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Scuole sempre più vuote, Italia sempre meno competitiva: i dati del Miur

Un tempo si faceva a gara per vedere quale scuola aveva più studenti. “Da me si arriva alla sezione ‘E’”, “da me arriviamo alla ‘F’” e via così rincorrendo un finto successo, scandito dalle lettere e sancito dai numeri. Gli stessi numeri dimostrano come la crisi demografica sta svuotando le scuole italiane dagli studenti, sottraendo competenze e produttività alla nostra economia.

I dati Miur sulla scuola

I dati del Miur (Ministero dell’Istruzione e del Merito) sono allarmanti: nel nuovo anno scolastico appena iniziato, il 2024-2025, le scuole italiane avranno 110.000 studenti in meno, portando il totale a poco più di sette milioni. Chi conosce la crisi demografica non è sorpreso dal trend, ma dalla sua accelerazione: in dieci anni, dal 2013 al 2023, le scuole italiane hanno perso quasi 700.000 alunni, con una riduzione del 1,52% solo nell’ultimo anno.

Se il calo della popolazione adulta e anziana desta preoccupazione, la diminuzione degli studenti rivela un problema ancora più profondo: l’impoverimento del capitale umano, cioè di coloro che saranno in grado di sostenere la crescita economica e sociale del Paese. Se a questo si somma la crisi di competenze endemica del nostro sistema, il quadro è completo.

La desertificazione delle classi e l’asimmetria geografica

Fino a qualche anno fa c’era il problema del sovraffollamento. Ecco, ora c’è il problema opposto, ovvero lo svuotamento delle classi: le sezioni attive sono diminuite meno degli studenti (-0,75%), il che significa che le classi sono mediamente meno affollate. I dati del Ministero, però, certificano che situazione cambia molto lungo la penisola.

Come il calo demografico, anche il calo degli alunni è stato particolarmente drastico nel Mezzogiorno, soprattutto in alcune regioni. Il Molise ha registrato un calo degli studenti del 30,1%, la Basilicata del 17,81% e la Puglia del 16,38%.

Al contrario, in alcune regioni del Centro-Nord, come Emilia Romagna, Lombardia e Toscana, il calo è stato meno marcato e in alcuni casi si è persino registrato un aumento degli studenti. Ad esempio, in Emilia Romagna il numero di alunni è cresciuto dello 0,38% tra il 2013 e il 2023.

L’aumento degli studenti disabili e le nuove sfide

Un elemento che emerge dai dati del Ministero dell’Istruzione è l’aumento del numero di studenti disabili, che è cresciuto di oltre il 50% negli ultimi dieci anni, superando i 300.000. Questo dato è positivo in quanto riflette una maggiore consapevolezza e supporto per studenti con bisogni educativi speciali, ma rappresenta anche una sfida per il sistema scolastico, soprattutto nelle regioni dove il calo degli studenti è più marcato.

In alcune aree del Sud, come la Calabria e la Sardegna, dove la desertificazione scolastica è particolarmente grave, l’aumento degli studenti disabili crea una situazione difficile da gestire. Questi studenti necessitano di risorse e assistenza specifiche, ma in un contesto in cui le classi si svuotano e i fondi sono limitati, il sistema scolastico rischia di non essere all’altezza delle esigenze.

La crisi nelle scuole dell’infanzia e l’impatto sulle superiori

La ‘demografia della scuola’ risponde molto chiaramente a una domanda: quando vedremo gli effetti peggiori della denatalità italiana?

Infatti, le classi si stanno svuotando soprattutto nei cicli scolastici più bassi, con una riduzione del 21,4% nelle scuole dell’infanzia e del 14,55% alle elementari. Numeri impietosi, di cui vedremo gli effetti tra qualche anno, quando le classi vuote si tradurranno in una profonda carenza di capitale umano.

Alle scuole medie la diminuzione è stata meno drastica (-8,25%), mentre le scuole superiori hanno registrato un leggero aumento del 2,01% negli ultimi dieci anni.

