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Guerra nucleare in Europa? Ecco cosa succederà con i missili ucraini

Alessando Politi, direttore della Nato Defense College Foundation: "Putin è pronto a trattare, ma Europa a rischio. Le sanzioni vanno riviste. Il commissario europeo alla Difesa guardi a Eurofighter e Tornado"

Soldati ucraini - (Fotogramma/Ipa)

I missili lanciati oltre il confine russo sono davvero la linea rossa che scatenerà la reazione del Cremlino, magari con armi nucleari tattiche, o finirà come con i carri armati, gli Atacms, gli F-16, cioè con un bluff putiniano? L’Adnkronos lo ha chiesto ad Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation.

“Le linee rosse sono a uso e consumo dei media. L’arma nucleare è un’arma seria che ha coperto con la sua ombra tutto l’emisfero Nord durante la guerra fredda, che è stata fredda per gli europei ma molto calda al di fuori: mentre qui tacevano i cannoni, lo stesso non accadeva in Corea, tra arabi e israeliani, in Vietnam, in Africa, durante i colpi di Stato in America Latina. Abbiamo esternalizzato la guerra europea, come abbiamo fatto con i rifiuti tossici. L’atomica viene minacciata da figure ‘satelliti’ di Putin, non da lui, in un gioco delle parti”. E quando Putin parla di “missili Nato in suolo russo”? “Dice qualcosa che non è sul tavolo: la Nato all’Ucraina fornisce solo equipaggiamenti non letali, e addestramento che non avviene sul suolo ucraino. All’interno dell’Alleanza non c’è consenso sulla fornitura delle armi, dunque i Paesi che sostengono l’Ucraina si sono organizzati nel gruppo di Ramstein in un sistema multi-bilaterale con gli USA”, spiega Politi.

Il Parlamento europeo ha approvato una mozione che invita gli Stati membri a revocare le restrizioni sull’uso delle armi occidentali contro obiettivi militari in territorio russo, con i membri italiani che hanno votato in maggioranza contro. “Il Parlamento legittimamente esprime le proprie posizioni, ma su questi temi sono i governi a decidere. E gli americani, su tutti, sono stati sempre molto cauti su quali tipi di armi fornire, a partire dai carri armati Abrams. Che hanno concesso solo per sbloccare la riluttanza dei tedeschi sui Leopard. Sui missili è lo stesso. A maggio, dopo il voto al Congresso sugli aiuti, la situazione sembrava essere cambiata, in realtà continuano a dire che i loro missili non saranno usati sul suolo russo. L’ultima evoluzione di questa saga è l’ok ai missili inglesi, gli Storm Shadow, che avendo componenti americani devono comunque ricevere il via libera da Washington. Per il resto, francesi, italiani e tedeschi hanno ben pochi missili da consegnare agli ucraini. Se l’Europa vuole davvero ricostituire una deterrenza convenzionale – visto che quella nucleare è garantita soprattutto dagli Stati Uniti – deve prepararsi a investire molte più risorse in questo campo. Ci vorranno molti anni. Nel frattempo non esiste un’arma magica che possa risolvere il conflitto. I tedeschi parlavano di Wunderwaffen, ordigni miracolosi che avrebbero deciso le sorti della guerra. Invece le guerre non si vincono se non con un insieme di armi e fattori. I missili a Kyiv arriveranno, e potranno essere usati per colpire obiettivi strategici. Ma saranno pochi, maledetti e non subito”.

