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Ceccon: “Sbalzi d’umore dopo l’oro”, cosa succede quando si vince?

Thomas Ceccon, medaglia d’oro nei 100 dorso e di bronzo con la staffetta 4×100 stile, è uno dei protagonisti della spedizione azzurra a Parigi 2024. Il campione classe 2001 ha espresso la sua gioia per il traguardo raggiunto dopo tanti sacrifici: “Quando avevo 15 anni stavo andando all’allenamento, il mio allenatore mi chiese quale fosse il mio sogno. Io ho risposto che era l’oro alle Olimpiadi“, ha detto visibilmente emozionato ai microfoni di Rai Sport subito dopo il trionfo nel 100 metri dorso.

Altre dichiarazioni del campione azzurro, però, stimolano riflessioni su cosa succede alla mente umana quando si vince.

Quali emozioni genera vincere?

Il talento vicentino ha spiegato da Casa Azzurri: “Io ho avuto alti e bassi. È così: dopo che vinci una medaglia d’oro hai sbalzi di umore, nel senso che vai tanto su, però rischi anche di andare tanto giù. Per via delle difficoltà nel villaggio, poi ho fatto anche i 200 dorso… Magari sono calato un po’, e si è visto soprattutto nella staffetta dell’ultimo giorno. Sicuramente gli sbalzi d’umore ci sono, non è facile. Però emozioni tantissime”.

Parole sincere, genuine, capaci di andare oltre le prestazioni sportive così come quelle di altri atleti e atlete azzurre in queste Olimpiadi. I più giovani ci stanno insegando che il lavoro e la vita devono andare di pari passo, che non esistono i compartimenti stagni. Questo nuovo modo di vivere lo sport, le vittorie e i fallimenti è coerente con le priorità professionali delle nuove generazioni, per le quali il work-life balance e lavorare in ambienti sani non sono più un dettaglio.

Nonostante i “naturali” sbalzi d’umore Ceccon si è goduto il meritato oro, ma perché a volte non siamo in grado di gestire le nostre emozioni davanti ai trionfi? Perché a volte si va più giù che su, nonostante il raggiungimento di un traguardo atteso mesi, anni e a volte una vita intera?

La risposta, come spesso accade quando si tratta della mente umana, non è semplice né univoca.
Due fenomeni psicologici, in particolare, potrebbero gettare luce su questo enigma: la sindrome dell’impostore e l’adattamento edonico. Entrambi, seppur profondamente diversi, possono trasformare i momenti più alti in un’esperienza sorprendentemente vuota.

La sindrome dell’impostore: quando il successo suona falso

Immaginate di salire sul gradino più alto del podio, con la medaglia d’oro al collo, mentre una vocina nella vostra testa sussurra incessantemente: “Non te lo meriti. È stato solo un colpo di fortuna. Presto tutti scopriranno che sei un bugiardo.” Questo è il tormento quotidiano di chi soffre della sindrome dell’impostore.

Questa condizione psicologica, riconosciuta per la prima volta negli anni ’70, colpisce individui di ogni campo, dagli atleti agli accademici, dai CEO agli artisti. Le persone che ne soffrono vivono con la costante paura di essere “smascherate”, convinte che i loro successi siano frutto del caso o di un’abilità nell’ingannare gli altri, piuttosto che del proprio talento e impegno.

Nel mondo dello sport d’élite, dove la pressione è già alle stelle, la sindrome dell’impostore può essere particolarmente devastante.
Questo stato mentale non solo ruba la gioia del momento, ma può anche minare le prestazioni future. L’ansia di dover continuamente dimostrare il proprio valore può portare a un perfezionismo ossessivo, a un allenamento eccessivo o, paradossalmente, a comportamenti di autosabotaggio.

L’adattamento edonico: quando l’eccezionale diventa routine

D’altra parte, l’adattamento edonico offre una prospettiva completamente diversa. Questo fenomeno, noto anche come “tapis roulant edonico“, descrive la tendenza umana ad abituarsi rapidamente a nuove situazioni, positive o negative che siano.