Questo incremento, però, è dovuto principalmente all’aumento degli studenti stranieri, che rappresentano una fetta sempre più ampia del corpo studentesco. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono cresciuti del 18%, da 132.000 studenti in più rispetto al 2013. Se da un lato gli alunni stranieri hanno contribuito a rallentare l’emorragia di iscritti, dall’altro emerge una forte disparità geografica. Regioni come la Lombardia hanno visto un incremento di 41.000 alunni stranieri, che rappresentano il 31% del totale, ma ciò non è sufficiente a compensare il calo complessivo della popolazione scolastica. Che è poi quello che succede sul fronte natalità.
Inoltre, gli studenti di nazionalità non italiana aumentano nelle regioni dove già sono più presenti, così come la migrazione interna va sempre nella stessa direzione: dal Sud e dalle periferie al Nord e alle grandi città, finendo per acuire le differenze territoriali del Paese.

La relazione tra scuole vuote e carenza di lavoratori

Il crollo della popolazione scolastica non riguarda solo la quantità, ma anche la qualità della formazione. Le scuole professionali, che dovrebbero preparare i giovani al mercato del lavoro, hanno subito un calo drammatico: negli ultimi dieci anni gli iscritti sono diminuiti del 18,43%, e il primo anno delle scuole professionali ha visto un crollo del 37,37%. Questo dato è particolarmente preoccupante in un momento in cui il mercato del lavoro italiano ha una forte domanda di professionalità specialistiche.

Secondo un rapporto di Area Studi Legacoop e Prometeia, il sistema produttivo italiano perde circa 150.000 lavoratori all’anno, e li perderà almeno fino al 2030.

In alcuni settori la crisi demografica è accentuata dal mismatch tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dai giovani. La carenza di figure professionali in ambiti strategici, come ingegneria e scienze, si scontra con un eccesso di laureati in discipline per le quali il mercato offre poche opportunità. La mancanza di ingegneri e tecnici specializzati è particolarmente acuta nel settore dell’IT e delle energie rinnovabili, dove la domanda cresce rapidamente ma l’offerta non riesce a tenere il passo.

In parallelo, dalle università italiane escono molti giovani talenti laureati in aree con alta offerta e bassa domanda. Ad esempio, in scienze politiche e sociali, le università formano annualmente il doppio dei laureati rispetto alle posizioni disponibili nel settore pubblico e privato. Allo stesso modo, i laureati in lingue straniere e psicologia spesso trovano difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro, dove la domanda di tali competenze è insufficiente rispetto all’offerta.

Il problema non si limita alle professioni altamente qualificate. Anche le aziende che cercano personale meno qualificato, come operai e lavoratori manuali, segnalano gravi difficoltà.

Un rapporto dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Imprenditori evidenzia che il 50% delle imprese lamenta difficoltà nel trovare manodopera poco qualificata, soprattutto in settori come l’agricoltura e il turismo, dove le condizioni di lavoro e i salari non sempre attraggono i lavoratori locali.

Possibili soluzioni

Anche l’immigrazione è una cartina di tornasole della relazione tra formazione e lavoro: nel 2023, le richieste di lavoro per i lavoratori non comunitari hanno superato di circa il 30% i limiti annuali previsti dal governo, mettendo in evidenza l’urgenza di politiche migratorie più flessibili e di misure per integrare meglio i lavoratori già presenti nel mercato. In pratica, gli immigrati hanno prima tenuto in piedi (seppur barcollante) la demografia italiana, ora devono generare ricchezza lavorando laddove gli italiani non vogliono più farlo. Questo quadro è particolarmente accentuato in Italia, ma non riguarda soltanto il Belpaese, tanto che l’Unione europea ha stilato un piano per attrarre i talenti extra comunitari.