Nei giorni scorsi c’è stato l’attacco al deposito di munizioni russo, un gran colpo dell’Ucraina. “Ed è stato fatto con droni probabilmente prodotti in Ucraina e con pochi soldi. Sin dall’inizio della guerra a Kyiv hanno capito che dovevano iniziare a farsi un arsenale proprio, ma nel caso dei missili a lungo raggio è un processo lungo, è una tecnologia che va sviluppata, testata e poi dispiegata correttamente”. L’attacco al deposito di munizioni è un tassello importante secondo Politi, mentre non va ingigantito lo ‘sfondamento’ nel governatorato di Kursk. “Il generale Zaluzhny, ex capo delle forze armate ‘congedato’ e mandato a fare l’ambasciatore a Londra, era contrario a questa puntata offensiva, che in questo momento è sostanzialmente ferma. Ovviamente non è una questione territoriale, Zelensky vuole una trattativa con i russi prima delle elezioni americane di novembre e cercava un gettone simbolico di scambio. Lavrov ha negato ogni contatto finché gli ucraini saranno in territorio russo. Questi attacchi in profondità non servono sul piano politico, ma su quello del morale, sia nella popolazione che tra le truppe, e per l’immagine internazionale di un Paese che si dimostra in grado di contrattaccare”, continua l’esperto.

Le due parti sono davvero disposte a sedersi a un tavolo? Secondo Politi, “entrambi i contendenti hanno subito perdite non sostenibili. Putin è pronto a trattare, ma dobbiamo sapere che una parte delle sue richieste saranno inaccettabili, non solo per gli ucraini, ma per tutti gli europei. Se passa il principio che i confini si cambiano a colpi di cannone, l’Europa diventa un posto molto pericoloso. Anche per i russi: per esempio, Kaliningrad potrebbe allora tornare ad avere un nome tedesco o polacco? Per questo gli Stati Uniti si muovono in modo cauto. Biden è accusato di essere vecchio ed esitante? Ma è uno che la grammatica della guerra fredda la conosce a menadito e non vuole rischiare l’escalation nucleare, non è nell’interesse degli americani. Né dei russi: durante la crisi dei missili a Cuba, Mosca trattò per fermare l’escalation. Riassumendo una serie di conversazioni e scritti del 1962, Fidel Castro disse a Krusciov: ‘siamo pronti a morire per la rivoluzione. Patria o morte’. E Nikita rispose: ‘Non basta per fermare gli yankee. Noi no’. Persino Macron che aveva giocato con la presenza di truppe francesi in suolo ucraino, poi con l’uso di missili francesi. Finora l’unica notizia ucraina è un attacco con SCALP francesi contro la flotta russa in Crimea, non in Russia. Più che un’ambiguità strategica, come l’ha chiamata lui, è una gesticolazione strategica, ritenuta pericolosa dai suoi consiglieri, che gli hanno consigliato prudenza”.

Non possono essere le sanzioni un modo per costringere Putin a trattare partendo da posizioni non irrealistiche? “Siamo arrivati a 14 pacchetti, ma penso sia il momento di rivederle: alcune vanno mantenute, altre sono autolesionistiche. Danneggiano gli interessi generali europei senza ottenere nulla nei confronti del governo russo. Hanno un senso se prima o poi hanno un effetto. Per esperienza storica sappiamo che non necessariamente aiutano a cambiare regimi. Non sono bastate da decenni con Cuba, Iran, Birmania, Corea del Nord, non credo che la Russia sia tanto differente”.

Cosa pensa del nuovo Commissario alla Difesa e allo Spazio? “Vedo una commissione strutturata a matrice con molte intersezioni. O ci sarà grande concordia nel collegio o rischiamo lotte intestine paralizzanti in cui probabilmente von der Leyen penserà di essere l’unica in grado di arbitrare. E poi va ricordato che sarà un commissario all’industria della Difesa, e di industrie non ce ne sono molto in Europa. Se vogliamo farla decollare, bisogna guardare ai paesi che hanno già un peso. Siamo in una fase molto particolare della costruzione europea, fragile anche perché i governi più importanti sono fragili. Spero vivamente che qualsiasi grande programma europeo usi la Nato come incubatore, perché non si improvvisa la gestione di programmi complessi d’armamento. Ci sono degli esempi positivi: aerei di grande importanza per l’Europa come il Tornado e l’Eurofighter sono stati realizzati grazie a un’agenzia nel sistema Nato. La Commissione acquisirà la sua importanza in questo campo ma non è una cosa che si fa in cinque anni, altrimenti si scambiano i sogni con la realtà. Rafforzare il pilastro europeo della Nato non può che essere positivo. Se riusciamo a essere più coerenti, organizzati e standardizzati sarà già un grande traguardo. Poi si potrà parlare di difesa comune europea”. (di Giorgio Rutelli)

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Esteri

Eccezionale nevicata in Sudafrica, persone bloccate in auto...

