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L’aspettativa di vita (in salute) nell’Ue: la sfida della qualità della longevità

Quanto a lungo e in salute vivono i cittadini dell’Unione europea? Secondo gli ultimi dati Eurostat, nel 2022, i cittadini dell’Ue hanno vissuto una media di circa 62,6 anni in buona salute. Tuttavia, dai dati emerge una domanda: gli anni aggiuntivi che guadagniamo col tempo grazie alla maggiore longevità, a sistemi medici sempre più avanzati e ad un miglioramento delle condizioni generali di vita sono vissuti in salute o con limitazioni? Scopriamolo insieme.

Aspettativa di vita e anni di buona salute

In media, dal report Eurostat emerge che le donne nell’Ue godono di un’aspettativa di vita di 83,3 anni, mentre per gli uomini si ferma a 77,9 anni: un divario di 5,4 anni. Tuttavia, la differenza si riduce drasticamente quando si considerano gli anni vissuti in buona salute: le donne trascorrono circa 62,8 anni senza disabilità o limitazioni al regolare svolgimento delle attività quotidiane, rispetto ai 62,4 anni degli uomini, con un divario di appena 0,4 anni.

“Questo significa che gli uomini tendono a trascorrere una percentuale maggiore della loro vita totale (80,1%) in buona salute rispetto alle donne (75,4%), che spesso vivono più a lungo ma con un maggior numero di anni caratterizzati da limitazioni fisiche o mentali”, si legge nel report.

Differenze tra i paesi dell’Ue

Ma dove si vive di più e meglio? Esistono notevoli variazioni nella qualità della vita in salute tra i diversi Stati membri. Nel 2022, Malta ha registrato il maggior numero di anni di vita in buona salute alla nascita sia per le donne (70,3 anni) sia per gli uomini (70,1 anni), seguita da Svezia e Italia per gli uomini e da Bulgaria e Slovenia per le donne.

All’estremo opposto, Danimarca e Lettonia hanno registrato i numeri più bassi, rispettivamente 54,6 anni e 55,4 anni per le donne, e 53,0 anni e 56,6 anni per gli uomini.

Le differenze sono evidenti anche nella proporzione di vita vissuta senza limitazioni: in Bulgaria, una donna può aspettarsi di trascorrere l’88,5% della sua vita in buona salute, contro il 65,7% di una donna in Danimarca. Per gli uomini, la differenza è altrettanto marcata: in Bulgaria un uomo può aspettarsi di vivere il 91,4% della sua vita senza limitazioni, contro il 71,8% in Danimarca.

In Italia, nel 2022, le donne, invece, possono aspettarsi di vivere 66,8 anni in buona salute, mentre gli uomini 63,4 anni. Questi dati posizionano l’Italia tra i Paesi con risultati sanitari favorevoli nell’Ue, nonostante un divario di genere di 3,4 anni a favore delle donne. Questo riflette l’efficacia delle politiche sanitarie italiane e contribuisce al benessere generale della popolazione, evidenziando un contesto di vita relativamente lungo e sano. Il dato, però, va contestualizzato in un sistema sanitario che, con l’aumento della denatalità, l’aumento della richiesta di supporto alla longevità, un numero sempre più inferiore di dipendenti col passare degli anni e con una carenza di fondi sostanziosi e dedicati, rischia il collasso.

Anni di vita sana a 65 anni

Guardando agli anni di vita sana a partire dai 65 anni, la tendenza si conferma. Le donne superano gli uomini in 19 Paesi dell’Unione, ma in alcune nazioni sono gli uomini a godere di più anni di vita in buona salute. Ad esempio, in Portogallo, gli uomini di 65 anni possono aspettarsi di vivere 1,3 anni in più senza disabilità rispetto alle donne, mentre in paesi come Bulgaria, Slovenia e Francia, le donne godono di 1,5-1,7 anni in più rispetto agli uomini.

Salute e longevità: la sfida demografica

Sebbene l’aspettativa di vita sia aumentata significativamente grazie ai miglioramenti nella sanità, nello stile di vita e nell’istruzione, il vero interrogativo oggi riguarda la qualità della vita nelle fasi avanzate.

L’aspettativa di vita non riflette infatti appieno le condizioni di salute. Gli indicatori di anni di vita in buona salute aiutano a comprendere meglio quanto tempo le persone vivono libere da limitazioni di malattie croniche o disabilità, che tendono a colpire soprattutto in età avanzata.

Per questi motivi, il miglioramento della qualità della vita in età avanzata è una priorità per l’Ue, che ha adottato diverse iniziative per promuovere l’invecchiamento attivo e sano. Tra queste, il programma Active and Assisted Living (Aal) e la strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030, che mira a garantire la piena inclusione sociale e economica.

A livello politico, aumentare gli anni di vita in buona salute non significa solo migliorare la vita degli individui, ma anche ridurre la spesa sanitaria e incentivare la partecipazione alla forza lavoro. Se gli anni di vita in buona salute crescono più velocemente dell’aspettativa di vita, i benefici sono doppi: non solo viviamo più a lungo, ma viviamo anche meglio.

I dati sull’aspettativa di vita e sugli anni di vita in buona salute mostrano che, sebbene l’Europa stia vivendo un’epoca di longevità senza precedenti, esistono ancora grandi disparità tra i Paesi e tra i sessi nella qualità della vita in età avanzata. Gli sforzi dell’Ue sono mirati a colmare queste lacune.

