Il dibattito su come gestire la salute mentale degli studenti e su come affrontare il difficile periodo delle elezioni riflette le sfide più ampie che le scuole e le famiglie affrontano oggi. Da un lato, c’è la necessità di riconoscere e trattare i problemi di salute mentale con serietà, ma dall’altro c’è chi teme che una protezione eccessiva possa portare a una mancanza di resilienza nei giovani.

In ogni caso, l’iniziativa della Fieldston apre la porta a una riflessione più ampia su come educare e supportare le nuove generazioni.

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