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Justin Bieber sta affrontando uno dei momenti più altalenanti della sua vita. Da un lato la gioia incontenibile per la nascita del primo figlio Jack Blues, annunciata il 24 agosto dalla popstar e da sua moglie Hailey Baldwin.

Dall’altro lato, la preoccupazione per lo scandalo Puff Daddy, nome d’arte del rapper e produttore discografico Sean Combs, che sta sconvolgendo il mondo delle star americane. Il neopapà deve ora fare i conti con la possibilità che il suo nome venga trascinato, anche maliziosamente, in una vicenda delicata che potrebbe avere ripercussioni anche sulla stabilità della sua famiglia.

Dall’entusiasmo della paternità allo scandalo Sean ‘Diddy’ Combs

La nascita del primogenito di Bieber, accolta con grande entusiasmo dal cantante canadese e dai fan di tutto il mondo, ha rappresentato un punto di svolta nella vita dell’artista. Da icona pop seguita da milioni di giovani, Bieber si è trasformato in un padre affettuoso, come dimostrano i post condivisi sui suoi canali social. L’orgoglio e la felicità che Justin ha espresso riguardo al suo nuovo ruolo hanno conquistato i suoi 295 milioni di follower su Instagram: un bacio tra marito e moglie e poi una serie di scatti in cui il Justin fotografa Hailey, ritratta in mezzo al verde, vestita da sposa, mentre si tiene il pancione. Nessuna didascalia, la popstar ha preferito far parlare le immagini. Sposati dal 2018, in occasione della genitorialità, i due sono apparsi più affiatati che mai.

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Un post condiviso da Justin Bieber (@justinbieber)

L’entusiasmo per la nascita di Jack Blues rischia però di essere spezzata da uno che, ironia della sorte, la parola “Daddy” (“papino”) l’ha scelta come nome d’arte. E non solo, dato che è padre di sei figli.

Puff Daddy, noto anche come Sean Diddy Combs, è stato arrestato per abusi sessuali e presunte violenze avvenute negli anni ‘90 e 2000. Anche se non ci sono prove che Bieber sia coinvolto nello scandalo, la vicinanza tra i due musicisti (comprovata da diversi video e collaborazioni musicali) sta già portando a speculazioni sulla popstar canadese.

Lo scandalo Puff Daddy

L’indagine contro Puff Daddy sta alzando un polverone di dimensioni inaspettate, che vanno ben oltre il mondo della musica.

Sean Combs ha negato tutto con fermezza, definendo false e diffamatorie le accuse di diverse donne secondo cui il rapper avrebbe commesso gravi e ripetuti abusi sessuali e comportamenti violenti per diversi anni. Secondo quanto riportato da fonti vicine all’indagine, le accuse riguardano episodi avvenuti in contesti di feste private denominate ‘white party’ a cui hanno partecipato vip di svariati mondi, non solo dell’industria musicale.

Il neopapà Bieber negli ultimi anni ha lavorato duramente per trasformare la sua immagine pubblica e allontanarsi dagli scandali giovanili, ma ora potrebbe essere coinvolto in una situazione delicata, seppure indirettamente. La paura che il suo nome venga accostato a quello di Puff Daddy ha alimentato voci e speculazioni sui social media, creando ansia non solo tra i fan, ma anche tra i colleghi dell’industria musicale.

I figli delle star sotto i riflettori: quando l’eredità si fa pesante

Uno dei grandi temi che emerge quando una celebrità diventa genitore è come la fama possa influenzare negativamente i figli. L’esperienza di essere costantemente sotto i riflettori fin dalla nascita è una sfida per molte famiglie celebri. Il caso dei Ferragnez è quello più emblematico, con i visi, le voci, gli atteggiamenti di Leone e Vittoria conosciuti da milioni di italiani. Proprio in questi giorni la sovraesposizione sta tornando indietro come un boomerang nel dissing tra Fedez e Tony Effe. È dovuta intervenire Chiara Ferragni per chiedere di tenere i figli fuori dalla diatriba.

I figli delle star, come nel caso del piccolo Bieber-Baldwin, sono spesso associati alla fama dei genitori prima ancora di poter avere una loro identità. Quando poi i genitori sono coinvolti in scandali o controversie giudiziarie, le conseguenze possono essere devastanti. L’esposizione mediatica non solo rende difficile proteggere la privacy dei più piccoli, ma amplifica anche il loro legame con eventi negativi. I media e l’opinione pubblica tendono infatti a inglobare i figli nelle narrazioni degli scandali, spesso generando ulteriore pressione e ansia nelle famiglie.