La sfida non è solo quella di aumentare il numero di studenti, ma di garantire che i pochi che rimangono siano adeguatamente formati per affrontare il mondo del lavoro. Se la prima dipende dalla demografia (e dalla immigrazione), la seconda richiede degli sforzi congiunti per aumentare la qualità della formazione. Un’altra via per tamponare l’emergenza scolastica è ridurre l’abbandono scolastico che, sebbene in calo, rimane un problema: nel 2023, il 10,5% degli studenti ha lasciato la scuola senza diploma, un miglioramento rispetto al 16,8% di dieci anni fa, ma ancora lontano dall’obiettivo di zero dispersione scolastica.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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L’allattamento riduce l’asma, ecco perché

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Allattare potrebbe ridurre l’asma nel neonato. Un nuovo studio ha rilevato che l’allattamento al seno per il primo anno di vita può ridurre il rischio nei bambini, favorendo una colonizzazione sana di microbi nel loro organismo.

Secondo i ricercatori, il latte materno gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo del microbioma intestinale dei neonati, influenzando positivamente il sistema immunitario e la salute respiratoria.
I risultati, pubblicati sulla rivista Cell, mostrano che l’allattamento al seno per più di tre mesi supporta la maturazione graduale del microbioma intestinale dei bambini. D’altra parte, interrompere l’allattamento prima dei tre mesi potrebbe compromettere questo processo e aumentare il rischio di asma in età prescolare.

Il latte materno e la sua azione sui microbi

Il latte materno è ricco di zuccheri complessi e altri nutrienti che favoriscono la crescita di microbi benefici nell’intestino del neonato. Questo insieme di batteri “sani” svolge un ruolo cruciale nello sviluppo del sistema immunitario del bambino.

Il latte artificiale promuove la crescita di una diversa comunità di microbi, che, sebbene presenti in tutti i bambini, emerge in modo precoce nei neonati nutriti in questo modo. Questa anticipazione nello sviluppo microbico è stata associata a un rischio maggiore di asma, secondo quanto riportano i ricercatori.

La regolazione del microbioma

“Proprio come un pacemaker regola il ritmo del cuore, l’allattamento al seno e il latte umano regolano il ritmo e la sequenza della colonizzazione microbica nell’intestino e nella cavità nasale del bambino, garantendo che questo processo avvenga in modo ordinato e tempestivo”, ha affermato Liat Shenhav, biologa computazionale e assistente presso la NYU Grossman School of Medicine di New York.

Shenhav ha sottolineato che non è solo importante avere i microbi giusti, ma anche che essi si sviluppino nel giusto ordine e al momento corretto. Questo processo, infatti, influisce direttamente sulla salute immunitaria del bambino e sulla riduzione del rischio di malattie come l’asma.

La metodologia dello studio

Per comprendere meglio l’interazione tra allattamento e microbioma, i ricercatori hanno monitorato lo sviluppo dei microbi intestinali e nasali di neonati durante il loro primo anno di vita. Lo studio si basa su un ampio progetto di ricerca sanitaria a lungo termine che ha coinvolto 3.500 bambini canadesi. In particolare, gli scienziati hanno osservato la presenza e l’evoluzione di specifiche specie batteriche legate alla durata dell’allattamento.

Una delle scoperte più significative riguarda il batterio Ruminococcus gnavus, che appare molto prima nell’intestino dei bambini svezzati precocemente. Questo batterio è noto per essere coinvolto nella formazione e nella degradazione del triptofano, un amminoacido legato a problemi del sistema immunitario come l’asma.

L’importanza della durata dell’allattamento

Anche dopo aver considerato altri fattori come l’esposizione al fumo o l’uso di antibiotici, la durata dell’allattamento al seno ha dimostrato di avere un’influenza potente sul microbioma del bambino. In particolare, i risultati suggeriscono che l’allattamento per almeno tre mesi è essenziale per la corretta maturazione microbica e per ridurre il rischio di asma.

A partire dai loro risultati, i ricercatori hanno sviluppato un modello computazionale che ha dimostrato come il modo principale in cui l’allattamento riduce il rischio di asma sia attraverso la modulazione del microbioma.

Implicazioni future e nuove strategie di prevenzione

“Questa ricerca mette in evidenza l’impatto profondo dell’allattamento al seno sul microbioma infantile e il ruolo essenziale che questo gioca nel supportare la salute respiratoria“, ha spiegato Shenhav. “Svelando i meccanismi dietro gli effetti protettivi del latte materno, speriamo di contribuire alla definizione di linee guida nazionali sull’allattamento e lo svezzamento basate su dati concreti”.