Pensate a quando avete comprato il vostro primo smartphone. All’inizio, ogni funzione sembrava magica, ogni notifica era eccitante. Ma col passare del tempo, quello che una volta era straordinario è diventato ordinario. Lo stesso processo può verificarsi nel percorso di qualsiasi persona, nell’ambito della professione o, semplicemente, della propria vita.

Per un atleta il cammino verso il successo è costellato di successi crescenti: vittorie regionali, nazionali, record personali infranti. Ogni traguardo, inizialmente esaltante, col tempo diventa la nuova normalità. Persino l’oro olimpico, il pinnacolo del successo sportivo, potrebbe non suscitare l’emozione travolgente che ci si aspetterebbe.

L’adattamento edonico non è un difetto, ma un meccanismo evolutivo che ci permette di adattarci a nuove situazioni. Tuttavia, l’equilibrio è molto delicato e il rischio è che si vada alla costante ricerca di nuovi stimoli, il che rende impossibile godersi i traguardi raggiunti.
Come cantava Tiziano Ferro: “È assurdo pensare che giunti a un traguardo, neanche ci arrivi, che diventa un ricordo”.

Due facce della stessa medaglia?

Mentre la sindrome dell’impostore e l’adattamento edonico possono sembrare agli antipodi – uno basato sull’insicurezza, l’altro su un processo naturale di adattamento – entrambi possono coesistere, creando un cocktail emotivo complesso.

Un atleta potrebbe simultaneamente dubitare delle proprie capacità (sindrome dell’impostore) e sentirsi anestetizzato al successo (adattamento edonico). Il risultato? Una vittoria che, anziché essere celebrata, viene vissuta con un mix di ansia e indifferenza.

Oltre l’oro: come ritrovare la gioia del successo

Riconoscere questi fenomeni è il primo passo verso una soluzione. Per gli atleti che lottano con la sindrome dell’impostore, la terapia cognitivo-comportamentale può essere un valido alleato. Imparare a riconoscere e sfidare i pensieri negativi, celebrare i propri successi senza minimizzarli, e condividere le proprie insicurezze con mentor o colleghi fidati può fare la differenza.

Per contrastare l’adattamento edonico, la pratica della gratitudine può essere sorprendentemente efficace. Tenere un diario dei successi, per quanto piccoli, può aiutare a mantenere viva l’emozione del progresso. Inoltre, fissare nuovi obiettivi e sfide può mantenere alta la motivazione, evitando la stagnazione emotiva.

Le federazioni sportive e i comitati olimpici hanno un ruolo cruciale in questo processo. Implementare programmi di supporto psicologico che vadano oltre la preparazione alla gara, focalizzandosi anche sulla gestione del successo, potrebbe fare la differenza nella carriera e nel benessere di molti atleti. Giova sottolineare come Thomas Ceccon sia apparso evidentemente emozionato per i traguardi raggiunti a Parigi. Proprio la consapevolezza sulle dinamiche mentali, che il campione vicentino ha mostrato di avere, è la chiave per non restarne vittima.

Mentre il mondo guarda con ammirazione le imprese di questi atleti straordinari, è importante ricordare che dietro ogni medaglia c’è un essere umano, con le sue insicurezze, le sue paure e le sue sfide personali. Riconoscere e affrontare fenomeni come la sindrome dell’impostore e l’adattamento edonico non solo può migliorare le prestazioni degli atleti, ma può anche arricchire la loro esperienza umana.

In fin dei conti, forse, il vero oro non è quello che brilla al collo, ma la capacità di trovare gioia e soddisfazione nel proprio percorso di vita, con tutte le sue curve e i suoi ostacoli.

Il post di Davide Re

Come ha scritto l’atleta olimpionico Davide Re, primatista italiano della staffetta 4×400 metri in un post su Instagram: “Ho sempre fatto atletica per me stesso e per migliorare me stesso, come persona di sport sento di essere cresciuto di più da Aprile 2024 ad oggi che negli ultimi 10 anni di carriera.