Nel caso di Puff Daddy, se la vicenda si protrae e coinvolge altre star, compreso eventualmente Justin Bieber, anche i loro figli subirebbero un turbine mediatico che non hanno scelto. Magari non oggi (il figlio della popstar canadese ha solo un mese), ma più in là, quando saranno in grado di capire certe dinamiche. La difficoltà per i figli delle star è quella di crescere in un ambiente in cui l’immagine pubblica dei genitori può cambiare drasticamente da un momento all’altro, mettendo a dura prova la stabilità familiare e il benessere psicologico.

Justin Bieber si trova ora a cercare un equilibrio delicato tra il suo entusiasmo per la paternità e la preoccupazione per i rischi che la fama e le relazioni professionali comportano. La vicinanza a Puff Daddy, una figura molto controversa già dagli anni 90, potrebbe rappresentare una minaccia alla sua reputazione, soprattutto ora che è diventato padre.

Bieber, che ha attraversato momenti difficili nella sua carriera a causa della fama precoce e delle pressioni legate alla celebrità, ha più volte dichiarato di volersi concentrare sulla famiglia e sulla sua salute mentale. Nella speranza che, qualsiasi sia l’esito delle indagini, il piccolo Jack Blues non venga coinvolto.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Il quartiere in cui nasci influenza quanto peserai?

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L’obesità infantile è un problema globale, ma non tutte le regioni del mondo sono colpite allo stesso modo. Gli Stati Uniti, in particolare, mostrano un legame profondo tra le disuguaglianze sociali ed economiche e la salute dei bambini. Un recente studio pubblicato su Jama Pediatrics mette in luce un aspetto critico di questa problematica: i bambini concepiti e cresciuti in quartieri a basso reddito e con scarso accesso a cibo di qualità hanno maggiori probabilità di soffrire di obesità, e il rischio aumenta con l’età.

Quartieri e obesità: il quadro della situazione

Secondo lo studio, che ha analizzato i dati di oltre 28.000 bambini, la residenza in quartieri a basso reddito e con un accesso limitato a cibi sani durante la gravidanza e i primi anni di vita è associata a un aumento del 50% della probabilità di sviluppare obesità. Tale rischio si estende dall’infanzia all’adolescenza e si manifesta anche con un indice di massa corporea (BMI) più elevato. I bambini che vivono in queste aree povere si trovano spesso in condizioni di “deserto alimentare”, dove il supermercato più vicino si trova a oltre 800 metri per chi vive in aree urbane o a più di 16 chilometri per chi risiede in zone rurali. Questo rende difficile l’acquisto di cibo fresco e di qualità, favorendo una dieta povera e squilibrata.

L’aspetto più preoccupante è che queste associazioni tra residenza in aree svantaggiate e rischio di obesità restano costanti anche quando vengono presi in considerazione altri fattori, come le caratteristiche prenatali dei bambini. In altre parole, non è solo la predisposizione genetica o l’ambiente familiare a determinare il rischio di obesità, ma anche le condizioni ambientali legate all’accesso al cibo sano.

Povertà alimentare

Le conseguenze della povertà alimentare si riflettono non solo negli Stati Uniti ma a livello globale. Secondo il Global Report on Food Crises 2024, nel 2023 quasi 282 milioni di persone nel mondo hanno vissuto in condizioni di insicurezza alimentare acuta. Questo significa che milioni di famiglie non sono in grado di accedere regolarmente a cibo nutriente e adeguato, aumentando il rischio di malnutrizione, sia in termini di carenza che di eccesso. Come riporta l’Unicef, 181 milioni di bambini sotto i cinque anni vivono in condizioni di povertà alimentare grave, con gravi ripercussioni sul loro sviluppo fisico e cognitivo.

In Italia, la situazione non è altrettanto drammatica ma resta preoccupante. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il 19% dei bambini tra gli 8 e i 9 anni sia in sovrappeso, mentre il 10% soffra di obesità, con un 2,6% che rientra nella categoria di obesità grave. Ciò che emerge chiaramente è che il legame tra povertà e obesità non è un fenomeno esclusivamente americano, ma una tendenza che si riscontra ovunque ci siano disuguaglianze sociali ed economiche.

