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Come un oncologo riduce il rischio di cancro: 5 abitudini chiave

L’oncologo Mikkael A. Sekeres ha condiviso le sue abitudini per ridurre il rischio di cancro. Autore di diversi libri e professore di Ematologia presso il Sylvester Comprehensive Cancer Center dell’Università di Miami, l’oncologo ha pubblicato sul Washington Post 5 consigli che lui segue personalmente per allontanare il cancro, data la sua storia familiare fortemente segnata da questa malattia. Sua madre ha un cancro ai polmoni, mentre suo zio e sua nonna materna sono stati colpiti dalla leucemia. Dal lato paterno, il nonno ha avuto un tumore alla prostata e la nonna un cancro alle ovaie.

Sono un oncologo, ecco cosa faccio

Questa storia familiare ha motivato Sekeres non solo a intraprendere la carriera di oncologo, ma anche a fare scelte di vita mirate alla prevenzione.

Quasi la metà dei tumori, infatti, è prevenibile. Uno studio dell’American Cancer Society pubblicato a luglio ha stimato che, nel 2019, negli Stati Uniti, il 40% delle nuove diagnosi di cancro negli adulti sopra i 30 anni era dovuto a un rischio modificabile.

Ecco le cinque importanti misure che l’oncologo adotta per ridurre il rischio di cancro.

Protezione solare rigorosa

La prima abitudine che Sekeres segue riguarda la protezione solare. Durante gli studi di medicina, ha assistito a una lezione illuminante in cui il professore ha mostrato due foto: una di un uomo anziano con la pelle liscia, simile alla porcellana perché aveva evitato il sole per tutta la vita; l’altra di una donna più giovane, che trascorreva molto tempo al sole, con il viso ricoperto di rughe e un aspetto molto più invecchiato dell’uomo.
Questa lezione, seguita da un approfondimento sui tumori della pelle, ha spinto l’oncologo ad adottare misure preventive rigorose. Sekeres applica quotidianamente una protezione solare su viso e corpo, soprattutto quando prevede di esporsi al sole. Tiene sempre la protezione solare in macchina, per ogni evenienza e segue le raccomandazioni dei Centers for Disease Control and Prevention quando trascorre più di 30 minuti all’aperto, indossando un cappello, occhiali da sole, una maglietta a maniche lunghe e applicando una crema solare con un fattore di protezione di almeno 15.

Con buona pace dei negazionisti della crema solare. Il rifiuto delle protezioni solari, spiega all’Adnkronos Salute Giuseppe Argenziano, presidente Sidemast (Società italiana di dermatologia e malattie sessualmente trasmesse), “più che una moda direi che è un atteggiamento paranoico che purtroppo, come per i no-vax e i no-farmaci, può essere molto pericoloso”. Il punto è che “il 90% dei tumori della pelle sono collegati alle scottature solari e quindi il filtro solare rappresenta un buon compromesso tra voglia di sole e prudenza.

L’importanza della crema solare è supportata da uno studio del 2019, che ha rivelato come la radiazione ultravioletta sia il secondo fattore più importante nelle nuove diagnosi di cancro negli uomini (circa il 6% dei casi) e il quinto nelle donne (circa il 4% dei casi). Non sorprende che la maggior parte delle diagnosi di melanoma e tumore alla pelle non melanoma (cancro della pelle a cellule basali e squamose) siano state attribuite alla radiazione UV. Sekeres sottolinea anche l’importanza di evitare i lettini abbronzanti. Il rischio di melanoma aumenta del 75% nelle persone che si sottopongono a trattamenti di abbronzatura artificiale prima dei 35 anni, con un rischio proporzionale agli anni di utilizzo e al numero di sedute.

La Fondazione AIRC conferma l’importanza di queste precauzioni, sottolineando che i raggi ultravioletti (UV) a cui ci esponiamo quando siamo all’aperto possono avere effetti nocivi non solo sulla pelle, ma anche su occhi e labbra. Nello specifico, è stato calcolato che la maggior parte dei casi di melanoma (dal 65% a oltre il 90%) è dovuta a una scorretta esposizione al sole.

Alcol (quasi) bandito

Tasto dolente per molti italiani, soprattutto per i più giovani. Infatti, come risulta dall’indagine nazionale sugli stili di vita degli adolescenti che vivono in Italia, edizione 2024, realizzata da Laboratorio adolescenza e Istituto di ricerca Iard, con il supporto operativo di Mediatyche Srl, oltre 7 ragazzi su 10 si sono ubriacati almeno una volta.