Shenhav ha concluso che ulteriori ricerche potrebbero portare allo sviluppo di strategie per prevenire l’asma anche nei bambini che non possono essere allattati per almeno tre mesi. Questo studio offre una nuova prospettiva sulla connessione tra alimentazione infantile, microbioma e malattie respiratorie, aprendo la strada a interventi mirati per migliorare la salute dei bambini.

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“Benvenuto neonato”, così il sindaco regala mille euro a...

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A Giffoni Sei Casali, in provincia di Salerno, un neonato frutta mille euro alla famiglia. La misura, approvata con la delibera di Consiglio comunale numero 48 del 19 dicembre 2023, prevede l’erogazione di un contributo economico una tantum per ogni bambino nato o minore adottato tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2023. Il bonus per ciascun nuovo nato deriva da un totale di 25.000 euro stanziati dall’amministrazione locale e sarà valido anche per il 2024.

L’obiettivo principale di questa iniziativa, fortemente sostenuta dal sindaco Francesco Munno, è incentivare la natalità nel territorio e sostenere le famiglie nelle prime spese legate all’arrivo di un figlio. “Si tratta di un gesto simbolico ma significativo – ha dichiarato il primo cittadino – un modo per dare il benvenuto ai nuovi nati e per mostrare la vicinanza del Comune alle famiglie in un momento così importante della loro vita”.

Incentivi alla natalità

Il tema della natalità è da tempo al centro del dibattito pubblico, con diversi enti locali che stanno cercando soluzioni per arginare il calo delle nascite. L’assessora alle Politiche Sociali di Giffoni Sei Casali, Angelina Di Muro, ha sottolineato: “È fondamentale che ogni amministrazione faccia la sua parte per favorire una nuova primavera demografica. Certo, non possiamo risolvere il problema con un bonus una tantum, ma l’iniziativa è un segnale importante di sostegno alle famiglie e alla genitorialità, anche adottiva.”

La questione delle nascite in Italia, e in particolare nel Sud, è infatti un tema sempre più urgente.

Il calo demografico

Secondo i dati Istat più recenti, la provincia di Salerno, di cui fa parte Giffoni Sei Casali, sta registrando un calo demografico preoccupante. Sui censiti 1.057.819 abitanti, risultano nati nel 2023 appena 7.647 bambini. A Giffoni Sei Casali, comune di poco più di 5.200 abitanti, i numeri sono ancora più bassi, con poche decine di nascite registrate annualmente. E se nel 2022 era ancora intorno ai 40 bambini, nel 2023, il numero di neonati è sceso a 25.

Proprio per contrastare questo declino, il Comune di Giffoni Sei Casali ha deciso di rinnovare l’iniziativa anche per le nascite del 2024, dimostrando attenzione alla tematica e un impegno concreto a sostegno della natalità.

Una misura da replicare?

Mentre l’incentivo alla natalità di Giffoni Sei Casali rappresenta un esempio virtuoso a livello locale, resta da vedere se altre amministrazioni seguiranno lo stesso percorso. Il calo delle nascite è una questione che richiede risposte su più livelli: politiche di sostegno alle famiglie, servizi per l’infanzia e un’attenzione costante alla qualità della vita dei cittadini. Ma iniziative come quella del Comune salernitano offrono un piccolo, ma significativo, contributo verso una possibile inversione di tendenza.

Critiche alla misura

La notizia non è stata però esente da critiche. Per molti sembra essere un insulto a chi i figli non può averli o una misura riparativa e uno spreco di denaro pubblico che potrebbe essere investito per migliorare la vita di quei bambini che intendono crescere nel comune della provincia di Salerno.

Ad alimentare la polemica è il fatto che modelli di questo tipo somiglino alla proposta di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, che ha proposto di erogare un reddito di maternità di 1.000 euro al mese per cinque anni alle donne che decidono di non abortire e che già in passato ha generato un ampio dibattito e critiche da diverse fazioni politiche.

