Cos’è il microfemminismo e come metterlo in pratica ogni giorno (conviene anche agli uomini)
Come una goccia scava la roccia, così smantellare credenze, pregiudizi e consuetudini che perpetuano la disuguaglianza tra i due sessi passa anche da piccole azioni, che non sostituiscono quelle più eclatanti ma le rinforzano con un’opera quotidiana e costante che arrivi man mano a cambiare il modo di pensare, lo status quo e le abitudini (anche delle donne stesse).
Micro azioni insomma per mettere in campo un microfemminismo: un trend nato su TikTok ma che esce ben al di fuori dai quattro lati dello schermo per entrare nella vita di tutti i giorni, e a 360 gradi. Perché a 360 gradi è la discriminazione a carico delle donne. Una tendenza che serve anche per far capire che il femminismo non mira alla prevaricazione sugli uomini per ottenere una rivalsa, né a sostituirli in una forma di esercizio del potere che si sta dimostrando sempre più limitante e castrante, anche per i maschi, ma punta piuttosto a realizzare una società più equa e giusta per tutti.
Il microfemminismo
Come ha spiegato la produttrice e conduttrice televisiva Ashley Chaney, che ha creato il trend con un video su TikTok e l’hashtag #microfeminism, si tratta in sostanza di mettere in campo piccole azioni che possano portare a un cambio di mentalità perché vanno a scalfire degli automatismi, forti anche nelle donne stesse, su cui in grossa parte si regge il sistema.
Il microfemminismo aiuta anche a riconoscere il microsessismo e il micromaschilismo, di cui spesso nemmeno ci accorgiamo proprio perché fin da piccoli molte cose le abbiamo assorbite come naturali e non ci siamo mai più interrogati al riguardo. Alla base quindi c’è un recupero della consapevolezza, sicuramente non facile e che riguarda tutti.
Le azioni da praticare possono essere davvero tantissime e di ogni tipo, c’è l’imbarazzo della scelta (purtroppo). Per fare degli esempi pratici: a lavoro possiamo rivolgerci prima alle colleghe donne nelle mail o nelle riunioni, o dare per scontato che un dirigente sia donna in modo da normalizzare la cosa; oppure nelle presentazioni possiamo usare immagini non stereotipate (medico o manager maschio, per dirne una), oppure sostenere le colleghe interrotte da un uomo quando parlano, o sponsorizzarle nei loro progetti.
In generale, possiamo usare il femminile sovraesteso invece del maschile, o quanto meno la forma femminile delle cariche e dei lavori, specialmente quando esiste (mentre ora ad esempio sta passando l’uso indiscriminato di ‘direttore’, sebbene esista e possa essere usato ‘direttrice’). Ancora, possiamo regalare giocattoli considerati ‘da femmina’ ai maschi e viceversa, o rispondere a tono a domande sessiste e a battute poco divertenti.
Quest’ultimo è un aspetto delicato, perché normalmente, se una donna risponde a battute poco felici viene fatta passare per acida, poco spiritosa, o che ‘ha le sue cose’. Un sistema per rigirare la frittata che fino ad oggi ha funzionato benissimo. Chaney suggerisce di rispondere con altrettanti stereotipi, in modo da svelare i paradossi e i pregiudizi da cui nascono scherzi che di divertente hanno poco.
Ancora, possiamo rivolgerci ai padri quando si tratta di figli invece di riferirci solo alle madri, oppure possiamo scegliere preferibilmente professioniste donne, o smettere di usare l’articolo ‘la’ davanti ai cognomi femminili (ad esempio: ‘la Meloni’, ma certo mai ‘il Conte’ o ‘il Tajani’).
Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, da esse passa la nostra realtà e come decidiamo di definirla. Il linguaggio è vivo e in continua evoluzione, e se accettiamo, come abbiamo fatto negli ultimi anni, un uso errato del ‘piuttosto che’, per non parlare della perdita di importanza del congiuntivo, non si vede perché non possiamo anche portare avanti un’evoluzione in senso paritario o neutro delle professioni. E’ ovvio che le resistenze sono altre, ma per usare le parole della scrittrice Vera Gheno: “Non tutti nasciamo per stare sulle barricate, ma tutti possiamo prenderci la responsabilità della lingua che usiamo nel nostro quotidiano”.
Tornando al microfemminismo, lo è anche non uscire immancabilmente in tiro per assecondare l’obbligo secondo cui la donna deve essere sempre impeccabile, oppure, se siamo uomini, indossare capi rosa e scoprire che la nostra virilità non ne uscirebbe intaccata (tra l’altro la distinzione dei colori per maschi e femmine è recentissima, oltre che arbitraria). Sì, perché il microfemminismo può essere attuato, e sarebbe bello se lo fosse in modo più diffuso, anche dagli uomini. Non solo per motivi di giustizia ma pure per un vantaggio personale.