Accesso al cibo e salute

Ma qual è il meccanismo che collega la residenza in aree povere con l’aumento del rischio di obesità? La risposta risiede nell’accesso limitato a cibi di qualità. In molti quartieri a basso reddito, le opzioni alimentari disponibili sono spesso costituite da alimenti trasformati, ricchi di zuccheri e grassi, ma poveri di nutrienti. Questi cibi, oltre a essere più economici, sono più facilmente reperibili nei piccoli negozi di quartiere, mentre l’accesso a frutta, verdura e proteine fresche è limitato.

La distanza dai supermercati, soprattutto nelle aree rurali, rende complicato l’acquisto di cibo sano, e le famiglie finiscono per optare per prodotti meno costosi e più calorici. Questa dieta squilibrata, unita a uno stile di vita sedentario, è uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento del BMI nei bambini che vivono in questi contesti.

I dati riportati nello studio mostrano chiaramente che i bambini esposti a un ambiente alimentare povero già durante la gravidanza hanno un rischio aumentato di soffrire di obesità nei primi anni di vita. L’impatto è visibile già a 5 anni, quando il BMI di questi bambini è significativamente più elevato rispetto ai coetanei che vivono in aree con migliori risorse alimentari. Il rischio si acuisce con il passare degli anni, tanto che, all’età di 15 anni, i ragazzi che vivono in quartieri poveri hanno quasi il doppio delle probabilità di essere obesi rispetto ai loro pari.

Investimenti per la salute: la soluzione è nei quartieri

Cosa si può fare per invertire questa tendenza? Izzuddin Aris, il ricercatore che ha guidato lo studio, propone una soluzione semplice ma efficace: investire nei quartieri più poveri per migliorare l’accesso a cibo sano. Aprire nuovi supermercati, incentivare la vendita di prodotti freschi e nutrienti nei negozi locali e promuovere programmi di educazione alimentare sono solo alcune delle misure che potrebbero avere un impatto significativo sulla salute dei bambini.

Questo approccio è supportato anche da studi precedenti, che hanno dimostrato come l’accesso a cibo di qualità possa ridurre il rischio di obesità fino all’80% nei bambini che vivono in quartieri svantaggiati. Investire nelle risorse alimentari non solo contribuirebbe a migliorare la dieta dei bambini, ma potrebbe anche avere un impatto positivo sulla salute generale delle comunità, riducendo il rischio di malattie croniche come il diabete e le patologie cardiovascolari.

Il legame tra povertà e obesità non è una novità, ma questo studio fornisce ulteriori prove dell’importanza di affrontare il problema da una prospettiva sistemica. Non si tratta solo di educare le famiglie a mangiare meglio, ma di creare le condizioni affinché possano farlo. Le disuguaglianze sociali ed economiche si riflettono sulla salute delle persone, e i bambini, con il loro organismo in crescita, sono i più vulnerabili a queste disparità.

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Le madri surrogate rischiano tre volte più del parto...

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Le madri surrogate presentano un rischio tre volte maggiore di gravi complicazioni rispetto a chi concepisce naturalmente. A confermarlo è una ricerca, pubblicata il 23 settembre negli Annals of Internal Medicine, che rappresenta uno dei primi studi su larga scala per confrontare gli esiti tra le diverse modalità di concepimento. Per i ricercatori è un passo avanti nella raccolta di nuove informazioni cruciali per migliorare la cura e la sicurezza delle gravidanze surrogate e non.

Lo studio

Il team di ricercatori, guidato dalla dottoressa Maria Velez dell’Institute for Clinical Evaluative Services di Kingston, Ontario, ha analizzato i dati di oltre 863.000 nascite singole avvenute in Canada tra il 2012 e il 2021. Di queste, il 97,6% era avvenuto tramite concepimento naturale, l’1,8% tramite fecondazione in vitro (Fiv) e lo 0,1% tramite una portatrice gestazionale, ovvero una madre surrogata.

L’obiettivo dello studio era di determinare il rischio di grave morbilità materna (Smm), cioè l’insieme delle complicanze che potrebbero portare alla morte della donna, e grave morbilità neonatale (Snm) e cioè l’insieme dei problemi che porterebbe alla morte del neonato, nelle gestazionali rispetto alle altre modalità di concepimento.

La metodologia

I ricercatori hanno utilizzato una tecnica statistica chiamata “modelli di regressione” per stimare la probabilità che si verifichino complicazioni nelle diverse modalità di concepimento (naturale, Fiv e surrogazione). Questi modelli sono in grado di analizzare i dati e identificare le relazioni tra il tipo di concepimento e i rischi di complicazioni, come ad esempio la pressione alta o il parto pretermine.