Ieri come avrà visto chi mi segue ho dovuto rinunciare ai ripescaggi perché purtroppo il mio tendine è peggiorato ulteriormente dopo la batteria; ma sono orgoglioso di poter gridare a tutto il mondo che io a Parigi c’ero, che ho sempre lottato e non mi sono mai tirato indietro seppur ben consapevole dei miei limiti attuali, ed alla fine dopo una straziante e lunga battaglia ad aver ceduto per primo è stato il corpo e non la mente. Questa è la mia vittoria“.

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Davide Re (@davide_re93)

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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...

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Donna che fa una smorfia

Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.

I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’

Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.

Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.

‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà

Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.

Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.

Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.

Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.

La bellezza è anche un privilegio economico e sociale

Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.

Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.

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Bologna, 12 brasiliani chiedono la cittadinanza perché...

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Ragazza con bandiera italiana

12 brasiliani hanno chiesto al tribunale di Bologna la cittadinanza italiana. La parte anomala della vicenda è che la richiesta si basa su un’antenata in comune, nata a Marzabotto nel 1876.

Una richiesta formalmente legittima, ma di dubbia ragionevolezza giuridica, tanto che, con ordinanza, il tribunale di Bologna “ha sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina italiana in materia di cittadinanza, nella parte in cui prevede il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza alcun limite temporale”. Come spiegato dal presidente del tribunale Pasquale Liccardo, i giudici chiedono se sia legittimo riconoscere la cittadinanza anche se l’avo di riferimento sia nato molte generazioni prima (in questo caso quasi 150 anni fa) e i discendenti non abbiano alcun legame con la cultura, le tradizioni e la lingua italiana.

L’ordinanza del tribunale di Bologna

A firmare l’atto è stato il giudice Marco Gattuso, lo stesso che un mese fa aveva sollevato alla Corte di Giustizia Ue il rinvio pregiudiziale del decreto Paesi sicuri, attirandosi le critiche dell’esecutivo. In questo caso, Gattuso spiega che “la cittadinanza identifica l’elemento costitutivo del popolo, cui la Carta costituzionale riconosce la sovranità”, “il criterio che consente di distinguere il ‘popolo’ rispetto agli altri popoli”.

Da qui la questione di costituzionalità sullo ius sanguinis, che si applica senza alcun limite temporale purché la trasmissione di cittadinanza non sia mai stata interrotta con un atto formale di rinuncia. Il tribunale chiede alla Consulta di verificare se “tale disciplina sia o meno in contrasto con le nozioni di popolo e di cittadinanza richiamati nella Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia anche nell’ambito dell’Unione europea”, sottolineando implicitamente l’illogicità del meccanismo.

I 12 brasiliani, spiega ancora il tribunale di Bologna “chiedono l’accertamento della cittadinanza italiana per la sola presenza di un’antenata italiana, fra le decine di loro antenati non italiani, nata nel 1876 e partita da giovane dal nostro Paese”.

Il confronto con gli altri Paesi e il rischio di un precedente

Recentemente, il dibattito politico si è acceso sul tema della cittadinanza tra ius scholae, ius soli e ius sanguinis. Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato agevolmente le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.

Intanto, tranne rare eccezioni, vige uno ius sanguinis particolare: “l’ordinamento italiano è uno dei pochissimi al mondo a riconoscere lo ius sanguinis senza prevedere alcun limite”, scrive ancora il tribunale di Bologna nell’ordinanza spedita a Roma. I giudici si rivolgono alla Consulta non solo in merito alla richiesta dei 12 brasiliani, ma anche considerando che l’Italia “presenta all’estero, secondo le stime più accreditate, diverse decine di milioni di discendenti da un antenato italiano”. Un precedente in tal senso potrebbe generare un effetto a cascata nonostante la dubbia ragionevolezza giuridica del meccanismo.

Seguendo una interpretazione restrittiva della legge, i richiedenti possono diventare italiani pur non avendo mai visto l’Italia se non in video o in foto. Nel frattempo, milioni di immigrati nati e cresciuti in Italia non riescono ad ottenere la cittadinanza perché, tranne in rare eccezioni, non vige lo ius soli, né lo ius scholae o lo ius culturae.