Un vantaggio anche per gli uomini
È ovvio che chi ha il potere non voglia cederlo, e che chi ha i privilegi (questo riguarda tutti noi occidentali bianchi) non sia disposto a rinunciarvi, ma riequilibrare le opportunità tra uomini e donne e smantellare pregiudizi e stereotipi porta dei vantaggi anche alla metà maschile del cielo. Non solo perché nell’insieme gli uomini beneficerebbero della aumentata prosperità che la maggiore partecipazione delle donne ai ruoli decisionali porta nelle economie, fenomeno dimostrato da molti studi, ma anche perché essi stessi sono vittima del loro stesso patriarcato.
Pensiamo solo al fatto che, secondo i luoghi comuni, gli uomini non devono avere emozioni, né essere sensibili né chiedere aiuto: il vero uomo è un duro che si impone con decisione e spesso violenza – verbale o fisica -, che si fa rispettare incutendo paura o perché non ascolta nessuno.
Ancora, fare il ‘mammo’ o il ‘casalingo’ può essere a tutt’oggi fonte di presa in giro. Non solo, ma ormai anche i maschi, come le femmine, subiscono dei diktat senza i quali vivrebbero assai meglio. Tra essi, la pressione ad avere una certa presenza fisica, oltre al successo economico e professionale e ovviamente a quello sessuale. Il trend degli uomini topo dimostra che è molto più facile piazzare sul carrozzone del body shaming anche gli uomini piuttosto che parcheggiarlo a lato della strada e procedere con altri mezzi.
Sintetizza Chaney: “Il microfemminismo da solo non sarà mai in grado di contrastare secoli di politiche sociali e economiche patriarcali, ma dobbiamo partire della consapevolezza. Praticare quotidianamente azioni femministe aiuta a spargere la voce, a diffondere l’idea che il femminismo non sia un’ideologia campata per aria, ma una proposta tangibile di società equa, per tutte le persone”.
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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...
Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.
I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’
Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.
Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.
‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà
Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.
Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.
Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.
Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.
La bellezza è anche un privilegio economico e sociale
Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.
Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.
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Bologna, 12 brasiliani chiedono la cittadinanza perché...
12 brasiliani hanno chiesto al tribunale di Bologna la cittadinanza italiana. La parte anomala della vicenda è che la richiesta si basa su un’antenata in comune, nata a Marzabotto nel 1876.
Una richiesta formalmente legittima, ma di dubbia ragionevolezza giuridica, tanto che, con ordinanza, il tribunale di Bologna “ha sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina italiana in materia di cittadinanza, nella parte in cui prevede il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza alcun limite temporale”. Come spiegato dal presidente del tribunale Pasquale Liccardo, i giudici chiedono se sia legittimo riconoscere la cittadinanza anche se l’avo di riferimento sia nato molte generazioni prima (in questo caso quasi 150 anni fa) e i discendenti non abbiano alcun legame con la cultura, le tradizioni e la lingua italiana.
L’ordinanza del tribunale di Bologna
A firmare l’atto è stato il giudice Marco Gattuso, lo stesso che un mese fa aveva sollevato alla Corte di Giustizia Ue il rinvio pregiudiziale del decreto Paesi sicuri, attirandosi le critiche dell’esecutivo. In questo caso, Gattuso spiega che “la cittadinanza identifica l’elemento costitutivo del popolo, cui la Carta costituzionale riconosce la sovranità”, “il criterio che consente di distinguere il ‘popolo’ rispetto agli altri popoli”.
Da qui la questione di costituzionalità sullo ius sanguinis, che si applica senza alcun limite temporale purché la trasmissione di cittadinanza non sia mai stata interrotta con un atto formale di rinuncia. Il tribunale chiede alla Consulta di verificare se “tale disciplina sia o meno in contrasto con le nozioni di popolo e di cittadinanza richiamati nella Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia anche nell’ambito dell’Unione europea”, sottolineando implicitamente l’illogicità del meccanismo.
I 12 brasiliani, spiega ancora il tribunale di Bologna “chiedono l’accertamento della cittadinanza italiana per la sola presenza di un’antenata italiana, fra le decine di loro antenati non italiani, nata nel 1876 e partita da giovane dal nostro Paese”.
Il confronto con gli altri Paesi e il rischio di un precedente
Recentemente, il dibattito politico si è acceso sul tema della cittadinanza tra ius scholae, ius soli e ius sanguinis. Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato agevolmente le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.
Intanto, tranne rare eccezioni, vige uno ius sanguinis particolare: “l’ordinamento italiano è uno dei pochissimi al mondo a riconoscere lo ius sanguinis senza prevedere alcun limite”, scrive ancora il tribunale di Bologna nell’ordinanza spedita a Roma. I giudici si rivolgono alla Consulta non solo in merito alla richiesta dei 12 brasiliani, ma anche considerando che l’Italia “presenta all’estero, secondo le stime più accreditate, diverse decine di milioni di discendenti da un antenato italiano”. Un precedente in tal senso potrebbe generare un effetto a cascata nonostante la dubbia ragionevolezza giuridica del meccanismo.