Parliamo di quei “rischi relativi ponderati” (wRR), cioè il confronto tra i rischi di complicazioni nei diversi gruppi, ma in modo bilanciato o “ponderato”. Questo bilanciamento è fatto attraverso un metodo chiamato “ponderazione basata sul punteggio di propensione”, che tiene conto dei fattori di rischio associati, come età, condizioni di salute o caratteristiche delle pazienti. In altre parole, si fa in modo che i gruppi siano comparabili in termini di fattori che potrebbero influenzare i risultati, così da isolare meglio l’effetto del tipo di concepimento sul rischio di complicazioni ed escludere che il problema avuto durante il parto sia stato causato da altri fattori.

I ricercatori hanno poi valutato le complicazioni gravi per la madre (come gravi emorragie o rischi per la vita) e per il neonato (problemi di salute subito dopo la nascita). Questi sono chiamati “principali misure di esito”, perché rappresentano gli obiettivi principali dello studio, ovvero capire quanto spesso si verificano queste gravi complicazioni nelle diverse modalità di concepimento.

Oltre a questo, i ricercatori hanno anche considerato “risultati secondari”, cioè altre complicazioni meno gravi ma comunque importanti, come:
Ipertensione (pressione alta durante la gravidanza),
Emorragia postpartum (forte sanguinamento dopo il parto),
Parto pretermine (nascita prima delle 37 settimane di gestazione),
Parto cesareo (quando il bambino nasce tramite intervento chirurgico invece che naturalmente).

Scopriamo insieme cos’è emerso.

Risultati: un rischio maggiore per le madri gestazionali

Tramite questo studio si è arrivati alla conclusione che le madri surrogate affrontano un rischio molto più elevato di complicazioni rispetto alle altre donne in gravidanza. Circa l’8% delle madri surrogate ha sviluppato gravi complicazioni come l’ipertensione o l’emorragia durante il parto, contro il 2,3% delle donne che hanno concepito naturalmente e il 4,3% di quelle che hanno utilizzato la Fiv.

In particolare, il rischio di morte materna per le portatrici gestazionali è risultato tre volte maggiore rispetto a quello delle donne che concepiscono naturalmente e quasi il doppio rispetto a quelle che usano la Fiv. Le portatrici gestazionali presentavano anche un rischio più elevato di ipertensione, emorragia postpartum e parto pretermine.

Tuttavia, per quanto riguarda il tasso di mortalità natale, le differenze tra le portatrici gestazionali e gli altri gruppi sono risultate meno marcate. Il rischio era del 6,6% per i bambini nati da madri surrogate, rispetto al 5,9% delle gravidanze naturali e all’8,9% delle gravidanze da Fiv. I ricercatori hanno concluso che, sebbene vi sia un rischio moderato di complicazioni neonatali, la maggiore attenzione dovrebbe essere posta sulle complicazioni materne.

Progetti futuri: la necessità di linee guida più rigorose

Lo studio evidenzia l’importanza di un’adeguata consulenza per le coppie e gli individui che intendono ricorrere ad una maternità surrogata. La dottoressa Velez ha sottolineato la necessità di informare sia le madri surrogate che i genitori committenti sui potenziali rischi di complicazioni durante la gravidanza e nel periodo postpartum.

Secondo i ricercatori, ulteriori studi sono necessari per comprendere meglio i meccanismi che portano a un maggiore rischio di morbilità materna tra le madri surrogate. Anche se esistono linee guida per minimizzare questi rischi, la dottoressa Maria Velez ha evidenziato come tali direttive non sempre vengano seguite rigorosamente, aprendo la strada alla necessità di sviluppare piani di assistenza più mirati e di migliorare l’adesione a tali criteri per la sicurezza delle portatrici gestazionali.

In sintesi, lo studio ha portato alla luce una realtà che necessita di maggiore attenzione medica e di un supporto più strutturato per garantire esiti migliori sia per le madri surrogate che per i neonati.

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Primo suicidio in Svizzera con capsula Sarco ma scattano...