Non colpisce tanto la frequenza, quanto l’idea che gli effetti della sbronza finiscano nel giro di qualche ora, ignorando le conseguenze che l’assunzione di alcol ha sul corpo. Un’incoscienza che non va imputata ai giovani, ma alla cultura italiana che, anche per interessi economici, fa una netta separazione tra le droghe (ora anche la cannabis light) e l’alcol. Già la distinzione linguistica alcol-droghe la dice lunga su quanto, tutto sommato, l’alcol venga concepito come qualcosa di innocuo.

Il consumo di alcolici è il quarto fattore più importante per le nuove diagnosi di cancro negli uomini (circa il 5% dei casi) e il terzo nelle donne (circa il 6% dei casi). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, collegati all’assunzione di alcol non sono solo i tumori della cavità orale o dell’esofago: il maggior numero di diagnosi di tumore collegate al consumo eccessivo di alcolici riguarda il cancro al seno, con oltre 44 mila casi negli Stati Uniti nel 2019 (circa 6.000 in Italia).

Non si tratta di demonizzare l’alcol o il proverbiale “bicchiere di vino rosso a tavola”. Sekeres ammette di apprezzare una birra fresca mentre guarda il baseball in estate o il football in inverno, ma limita l’assunzione di alcolici a 1-2 drink a settimana.

Il rischio di cancro in relazione al consumo di alcol è, infatti, dose-dipendente: più si beve, più è alto il rischio di cancro. Anche coloro che bevono un drink al giorno hanno un maggior rischio di sviluppare alcuni tumori, seppur contenuto.

No al fumo, le sigarette sono “bastoncini per il cancro”

La terza abitudine cruciale seguita dall’oncologo per ridurre il rischio di cancro è l’astensione dal fumo. L’impegno di Sekeres contro il fumo iniziò quando aveva solo 10 anni. Tentò di modificare il rischio di cancro di sua madre cercando di convincerla a smettere di fumare: su incoraggiamento della sua insegnante di scienze di quinta elementare, sostituì le sigarette della madre con pezzi di carta arrotolati sui quali aveva scritto “bastoncini per il cancro”. Purtroppo, questo sforzo si rivelò vano di fronte alla dipendenza dalla nicotina della madre. L’intervento dell’insegnante ebbe però un impatto duraturo su Sekeres, che non ha mai iniziato a fumare.

Questa scelta si è rivelata cruciale, considerando che negli Stati Uniti il fumo di sigaretta è stato il fattore che ha contribuito più di tutti a nuove diagnosi di cancro negli adulti sopra i 30 anni. Al fumo è stato attribuito l’86% delle diagnosi di cancro ai polmoni, il 54% dei tumori all’esofago, e circa il 51% di tumori alla vescica, oltre a molti altri tipi di tumori.

C’è però una buona notizia: smettere di fumare riduce progressivamente il rischio di ammalarsi, fino a riportarlo ai livelli dei non fumatori. Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute, dopo 10 anni il rischio di tumore ai polmoni si dimezza e diminuisce anche il rischio di tumori alla bocca, alla gola, all’esofago, alla vescica, al collo dell’utero e al pancreas.

Mezz’ora di esercizio fisico al giorno

Tra le cinque abitudini dell’oncologo per ridurre il rischio di tumore c’è l’esercizio fisico quotidiano. Sekeres si impegna a fare esercizio fisico ogni giorno per 30 minuti. Riconoscendo la difficoltà di inserire l’attività fisica in una giornata impegnativa, ha adottato una strategia efficace: inizia la giornata con l’attività fisica, svegliandosi un po’ prima del solito. Utilizza una cyclette posizionata vicino alla sua camera da letto e, mentre pedala, approfitta per controllare notifiche e social. In questo modo, l’oncologo americano è sicuro che, indipendentemente da come si svilupperà il resto della giornata, avrà già fatto qualcosa di buono per la sua salute.

L’importanza di questa abitudine è supportata da uno studio recente condotto su oltre 60 mila adulti, che ha mostrato risultati significativi. Chi svolge esercizio fisico per due o più ore a settimana ha un rischio inferiore del 26% di sviluppare tumori alla testa e al collo, un rischio inferiore del 20% di sviluppare cancro ai polmoni, e un rischio inferiore dell’11% di sviluppare il tumore al seno. È interessante notare che lo studio ha anche rilevato tassi leggermente più elevati di melanoma e tumore alla prostata tra chi fa esercizio regolare, un dato che merita ulteriori approfondimenti.