L’analogia con il “caso veneto”

La questione sollevata dal tribunale di Bologna ricorda il “caso veneto”, dove 92mila bambini e ragazzi, figli di genitori stranieri, vivono e studiano senza avere la cittadinanza, mentre 300mila oriundi nati all’estero, con un trisavolo veneto, riescono a ottenerla. Il fenomeno pone interrogativi sul senso di appartenenza e cittadinanza nel nostro Paese, ma anche sui criteri con cui vengono stabiliti i diritti civili.

Il Veneto è una delle regioni italiane più colpite da questa dinamica, a causa del suo passato di forte emigrazione verso le Americhe tra Ottocento e Novecento. Molti discendenti di emigranti veneti, principalmente in Brasile e Argentina, richiedono la cittadinanza italiana grazie alla legge sullo ius sanguinis. Salvatore Laganà, presidente del Tribunale di Venezia, ha confermato che il 43% delle richieste per discendenza in tutta Italia proviene proprio dal Veneto. Dal trasferimento della competenza nel 2022, il Tribunale ha gestito oltre 23mila pratiche, con ancora 18mila richieste pendenti.

La regione oggi si trova a gestire migliaia di richieste di cittadinanza, un compito che grava pesantemente sui piccoli Comuni. Il paradosso demografico è evidente: in un territorio in cui nascono sempre meno bambini – circa 30mila all’anno – il numero di nuovi cittadini per discendenza supera di gran lunga quello delle nuove nascite.

Per approfondire: Alcuni comuni veneti hanno più richieste di cittadinanza che nuovi nati

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Congedo paternità obbligatorio, per Meloni è ‘no’. Valore...

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Padre legge un libro al figlio

Occorre stimolare un cambiamento culturale per quanto riguarda l’utilizzo dei congedi di paternità, ma per rendere questo cambiamento concreto e celere serve anche estendere la misura e renderla obbligatoria, in modo da “responsabilizzare entrambi i genitori nel loro ruolo educativo”. Lo ha sottolineato Valore D, associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e l’inclusività come fattore competitivo per la crescita delle aziende e del Paese, a proposito delle affermazioni della premier Giorgia Meloni espresse in un’intervista rilasciata alla direttrice di ‘Donna Moderna’ Maria Elena Viola.

Meloni: “No al congedo di paternità obbligatorio”

Nell’intervista Meloni aveva detto di non essere a favore dell’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, e questo perché la soluzione, ha precisato, è nella “libera scelta: il congedo parentale, infatti, vale sia per la madre che per il padre”.

La premier riconosce l’esistenza di un problema culturale su cui è favorevole a intervenire: in Italia gli uomini si vergognano a prendere il congedo parentale. “Sono d’accordo – ha detto – ed è qualcosa su cui bisogna lavorare, però non so quanto lo possiamo risolvere con un obbligo”.

“Il congedo parentale, come lo abbiamo ampliato noi, si utilizza fino al sesto anno di vita del bambino e consente alla famiglia di organizzarsi perché non si smette di essere genitori dopo i primi mesi di vita del figlio – ha spiegato. È un congedo che si prende a condizione necessaria. Se noi lo mettessimo obbligatorio potremmo aumentarlo di quanto? Dieci giorni, un mese? Non avrebbe lo stesso impatto. Culturalmente sì, però, secondo me, ha più senso se noi su questo lavoriamo sul piano culturale perché ci dà una risposta che può essere ugualmente utile, senza però comprimere quello che stiamo dando alle famiglie, perché tre mesi sono tre mesi. Sicuramente sul tema culturale questa è una battaglia che mi interessa”.

Valore D: da anni lavoriamo per promuovere congedo di paternità

In riferimento alla posizione espressa da Meloni, Valore D ha anche evidenziato come da anni l’associazione lavori attraverso le proprie associate per mettere in atto politiche che promuovano il congedo di paternità oltre i 10 giorni stabiliti dalla legislazione corrente, sottolineando che l’estensione del congedo di paternità e l’obbligatorietà della misura rimangano necessarie per raggiungere l’obiettivo di “una pari responsabilizzazione di entrambi i genitori”, e dunque per “migliorare il benessere della famiglia nel suo insieme” e arrivare a “contrastare l’inverno demografico italiano”.

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