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La capsula Sarco per il suicidio assistito è stata utilizzata per la prima volta ieri, 24 settembre, in Svizzera. Un’americana di 64 anni ha scelto di ricorrere alla capsula suicida per porre fine alle proprie sofferenze in una foresta del canton Sciaffusa. La donna soffriva da anni di gravi problemi legati ad una grave deficienza immunitaria. Sentiva il desiderio di morire da almeno due anni e i suoi due figli “erano completamente d’accordo” con la sua decisione, ha spiegato la co-presidente dell’organizzazione The Last Resort, Fiona Stewart, al media elvetico Blick.

Eppure, anche nel Paese elvetico, da sempre molto aperto sul ‘fine vita’, la vicenda fa discutere. La polizia ha subito annunciato di aver arrestato diverse persone contro le quali è stato avviato un procedimento penale per istigazione al suicidio. Ma il suicidio assistito è legale o no in Svizzera? Facciamo il punto.

La capsula Sarco in Svizzera: come funziona

La capsula Sarco è stata promossa a luglio da The Last Resort, un piccolo collettivo internazionale di sostenitori dei diritti umani. L’idea alla base del progetto è nata 12 anni fa dalla società Exit International, con l’obiettivo di “realizzare una capsula in grado di produrre una rapida diminuzione del livello di ossigeno, mantenendo al contempo un basso livello di CO2 (le condizioni per una morte pacifica, persino euforica)”, come spiega la società sul suo sito.

Il metodo consiste in una capsula sigillata in cui chi decide di togliersi la vita si stende e preme un pulsante che provoca la morte in pochi minuti. L’azoto liquido presente in un contenitore viene istantaneamente evaporato, così il livello di ossigeno scende sotto il 5% in meno di un minuto (nell’aria che respiriamo è al 21%). Il decesso interviene dunque per asfissia da azoto: dopo pochi respiri, la persona perde i sensi e la morte sopraggiunge nel giro di circa cinque minuti.

La capsula Sarco (da ‘sarcofago’) è mobile e permette al ‘paziente’ di scegliere dove morire. Per motivi logistici e di opportunità, è verosimile che il suo utilizzo (se confermato) avverrà sempre in Svizzera, come fatto dalla donna americana, giunta nel Paese proprio per utilizzare la capsula.

L’ideatore di Sarco, il dottor Philip Nitschke, ha seguito la procedura dalla Germania, utilizzando un cardiofrequenzimetro e una telecamera piazzata dentro la capsula: “Quando la donna è entrata nel Sarco, ha premuto quasi subito il pulsante. Non ha detto nulla, voleva davvero morire. Stimo che abbia perso conoscenza nel giro di due minuti e sia morta dopo cinque minuti. Esattamente come ci aspettavamo”, ha commentato al quotidiano olandese Volkskrant.

Per richiedere un suicidio assistito presso The Last Resort bisogna avere (almeno) una di queste condizioni: vecchiaia avanzata e che non consenta l’autosufficienza; polipatologie relative all’invecchiamento; malattie gravi, croniche o terminali; demenza precoce e assenza di lucidità mentale.

La capsula per il suicidio è legale?

Per molti la presentazione della capsula suicida, avvenuta lo scorso luglio, era una prova della sua legittimità. Ma non è così: anche se i suoi promotori affermano il contrario, la capsula Sarco non è legale neppure in Svizzera.

Lo ha chiarito la ministra della Sanità elvetica Elisabeth Baume-Schneider rispondendo alle interrogazioni in parlamento. La capsula suicida non è legale perché non soddisfa i requisiti sulla sicurezza dei prodotti. Per questo non dovrebbe quindi essere immessa sul mercato. Dalle parole della ministra Baume-Schneider risulta che eventuali responsabilità andrebbero chiarite caso per caso.
C’è poi il discorso sull’azoto utilizzato dalla capsula Sarco. Se questo gas non venisse utilizzato in rispetto alle norme, la questione sarebbe di competenza cantonale, ha precisato la ministra. Le procure di diversi Cantoni hanno annunciato un procedimento penale in caso di impiego nella loro giurisdizione. L’utilizzo di questa capsula ha riacceso il dibattito etico sul fine vita persino in uno Stato rinominato per la sua apertura sul tema. Tanti italiani decidono di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera.

Qualche mese fa, intervistato da Teleticino, il presidente della Commissione Etica dell’EOC Mattia Lepori si era espresso sulla capsula Sarco parlando di “un dispositivo tecnico che permette di accedere a un’assistenza al suicidio con una modalità diversa da quella che viene applicata attualmente, ovvero quella farmacologica”. Un’alternativa che Lepori trova futile: “Francamente, non mi sembra che questo prodotto risponda a un bisogno impellente. Il protocollo farmacologico, utilizzato da persone competenti, permette già di ottenere il risultato che si ricerca senza problemi”.