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Molti disagi nel Paese per l'evento quasi senza precedenti

La nevicata a Harrismith, Sudafrica - Afp

Un'inaspettata nevicata in Sudafrica ha causato gravi disagi sulle strade del Paese. Come riporta Afp diverse persone sono rimaste bloccate in auto a causa della neve molto abbondante e sono stati costretti a trascorrere la notte bloccati nei loro veicoli.

L’autostrada N3 che collega Johannesburg e la città di Durban sulla costa orientale è stata una delle più colpite e diversi tratti sono stati chiusi, rendendo impraticabili anche le deviazioni. Le zone più colpite sono state, secondo i media locali, quelle di Eastern Cape, KwaZulu Natal, Free State e Gauteng.

In alcune zone del Sudafrica la neve è rarissima. Glen Garriff Conservation, che si occupa della tutela dei leoni, dichiara che nella zona di Harrismith, dove si trovano, non è stata registrata un'abbondante nevicata dal 1996. In generale poi la neve in questo periodo è un evento eccezionale perché in Sudafrica l'inverno è finito e il Paese vive la primavera: il clima normalmente a fine settembre è mite e soleggiato.

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Esteri

Italia primo partner europeo del Bahrein....

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Ausama Alabsi ha spiegato gli elementi politici, economici e culturali che uniscono i due paesi. E una ricetta innovativa per gestire i fenomeni migratori

Italia primo partner europeo del Bahrein. L'ambasciatore in visita all'Adnkronos

Il Regno del Bahrein è una delle realtà più antiche del Golfo Persico, un arcipelago di isole tra Arabia Saudita e Qatar che in questi anni ha acquisito sempre più rilevanza a livello geopolitico. Ospita la Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti, una base navale britannica ed è uno degli alleati principali della Nato. L’Italia è il primo partner commerciale del Bahrein tra gli stati dell’Unione europea, una relazione che ha visto una svolta nel febbraio 2020, con il viaggio del principe ereditario e primo ministro, Salman bin Hamad Al Khalifa, che ha incontrato il Papa, il mondo produttivo e le istituzioni. Da quel momento è iniziato un nuovo capitolo nelle relazioni bilaterali tra i due paesi, culminato con la visita del re Hamad Bin Isa Al-Khalifa nell’ottobre 2023, durante la quale è stato ricevuto da Sergio Mattarella e Giorgia Meloni.

Il nuovo ambasciatore, Ausama Alabsi, è stato al Palazzo dell’Informazione, sede dell’Andkronos, dove ha parlato degli elementi chiave che uniscono i due Paesi. “Il mio lavoro, devo ammettere, è reso più facile dal rapporto tra i leader politici, che è meraviglioso. E anche a livello economico, l’interscambio cresce continuamente. Non solo nei settori ‘classici’ del Made in Italy, ma nell’ingegneria avanzata: ci sono diverse imprese italiane che stanno aiutando il Bahrein a modernizzare il proprio settore petrolifero. E poi c’è Leonardo, che ha scelto di stabilire il proprio ufficio regionale a Manama, la nostra capitale. Siamo un Paese piccolo, ma abbiamo dedicato grande attenzione alla nostra presenza in Italia, arricchita da un ufficio economico a Milano e da un console onorario a Firenze, molto attivo”.