Seguendo una interpretazione restrittiva della legge, i richiedenti possono diventare italiani pur non avendo mai visto l’Italia se non in video o in foto. Nel frattempo, milioni di immigrati nati e cresciuti in Italia non riescono ad ottenere la cittadinanza perché, tranne in rare eccezioni, non vige lo ius soli, né lo ius scholae o lo ius culturae.
L’analogia con il “caso veneto”
La questione sollevata dal tribunale di Bologna ricorda il “caso veneto”, dove 92mila bambini e ragazzi, figli di genitori stranieri, vivono e studiano senza avere la cittadinanza, mentre 300mila oriundi nati all’estero, con un trisavolo veneto, riescono a ottenerla. Il fenomeno pone interrogativi sul senso di appartenenza e cittadinanza nel nostro Paese, ma anche sui criteri con cui vengono stabiliti i diritti civili.
Il Veneto è una delle regioni italiane più colpite da questa dinamica, a causa del suo passato di forte emigrazione verso le Americhe tra Ottocento e Novecento. Molti discendenti di emigranti veneti, principalmente in Brasile e Argentina, richiedono la cittadinanza italiana grazie alla legge sullo ius sanguinis. Salvatore Laganà, presidente del Tribunale di Venezia, ha confermato che il 43% delle richieste per discendenza in tutta Italia proviene proprio dal Veneto. Dal trasferimento della competenza nel 2022, il Tribunale ha gestito oltre 23mila pratiche, con ancora 18mila richieste pendenti.
La regione oggi si trova a gestire migliaia di richieste di cittadinanza, un compito che grava pesantemente sui piccoli Comuni. Il paradosso demografico è evidente: in un territorio in cui nascono sempre meno bambini – circa 30mila all’anno – il numero di nuovi cittadini per discendenza supera di gran lunga quello delle nuove nascite.
Per approfondire: Alcuni comuni veneti hanno più richieste di cittadinanza che nuovi nati
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Congedo paternità obbligatorio, per Meloni è ‘no’. Valore...
Occorre stimolare un cambiamento culturale per quanto riguarda l’utilizzo dei congedi di paternità, ma per rendere questo cambiamento concreto e celere serve anche estendere la misura e renderla obbligatoria, in modo da “responsabilizzare entrambi i genitori nel loro ruolo educativo”. Lo ha sottolineato Valore D, associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e l’inclusività come fattore competitivo per la crescita delle aziende e del Paese, a proposito delle affermazioni della premier Giorgia Meloni espresse in un’intervista rilasciata alla direttrice di ‘Donna Moderna’ Maria Elena Viola.
Meloni: “No al congedo di paternità obbligatorio”
Nell’intervista Meloni aveva detto di non essere a favore dell’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, e questo perché la soluzione, ha precisato, è nella “libera scelta: il congedo parentale, infatti, vale sia per la madre che per il padre”.
La premier riconosce l’esistenza di un problema culturale su cui è favorevole a intervenire: in Italia gli uomini si vergognano a prendere il congedo parentale. “Sono d’accordo – ha detto – ed è qualcosa su cui bisogna lavorare, però non so quanto lo possiamo risolvere con un obbligo”.
“Il congedo parentale, come lo abbiamo ampliato noi, si utilizza fino al sesto anno di vita del bambino e consente alla famiglia di organizzarsi perché non si smette di essere genitori dopo i primi mesi di vita del figlio – ha spiegato. È un congedo che si prende a condizione necessaria. Se noi lo mettessimo obbligatorio potremmo aumentarlo di quanto? Dieci giorni, un mese? Non avrebbe lo stesso impatto. Culturalmente sì, però, secondo me, ha più senso se noi su questo lavoriamo sul piano culturale perché ci dà una risposta che può essere ugualmente utile, senza però comprimere quello che stiamo dando alle famiglie, perché tre mesi sono tre mesi. Sicuramente sul tema culturale questa è una battaglia che mi interessa”.
Valore D: da anni lavoriamo per promuovere congedo di paternità
In riferimento alla posizione espressa da Meloni, Valore D ha anche evidenziato come da anni l’associazione lavori attraverso le proprie associate per mettere in atto politiche che promuovano il congedo di paternità oltre i 10 giorni stabiliti dalla legislazione corrente, sottolineando che l’estensione del congedo di paternità e l’obbligatorietà della misura rimangano necessarie per raggiungere l’obiettivo di “una pari responsabilizzazione di entrambi i genitori”, e dunque per “migliorare il benessere della famiglia nel suo insieme” e arrivare a “contrastare l’inverno demografico italiano”.