Sullo sfondo il timore di un ‘turismo del suicidio’ perché la capsula Sarco è stata lanciata come “un qualsiasi prodotto commerciale”, aveva già denunciato Lepori. Il fatto che il fondatore la abbia rinominata “la Tesla dell’eutanasia” non ha aiutato.

“Se queste persone intendono agire facendosi forti del fatto che la nostra legislazione è molto liberale e quindi non rispettando quelle che sono le direttive dell’accademia svizzera delle scienze mediche e della federazione dei medici svizzeri, è possibile che ci sia un fenomeno di risucchio, persone che vengono dall’estero per beneficiare di questa assistenza che negli altri Paesi non è permessa”, come già avviene per il suicidio farmacologico.

Suicidio assistito, cosa prevede la legge svizzera

Ma allora perché si può ricorrere al suicidio farmacologico, mentre la capsula Sarco è illegale?

La risposta è in bilico tra legge e prassi.

L’art. 115 del Codice penale svizzero prevede che “chiunque, per motivi egoistici, istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria”.

L’eutanasia attiva diretta (il medico o un terzo somministra intenzionalmente al paziente un’iniezione che conduce direttamente alla morte, per ridurne le sofferenze) è punita ai sensi degli articoli 111 (omicidio intenzionale), 114 (omicidio su richiesta) o 113 (omicidio passionale) del Codice penale svizzero.

L’eutanasia attiva indiretta (l’impiego di mezzi per alleviare le sofferenze di qualcuno, i quali possono tuttavia come effetto secondario abbreviarne la vita) non è regolata esplicitamente dal Codice penale vigente, ma è consentita in linea di massima. Anche le direttive sull’eutanasia dell’Accademia svizzera delle scienze mediche considerano ammissibile questo genere di eutanasia. In pratica, cambia la ratio: il farmaco (ad esempio la morfina) non viene somministrato per provocare la morte del paziente, ma per alleviarne il dolore. Se, però, il farmaco ha come effetto ‘indiretto’ la morte della persona, la pratica non costituisce reato.


L’eutanasia passiva (la rinuncia ad avviare o la sospensione di terapie di sostentamento vitale), infine, non è regolata esplicitamente dalla legge, ma è considerata ammissibile.

Capsula Sarco, perché ci sono stati degli arresti?

Alla luce di queste considerazioni, si vede come l’utilizzo della capsula Sarco rientri in una zona grigia che, allo stato attuale, ha portato agli arresti di diverse persone: “La Procura del canton Sciaffusa è stata informata da uno studio legale, alle 16.40 di lunedì 23 settembre 2024, che nel pomeriggio si era verificato un suicidio assistito con la capsula Sarco in un rifugio forestale a Merishausen. Di conseguenza, la polizia di Sciaffusa, compreso il servizio forense e la Procura, sono stati inviati sul posto. Sono stati chiamati anche gli specialisti dell’Istituto forense di Zurigo e dell’Istituto di medicina legale di Zurigo”, si legge nel comunicato della polizia.

“La capsula suicida Sarco – aggiungono le forze dell’ordine – è stata recuperata e il deceduto è stato portato all’Istituto di medicina legale per l’autopsia. Inoltre, diverse persone nella zona di Merishausen sono state prese in custodia dalla polizia. La Procura sta indagando anche sulla violazione di altri reati penali”. A causa del segreto d’ufficio e delle indagini, al momento non sono state rilasciate ulteriori informazioni.

De Volkskrant riporta che tra le persone fermate c’è il fotografo del giornale, “che aveva seguito da vicino il caso e voleva scattare delle foto. Il giornale non è riuscito a contattare il suo collaboratore per ore. Nella tarda serata di lunedì, la polizia di Sciaffusa ha confermato che l’uomo era trattenuto alla stazione di polizia, ma non ha voluto fornire ulteriori spiegazioni”.

Secondo il giornale olandese, la polizia sciaffusana “potrebbe aver trattenuto anche il direttore di The Last Resort, Florian Willet, che era presente al suicidio”.

Le prossime settimane, con la condanna o l’assoluzione delle persone arrestate, saranno fondamentali per capire se l’utilizzo della capsula suicida verrà considerato ammissibile o meno.

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