L’American Cancer Society fornisce raccomandazioni specifiche per l’attività fisica settimanale al fine di ridurre il rischio di tumore al seno, colon, endometrio e altri. Suggerisce 150-300 minuti di esercizio di intensità moderata (come camminare a passo svelto o andare in bicicletta a meno di 16 chilometri all’ora), oppure 75-150 minuti di esercizio a intensità elevata (come correre o andare in bicicletta a una velocità superiore ai 16 chilometri orari).

Per questo, qualsiasi italiano deve sperare che la proposta di inserire l’attività fisica come spesa detraibile nella dichiarazione dei redditi diventi legge. Il fatto che il “ddl Sbrollini” sia stata approvata da tutti i partiti nella X Commissione fa ben sperare.

Mangiare bene (non è scontato)

L’ultima, ma non meno importante, abitudine seguita e promossa da Sekeres riguarda l’alimentazione. La ricerca ha scoperto un’associazione tra cancro al colon e retto con il consumo di carne rossa o lavorata e il basso consumo di fibre e calcio. Consumare poca frutta e verdura è, invece, associato a tumori della cavità orale.

L’oncologo evita diete restrittive o più porzioni di uno stesso tipo di alimento al giorno. Ha eliminato completamente le bevande zuccherate, mangia frutta o verdura a pranzo e a cena, e limita l’assunzione di carne rossa a una o due volte a settimana. Inoltre, mangia raramente al fast food ed evita le carni lavorate.

Sekeres sottolinea che i rischi legati a un’alimentazione scorretta non si limitano al cancro, ma riguardano anche molte altre malattie croniche, come quelle cardiovascolari e metaboliche. L’Oms ha inoltre stilato un decalogo su come e cosa mangiare in estate per ridurre il rischio di infezioni.

Una categoria di alimenti a cui prestare particolare attenzione sono i cibi ultraprocessati: oltre a essere nocivi a lungo termine per la salute, questi possono perfino creare dipendenza in chi li consuma.

Se siete arrivati fin qui, è perché volete avere un approccio proattivo che tuteli la vostra salute. Ora, non vi resta che seguire le cinque abitudini dell’oncologo americano per ridurre il rischio di cancro. E nel frattempo, perché no?, sperare che ci siano ulteriori progressi nella diagnosi del cancro con l’intelligenza artificiale.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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“Motivi comprensibili”, niente ergastolo per doppio...

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Un verdetto che lascia il paese intero attonito, una sentenza che sta scuotendo la coscienza collettiva: la Corte d’Assise di Modena ha condannato Salvatore Montefusco a 30 anni di reclusione, e non all’ergastolo come richiesto dalla Procura, per il duplice omicidio di Gabriela Trandafir e di sua figlia Renata, uccise a fucilate il 13 giugno 2022 a Castelfranco Emilia. La motivazione che ha scatenato il dibattito politico e sociale è quella della “comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il reato“, un concetto che ha suscitato indignazione tra le vittime e in ampi settori della politica.

Una sentenza che scuote

Il caso di Gabriela Trandafir e della figlia Renata ha sollevato un velo doloroso su una realtà che, purtroppo, continua a essere troppo spesso invisibile: la violenza di genere. La sentenza, emessa dalla Corte d’Assise di Modena, ha condannato Montefusco, un uomo di 70 anni, per aver ucciso la sua compagna e la figlia di lei. Sebbene l’imputato avesse collaborato con la giustizia, le attenuanti generiche, tra cui la confessione e l’atteggiamento collaborativo, sono state considerate in modo tale da ridurre la pena da quella che la Procura avrebbe voluto, ovvero l’ergastolo, a una condanna di 30 anni di carcere.