Tra le cose che non ti aspetti c’è la più grande cattedrale cattolica del Golfo, Nostra Signora d'Arabia, finanziata interamente dal re. La prima pietra viene da San Pietro, donata da papa Francesco, che è stato in visita a novembre 2021, poco prima della sua consacrazione. E poi c’è l’impegno culturale e accademico, con la cattedra King Hamad for Inter-faith Dialogue and Peaceful Co-existence all’Università Sapienza. “Il mio obiettivo è di rafforzare ancora di più la cooperazione”, continua l’ambasciatore Alabsi, “sui temi ambientali, dal mare alle energie alternative, sulla ricerca, la medicina. Abbiamo una solida base commerciale, ora è il momento di andare più a fondo nei settori tecnici”.

Un’altra questione sulla quale il Bahrein può rappresentare una best practice è l’immigrazione. L’ambasciatore Alabsi nella sua vita precedente, ovvero negli ultimi 20 anni, è stato in prima linea nella definizione e nell’attuazione delle politiche migratorie del suo Paese, “dove il 53% della popolazione è straniero”.

Dopo una fase di ascolto e consultazioni durata quasi due anni tra il 2004 e il 2006, Alabsi è riuscito a far nascere la Labour Market Regulatory Authority (Lmra), una realtà pionieristica: pur essendo un ente pubblico, è strutturato in maniera inclusiva, con un consiglio di amministrazione composto da economisti, rappresentanti delle camere di commercio, dei sindacati, del governo. “In questo modo creiamo un dialogo costante tra tutti gli stakeholder che hanno interesse a un processo migratorio ordinato, sereno ed efficiente. La migrazione viene usata come strumento politico, ma è in realtà un fatto sociale ed economico, e va affrontata come tale. Le aziende chiedono migranti, ma i cittadini temono di perdere posti di lavoro e di vedere la cultura locale minacciata. L’obiettivo è raggiungere un equilibrio che possa soddisfare tutti senza penalizzare nessuno”.

Un elemento di unicità della Lmra è che non solo stabilisce le policy, ma le applica. Gestisce i permessi, le procedure alla frontiera e le ispezioni sui luoghi di lavoro. Stabilisce quanti migranti possono entrare e con quali caratteristiche lavorative. “In questo modo abbiamo creato un sistema integrato ed efficiente, capace di adattarsi a un contesto che cambia ogni anno, e che corre molto più veloce dei processi burocratici. Le leggi sulle migrazioni spesso impiegano anni a essere approvate, e magari a quel punto non rispecchiano più la realtà e le esigenze del sistema socio-economico”.

Alabsi è stato amministratore delegato della Lmra per circa 10 anni, nei quali il modello è stato copiato da vari altri Paesi della regione. “Quando siamo partiti, la disoccupazione in Bahrein era al 17,5%. Dopo tre anni è scesa al 4%. Sono questi numeri ad averci convinto di essere sulla buona strada”. (di Giorgio Rutelli)

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Esteri

Escalation Hezbollah-Israele infiamma il Medio Oriente: è...

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Prima le esplosioni dei cercapersone, poi i walkie-talkie e poi la pioggia di missili nel Sud: il Paese dei Cedri ripiomba nella paura

Attacchi in Libano - (Afp)

La "nuova fase della guerra". Così la chiamano. Per Israele è il conflitto al Nord. Il Libano ripiomba nella paura. L'escalation Hezbollah-Israele è forse iniziata martedì scorso. Prima sono esplosi i cercapersone, poi, mercoledì, i walkie-talkie. E anche i pannelli solari. 'Paralizzato' il sistema di comunicazioni del Partito di Dio di Hasan Nasrallah, storicamente sostenuto dall'Iran. Decine di morti, centinaia di feriti in Libano. Da qui Hezbollah ha lanciato nuove accuse a Israele.

"Ci sono molti nemici di Hezbollah in giro, parecchi in questo momento", ha detto ieri in un'intervista a Sky News il presidente israeliano Isaac Herzog, che è così sembrato negare il coinvolgimento di Israele nell'esplosione di migliaia di cercapersone e altri dispositivi di comunicazione che nei giorni scorsi hanno fatto strage in Libano, ma anche nella vicina Siria.