L’iniziativa mirava a ridurre il numero di aborti legati a difficoltà economiche, ma le opposizioni hanno accusato Gasparri di voler esercitare una sorta di “ricatto economico” nei confronti delle donne, invece di affrontare le vere cause strutturali della povertà e dell’insicurezza economica.

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La dieta “Mind” riduce il rischio di declino cognitivo:...

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L’età avanza e la paura di non essere più lucidi come una volta si inizia a far sentire? C’è chi sostiene che la combinazione della dieta Mediterranea insieme ad un regime alimentare sano e completo possa ridurre il rischio di declino cognitivo.

Un nuovo studio pubblicato il 18 settembre 2024 sulla rivista online Neurology, dell’American Academy of Neurology, suggerisce che le persone che seguono una dieta simile alla dieta “Mind” potrebbero avere un rischio ridotto di sviluppare questi problemi. Ma in cosa consiste?

Cos’è la dieta “Mind”?

Con il termine “Mind” si fa riferimento al “Mediterranean-Dash Intervention for Neurodegenerative Delay”. È un regime alimentare che combina la dieta mediterranea a quella Dash, entrambe note per i loro benefici per la salute cardiovascolare, ma non solo.

La combinazione delle due includerebbe mangiare verdure a foglia verde come spinaci, cavoli e biete. Così come aggiungere un consumo moderato di cereali integrali, olio d’oliva, pollame, legumi, pesce e noci.

E se il pesce è consigliato almeno una volta a settimana, le due diete richiedono un consumo ridotto della carne rossa, dei cibi fritti e dei dolci. In altre parole: preferire cibi ricchi di nutrienti che supportano la salute del cervello è la regola.

Lo studio

Lo studio, condotto dal dottor Russell P. Sawyer dell’Università di Cincinnati, ha coinvolto e monitorato per dieci anni ben 14.145 persone con un’età media di 65 anni. Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un questionario sulle loro abitudini alimentari, e i ricercatori hanno valutato quanto la loro dieta si avvicinasse a quella Mind.

Per ciascun aspetto della dieta rispettato, veniva assegnato un punto: tre o più porzioni giornaliere di cereali integrali, sei o più porzioni settimanali di verdure a foglia verde, una porzione giornaliera di altre verdure, due porzioni settimanali di bacche e così via. Il punteggio massimo era di 12 punti, e i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi in base ai loro punteggi: basso, medio e alto.

Alla fine dello studio, il 12% delle persone nel gruppo con una dieta meno aderente al modello Mind ha sviluppato declino cognitivo, contro l’11% nel gruppo intermedio e il 10% nel gruppo più aderente alla dieta.

Differenze di genere

Un dato interessante emerso dallo studio è che le donne che seguivano la dieta Mind in modo coerente avevano un rischio di declino cognitivo inferiore del 6%, mentre per gli uomini non è stata osservata la stessa riduzione del rischio.

Limiti dello studio

“Siamo entusiasti di vedere che semplici modifiche alla dieta possano ridurre o ritardare il rischio di problemi cognitivi,” ha affermato il dottor Sawyer. Tuttavia, ha anche evidenziato che i risultati dovrebbero essere interpretati con cautela, in quanto lo studio ha incluso solo persone anziane, e non è detto che i risultati siano applicabili alle altre fasce di età.

Lo studio è stato finanziato dal National Institute of Neurological Disorders and Stroke e dal National Institute on Aging, e apre la strada a ulteriori ricerche, soprattutto per capire meglio le differenze tra uomini e donne.

Questa ricerca, però, si aggiunge a una crescente letteratura scientifica che collega l’alimentazione alla salute cerebrale. Studi precedenti hanno dimostrato che sia la dieta mediterranea che la dieta Dash possono contribuire a ridurre il rischio di Alzheimer e altre forme di demenza.

In un’epoca che guarda sempre più alla longevità come un rischio per i sistemi di welfare statali è importante promuovere modelli alimentari specifici come fattore chiave per la prevenzione del declino cognitivo.

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