Barbara Iannuccelli, avvocata che assiste la famiglia delle vittime, ha definito la decisione “un messaggio grave”, affermando che tale sentenza rappresenta un segnale pericoloso nella lotta contro il femminicidio e la violenza di genere. Le sue parole, cariche di incredulità, riflettono la delusione per una decisione che considera in modo disgiunto le circostanze emotive dell’assassino rispetto alla brutalità del crimine stesso. “Questa sentenza ci riporta indietro nel tempo, quando omicidi di questo tipo venivano giustificati con la gelosia o le difficoltà familiari. Il messaggio che passa è grave: legittimiamo l’idea che in una situazione conflittuale, un uomo possa eliminare il problema a colpi di fucile”, ha dichiarato l’avvocato, che ha aggiunto come il testimone diretto, il figlio della vittima, avesse fornito una testimonianza cruciale nel processo.

Il caso ricorda la sentenza emessa nel 2016, che riguardava l’omicidio di Olga Matei, quando la corte d’appello aveva ridotto la pena per l’assassino, ritenuto in preda a una “tempesta emotiva” dovuta alla gelosia. Anche in quel caso, l’elemento umano, la comprensione dei motivi che avevano spinto l’autore al crimine, era stato preso in considerazione, creando un precedente che ha suscitato ampie polemiche.

Un messaggio che non può passare inosservato

L’incredulità di Iannuccelli è condivisa da numerosi esponenti politici, che non hanno mancato di esprimere il loro disappunto per la decisione dei giudici. Il ministro per gli affari regionali, Roberto Calderoli, ha commentato: “Non capisco come possano esserci motivi ‘umanamente comprensibili’ per uccidere a fucilate due donne. Come è possibile giustificare un atto così crudele? Non ho parole.” Calderoli ha aggiunto che, sebbene trent’anni o l’ergastolo possano apparire simili in pratica, è la motivazione dietro la pena a destare preoccupazione.

Anche il ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha espresso forti perplessità sulla sentenza. “Se ciò che emerge dagli stralci pubblicati fosse confermato, la decisione conterrebbe elementi discutibili e certamente preoccupanti che rischierebbero di produrre un arretramento nella lotta contro i femminicidi e la violenza maschile sulle donne”, ha dichiarato. Secondo Roccella, il problema non è la pena inflitta, ma il ragionamento alla base della decisione: “Colpisce il principio secondo cui ‘la situazione familiare’ avrebbe ‘indotto’ l’imputato a compiere il tragico gesto, rendendo ‘umanamente comprensibili’ i motivi del reato. È un nesso causale pericoloso che potrebbe minare lo sforzo di cambiamento culturale contro la violenza di genere”.

La deputata del PD, Ilenia Malavasi, ha definito la sentenza “un insulto alle donne” e ha accusato i giudici di aver dato troppa importanza alle attenuanti, minimizzando le circostanze aggravanti del crimine. “Questa è la risposta che la giustizia dà alla violenza di genere? Un giudizio che riduce un duplice femminicidio a una mera conflittualità familiare? Un messaggio che rischia di legittimare la violenza maschile contro le donne”, ha detto la Malavasi, criticando l’uso di espressioni che sembrano avallare la cultura patriarcale e la giustificazione di atti violenti.

Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, ha rincarato la dose, affermando che le motivazioni della sentenza rappresentano “un pericoloso precedente” nel contrasto alla violenza di genere. “C’è ancora molto lavoro da fare per abbattere la cultura patriarcale che emerge anche nei tribunali”, ha commentato, sottolineando come una tale giustificazione possa alimentare la percezione che gli uomini possano risolvere i conflitti con la violenza.

Le critiche politiche e le richieste di cambiamento

La politica, nel suo complesso, ha risposto a questa sentenza con un coro di proteste che non lascia spazio a interpretazioni. Il Movimento 5 Stelle, attraverso la deputata Stefania Ascari, ha espresso il suo profondo turbamento per le motivazioni adottate dalla Corte d’Assise di Modena. Secondo Ascari, la giustificazione di un omicidio sulla base di “forti conflitti familiari” e di una condizione psicologica di “profondo disagio” è una riduzione inaccettabile della violenza di genere. “Queste motivazioni evidenziano le criticità di un sistema giudiziario che tende a giustificare la violenza e che non riesce a comprendere la gravità del fenomeno”, ha detto Ascari, chiedendo un cambiamento radicale nella formazione dei magistrati, degli avvocati e di tutti gli operatori del sistema giudiziario.

In una nota congiunta, le parlamentari del Movimento 5 Stelle nella commissione bicamerale di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere hanno sottolineato come la decisione della Corte di Assise di Modena rappresenti “un passo indietro”, soprattutto alla luce dei progressi ottenuti con le battaglie delle donne. “Questa sentenza riduce l’assassinio di due donne a un conflitto familiare”, hanno commentato le parlamentari, sollecitando la necessità di un’educazione giuridica che affronti il problema della violenza maschile contro le donne.