Stamani Herzog è intervenuto ancora, via X, per "ripetere e ribadire: Israele non cerca la guerra, ma abbiamo il diritto e il dovere di difendere la nostra popolazione". E le forze israeliane (Idf) hanno confermato di aver già colpito, dalle prime ore di oggi, "più di 300 obiettivi di Hezbollah in Libano". Una fonte della sicurezza citata dal sito israeliano Ynet ha anticipato che nelle prossime ore le Idf faranno scattare un attacco "su vasta scala" in terra libanese. "Alle prime ore del pomeriggio, l'Aeronautica lancerà attacchi massicci su vasta scala in tutto il Libano", ha sostenuto. E "Hezbollah risponderà sicuramente". Nel mirino, secondo la fonte, "il nord di Israele" e "forse obiettivi selezionati a Tel Aviv".

Operazioni scattate dopo quella di venerdì quando un raid aereo di Israele ha preso di mira Dahiyeh, roccaforte di Hezbollah nella periferia sud di Beirut. E' stato ucciso un comandante militare di Hezbollah. E con lui sono morti altri esponenti del Partito di Dio. L'ultimo bilancio ufficiale, diffuso oggi, parla di 54 morti, nell'operazione che ha portato all'uccisione di Ibrahim Aqil, noto anche come Tahsin, fino a venerdì scorso a capo dell'unità delle forze speciali Radwan.

Nelle ultime ore l'escalation nelle ostilità tra Israele e Hezbollah si è solo intensificata. Stamani, dopo aver sentito ieri il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin, il ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant, ha parlato di "questa nuova fase in cui siamo entrati nella guerra".

In Libano, secondo i media del Paese dei Cedri e anche stando alla Bbc, sono stati recapitati messaggi di testo e vocali a persone che si trovano nel sud con l'avvertimento a stare lontane da "edifici residenziali usati da Hezbollah per nascondere armi". E l'emittente britannica ha rilanciato un video che circola sui social media e che mostra una persona che ha ricevuto un messaggio vocale in cui si afferma che le operazioni israeliane continuano e sono entrate in una "nuova fase". Per il numero due di Hezbollah, Naim Qassem, è un "nuovo capitolo" nelle ostilità che ha definito una "battaglia senza limiti".

Alla pioggia di fuoco contro Hezbollah in Libano corrisponde una pioggia di missili lanciati contro Israele. Le operazioni odierne contro il Partito di Dio in Libano, evidenzia la Cnn, sembrano essere le più importanti dal punto di vista dell'estensione geografica dal 7 ottobre dello scorso anno, quando Israele ha iniziato a martellare obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza in risposta all'attacco di quel giorno in Israele. Dall'8 ottobre sono iniziati gli attacchi al confine tra Israele e Libano. Ieri i miliziani libanesi hanno per la prima volta preso di mira dall'inizio della guerra la base Ramat David, vicino a Haifa.

E' passato quasi un anno, nell'enclave palestinese finita nel 2007 in mano a Hamas si conterebbero più di 41.000 morti, e crescono i timori di un conflitto regionale sempre più ampio. Il ministero della Sanità di Beirut ha ordinato agli ospedali del sud e dell'est del Paese dei Cedri di sospendere tutti gli interventi chirurgici non urgenti. Il ministro dell'Istruzione ha disposto la chiusura per due giorni delle scuole nel sud e nell'est del Libano, così come nei sobborghi meridionali della capitale. Secondo un ultimo bilancio, ma non ancora definitivo, i raid odierni di Israele sul Paese dei Cedri hanno fatto almeno 100 morti e oltre 400 feriti.

"Non penso sia prematuro - ha detto la fonte di Ynet - parlare di 'Terza guerra del Libano'". Il Libano e Israele sono da sempre, formalmente, in stato di guerra. Nell'estate del 2006 le ostilità tra Hezbollah e Israele andarono avanti per 34 giorni. Era la "Seconda guerra del Libano". Erano passati solo sei anni da quando, dopo 22 anni, nel maggio del 2000 Israele lasciava il sud del Paese dei Cedri.

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