Anche Ilenia Malavasi, deputata del PD, ha espresso forti preoccupazioni, denunciando come il linguaggio utilizzato nella sentenza possa portare alla riabilitazione del vecchio delitto d’onore sotto nuove vesti. “Se le motivazioni della Corte non vengono correttamente interpretate e messe in discussione, rischiamo di legittimare la violenza e di dare spazio a giustificazioni che non hanno fondamento”, ha dichiarato.

Un’analisi che va oltre la sentenza

La sentenza della Corte di Assise di Modena, purtroppo, non è un caso isolato. Negli ultimi anni, si sono susseguite decisioni che hanno sollevato interrogativi sulle reali intenzioni della giustizia nel contrastare il femminicidio e la violenza di genere. La tendenza a considerare le dinamiche familiari e i conflitti come attenuanti in omicidi di questo tipo è un tema che continua a riaffiorare nelle aule di tribunale, minando la percezione di equità e giustizia per le donne.

Le critiche al sistema giudiziario sono rivolte soprattutto alla sua incapacità di trattare la violenza di genere con la necessaria severità. Le legislazioni più recenti, che hanno cercato di rafforzare la protezione delle donne, sembrano spesso non essere supportate da un’efficace interpretazione giuridica. “Le parole giuste sono fondamentali per cambiare la cultura della violenza”, ha detto Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva, sottolineando come il linguaggio giuridico possa perpetuare pregiudizi che vanno a minare gli sforzi per superare la cultura patriarcale.

La decisione della Corte d’Assise di Modena non è solo una questione giuridica, ma anche un problema sociale. “Le motivazioni di questa sentenza rischiano di far riemergere il delitto d’onore sotto nuove vesti”, ha dichiarato Mara Carfagna, deputata di Noi Moderati. Secondo Carfagna, l’idea che ci possano essere motivi “comprensibili” per un femminicidio mina le fondamenta di una società che dovrebbe invece proteggere le vittime e condannare senza esitazioni i colpevoli.

Le parole della sorella di Gabriela Trandafir, “l’ergastolo è per noi”, riassumono il dolore e l’amarezza di chi resta. Per i familiari delle vittime, questa sentenza rappresenta una sconfitta, non solo personale ma collettiva. È il fallimento di un sistema che, invece di tutelare le donne, sembra giustificare chi le uccide.

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Bambino inquadrato allo stadio, la scuola gli annulla la...

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Bambino Inquadrato Stadio Assenza Scuola Social

Antonio Gramsci diceva che “Il calcio è il regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta”. Ecco, proprio l’area aperta, unita alle telecamere della televisione, ha incasinato Sammy, il giovanissimo tifoso del Newcastle che aveva saltato la scuola per andare a seguire in trasferta la propria squadra del cuore.

Non che lui se ne fosse fatto un problema, mentre celebrava a pugni chiusi e con un grande sorriso la vittoria dei Magpies a danno dell’Arsenal durante la semifinale di andata della Carabao Cup. La sua esultanza, però, è stata trasmessa in diretta televisiva e così la giustificazione apportata alla sua assenza non è stata ritenuta valida dalla scuola che ha scritto ai genitori del piccolo, presenti con lui allo stadio.

La lettera della scuola ai genitori

“Gentili genitori, vi informiamo che l’assenza di Sammy per martedì 7 gennaio 2025 sarà ora classificata come non autorizzata a causa della copertura mediatica che lo mostrava ad una partita di calcio a Londra. Non esitate a contattarci se desiderate discutere ulteriormente questo argomento”, ha scritto la scuola.

Dopo la partita, la pagina Facebook di Away Day Tours ha condiviso un’immagine di Sammy, colto in un momento di festa durante la trasmissione dal vivo, con la didascalia scherzosa che ha attirato l’attenzione di innumerevoli tifosi: “Questo giovane è stato colto a festeggiare la straordinaria vittoria del Newcastle sull’Arsenal. Ha saltato la scuola quel giorno, portando la sua famiglia a ricevere la seguente e-mail. Momenti come questi sono ciò che il calcio rappresenta. E diciamocelo, era un viaggio di geografia!”

Incluso nel post c’era lo screenshot di un’email inviata dalla scuola ai genitori di Sammy.

Le assenze in Inghilterra

Il riferimento “alla lezione di geografia” ha convinto i tifosi a schierarsi dalla parte del piccolo tifoso e della sua famiglia, ma perché l’assenza risulta ingiustificata anche se i genitori ne erano a conoscenza?

Alla base c’è una diversa disciplina della presenza scolastica. In Inghilterra, le assenze non giustificate da scuola possono comportare sanzioni pecuniarie per i genitori. Questo sistema di multe è stato implementato per incentivare la frequenza scolastica regolare e contrastare il fenomeno dell’abbandono o del disinteresse verso la scuola, aumentato considerevolmente dopo la pandemia.

Se un bambino salta la scuola senza l’autorizzazione del dirigente scolastico per almeno cinque giorni, i genitori possono ricevere una multa di £80. Se la multa non viene pagata entro 21 giorni, l’importo raddoppia a £160.

Se un genitore riceve una seconda multa per lo stesso bambino entro un periodo di tre anni, l’importo della multa sarà immediatamente di £160. Dopo la terza infrazione, le autorità possono considerare azioni legali alternative, che potrebbero includere procedimenti penali.

L’intento del governo è quello di promuovere una frequenza scolastica regolare e affrontare le disparità nelle politiche di sanzione tra diverse autorità locali. Nel 2022-2023, sono state emesse quasi 400.000 multe per assenze non autorizzate, con una prevalenza di casi legati a famiglie che prenotano vacanze durante il periodo scolastico.

Confronto con altri Paesi

In altri paesi europei, come la Francia e la Germania, esistono normative simili:

  • Francia: I genitori possono essere multati fino a €1.500 per aver portato i figli in vacanza durante il periodo scolastico senza autorizzazione del dirigente scolastico;
  • Germania: Le multe variano a seconda dello stato federale e possono arrivare fino a €1.000. Le autorità possono anche segnalare i genitori alla polizia per infrazioni ripetute.

Vista l’assenza di un solo giorno, comunque, nessuna conseguenza grave per Sammy. Anzi, un po’ di notorietà e il sorriso per la vittoria dei Magpies, che hanno battuto per 2-0 l’Arsenal e si preparano con più calma alla gara di ritorno del 5 febbraio al St. James’ Park.

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La ricchezza italiana? È over 60

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Anziano che butta banconote

In Italia, la distribuzione della ricchezza segue una linea di separazione netta tra le generazioni. L’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale dell’Italia evidenzia che la ricchezza pro-capite è in diminuzione, ma soprattutto che la maggior parte del patrimonio si concentra nelle mani della popolazione anziana. Dal 2003 al 2023, il reddito disponibile lordo pro-capite è calato del 7%, mentre la ricchezza netta pro-capite si è ridotta del 5,5%. A ciò si aggiunge il dato impressionante che l’85,5% degli italiani considera la mobilità sociale un obiettivo quasi irraggiungibile.

La ricchezza “anziana”

Secondo il Censis, il 58,3% della ricchezza netta italiana appartiene alle famiglie con un capofamiglia nato prima del 1980. Ma se ci addentriamo nei dettagli, il dato è ancora più sbilanciato. I baby boomer (nati tra il dopoguerra e i primi anni ’60) detengono il 43,3% del totale, con una ricchezza media di oltre 360.000 euro per famiglia. La generazione silenziosa, i nati prima della Seconda guerra mondiale, si difende con 280.000 euro in media.

E i giovani? Non pervenuti. Le famiglie capeggiate da millennial o membri della generazione Z arrancano, con una ricchezza media di circa 150.000 euro, meno della metà rispetto ai baby boomer. In altre parole, la disuguaglianza generazionale si fa ogni anno più evidente, mentre la mobilità sociale è un miraggio per l’85,5% degli italiani.

Ma c’è di più: questa ricchezza “anziana” è destinata a diventare ancora più concentrata. La denatalità ha ridotto il numero di potenziali eredi e, quindi, aumentato il valore medio delle future eredità. E qui si apre un altro scenario inquietante.

Un imbuto generazionale

Il fenomeno della denatalità – che ormai rappresenta uno dei mali endemici del nostro Paese – aggrava ulteriormente questa disparità. non solo riduce la popolazione giovane, ma rischia di creare una concentrazione di patrimoni senza precedenti. Dal 2008 al 2023, le nascite si sono ridotte del 34,1%, mentre le donne in età fertile sono diminuite di oltre 2 milioni. Un trend che, anche in caso di inversione miracolosa, non potrà essere recuperato.

Il risultato? Un passaggio intergenerazionale di ricchezza sempre più ristretto, con pochi eredi che erediteranno tanto. Ma questa attesa sta già avendo effetti deleteri. Il Censis parla di una ridotta propensione al rischio imprenditoriale: molti giovani crescono con l’idea di essere “destinatari di successione”, sviluppando una mentalità da rentier, poco incline all’intraprendenza. Un freno, questo, che l’Italia non può permettersi in un momento storico in cui avrebbe bisogno di idee fresche e spirito innovativo.

La crisi demografica e le sue implicazioni

L’analisi demografica del Censis è altrettanto preoccupante: tra il 1984 e il 2024, la popolazione di 20-29enni è diminuita del 17,5%, mentre quella di 30-39enni ha subito un crollo del 29,4%. Guardando al futuro, si prevede un ulteriore calo: entro il 2044, i giovani tra 20 e 29 anni diminuiranno di un altro 15,6%, rendendo sempre più difficile garantire un ricambio generazionale in qualsiasi ambito.

A fronte di una popolazione sempre più anziana, il rischio è quello di un Paese che si muove a rallentatore. Il patrimonio continuerà a rimanere nelle mani degli over 60, mentre i giovani, numericamente inferiori, saranno costretti a contendersi le briciole, senza avere le risorse per innovare, investire o semplicemente immaginare un futuro migliore.

Infinite forme di povertà

A tutto questo si aggiungono le nuove forme di povertà rilevate dal rapporto. L’Italia registra percentuali di rischio di povertà superiori alla media europea: il 27,2% degli italiani è a rischio prima dei trasferimenti sociali, e il 18,9% anche dopo di essi. Inoltre, il 9,8% delle famiglie non riesce a coprire le spese mensili, mentre l’8,4% vive in povertà alimentare e il 9,5% in povertà energetica. Il 36,9% degli italiani, invece, ha dovuto tagliare altre spese per far fronte ai costi sanitari, con punte del 50,4% tra le famiglie a basso reddito.

In questo contesto, la sanità rischia di diventare un privilegio per pochi. Ogni 100 tentativi di accedere al Servizio sanitario nazionale, 35 finiscono nel privato a pagamento. Non è un caso che l’84,2% degli italiani sia convinto che i ricchi possano curarsi meglio e prima degli altri.

Il boom dei miliardari e il rischio della “medietà”

A fronte di questi numeri impietosi, c’è un’altra faccia della medaglia che fa riflettere. Mentre il reddito pro-capite diminuiva del 7% e la ricchezza netta del 5,5% negli ultimi vent’anni, il numero di miliardari italiani è aumentato. Dal 2023 al 2024, sono 6 i nuovi miliardari registrati, per un totale di 62 super-ricchi con un patrimonio complessivo di 199,8 miliardi di dollari. Una crescita del 23,1%, che ci colloca ai vertici europei. Il paradosso è evidente: mentre una fetta sempre più grande della popolazione fatica ad arrivare a fine mese, una piccola élite continua ad arricchirsi, ampliando il divario sociale.

L’Italia si trova in una situazione di stallo, dove la “medietà” denunciata dal Censis non consente al Paese di avanzare né economicamente né socialmente. Da un lato, abbiamo raggiunto record positivi nell’occupazione e nel turismo. Dall’altro, la spinta verso un benessere diffuso si è fermata. La scelta di non osare, di accontentarsi, è il vero nemico del progresso, dice il rapporto.

La concentrazione della ricchezza nelle mani degli anziani e il declino demografico rappresentano due facce della stessa crisi strutturale, ma cosa fare per invertire la rotta? Le soluzioni non sono semplici e richiederebbe interventi immediati e coraggiosi che passano inevitabilmente per tre direttrici: incentivare la natalità, promuovere politiche di redistribuzione del reddito e investire in programmi per favorire la mobilità sociale. Tuttavia, senza un cambio di paradigma, il rischio è quello di rimanere intrappolati in un circolo vizioso di disuguaglianze crescenti e opportunità sempre più limitate.

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Rubrica delle buone notizie del 14 gennaio