Proprio negli scorsi giorni, il think tank Bruegel ha presentato in Commissione Ue un report per analizzare le conseguenze: l’Europa affronta una grave sfida demografica, con una prevista riduzione della popolazione da 451 milioni nel 2022 a 406 milioni entro il 2050, e un calo significativo della forza lavoro. L’Italia è tra i Paesi più colpiti, con una proiezione di diminuzione della popolazione tra il 15% e il 18%.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Il Papa e i medici ‘sicari’ che fanno aborti, quanti sono...

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Nel corso di un volo di ritorno da Bruxelles a Roma, Papa Francesco ha definito “sicari” i medici che praticano l’interruzione di gravidanza. Parlando con i giornalisti presenti sull’aereo, (ormai un must dei viaggi internazionali di Bergoglio) il Pontefice ha ribadito la sua posizione, già nota, contro l’aborto.

Questa volta, però, le parole scelte da Papa Francesco sono state particolarmente forti nei confronti dei medici che praticano l’aborto.

Poche ore prima, in Belgio, Bergoglio aveva visitato la tomba del Re Baldovino, sovrano cattolico che nel 1992 abdicò per 36 ore per non firmare la legge sulla legalizzazione dell’aborto.
Il Pontefice ha chiesto di guardare al suo esempio in un momento in cui si fanno strada “leggi criminali”. Parole che ricordano quelle pronunciate a inizio mese in Indonesia, dove aveva definito “una legge di morte”, quella volta a limitare la nascita di nuove persone.

Se in queste ore l’elogio è stato rivolto al Re Baldovino per la sua posizione anti aborto, in quella occasione Bergoglio ha elogiato l’Indonesia perché fa famiglie di tre, quattro, cinque figli a differenza di Paesi come l’Italia dove “le famiglie preferiscono avere cagnolini e gattini al posto dei figli”

Parlando del sovrano belga, Papa Francesco ha elogiato il coraggio di Baldovino, definendolo un “politico con i pantaloni”. Nonostante il Re non sia ancora ufficialmente santo, il processo di beatificazione è in corso, e Bergoglio si auspica che proceda velocemente. Per lui, la figura di Baldovino è diventata l’esempio di come un leader politico possa opporsi a leggi che considerano l’aborto come un diritto, considerandolo invece come un omicidio.

Papa Francesco contro i medici che praticano l’aborto: cosa ha detto

Alla domanda su come conciliare il diritto alla vita con quello della donna a non soffrire, il Papa ha ribadito una posizione netta: “Un aborto è un omicidio”. Ha inoltre citato la scienza, affermando che già “al mese del concepimento tutti gli organi sono completi”. Partendo da queste riflessioni, Papa Francesco ha definito “sicari” i medici che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza. Parole forti che hanno provocato la reazione di alcune organizzazioni per i diritti delle donne e delle associazioni pro-choice.

Papa Francesco ha poi precisato che le sue dichiarazioni non si riferivano alla contraccezione, che ha definito “un’altra cosa”, ma si è limitato a parlare dell’aborto, ribadendo che “su questo non si può discutere”.

Quanti ginecologi obiettori in Italia ci sono in Italia?

Le parole del Papa e le critiche nei suoi confronti sono l’emblema delle posizioni polarizzate nel dibattito sull’aborto, molto accesso in Italia. Nel nostro Paese, la questione non è solo di natura etica, ma anche pratica.

Una delle principali difficoltà che le donne incontrano nell’accedere all’interruzione di gravidanza è il numero elevato di medici che si avvalgono dell’obiezione di coscienza. A marzo il dibattito si era acceso sia nella società civile che nella politica soprattutto dopo le parole della ministra Roccella secondo cui in Italia sarebbe “molto più difficile trovare un ospedale dove partorire piuttosto che un ospedale dove abortire”. Parole a cui la deputata Cinque stelle Gilda Sportiello aveva risposto dagli scranni del Parlamento ricordano che “la maternità non deve essere l’unica scelta per le donne”.

Sugli obiettori di coscienza, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, aveva aggiunto che: “Il carico di lavoro per i non obiettori, cioè per chi materialmente esegue l’interruzione volontaria di gravidanza, è di meno di un aborto a settimana, lo 0,9%. Quindi non c’è questo carico di lavoro che evidentemente crea un problema sull’obiezione di coscienza”.

In completo disaccordo l’onorevole Sportiello. “Lei lo sa quanti sono i medici obiettori di coscienza? A me risulta che se una donna va in Veneto per partorire trova che il 71% degli operatori sanitari è obiettore di coscienza, se va in Abruzzo e in altre regioni trova più dell’80% di medici obiettori che, magari, le negano di abortire”.

In base alla Relazione annuale del Ministero della Salute del 2022, nel 2020, il 64,6% dei ginecologi italiani si dichiara obiettore, cioè rifiuta di eseguire aborti per motivi di coscienza. Questo dato si alza drammaticamente in alcune regioni, come il Molise, dove oltre l’80% dei ginecologi sono obiettori, rendendo quasi impossibile ottenere un aborto in strutture pubbliche.

La percentuale più alta si trova nella provincia autonoma di Bolzano, dove, nel 2020, era obiettore l’84,5% dei ginecologi, un numero che rende praticamente impossibile l’applicazione della legge sull’aborto all’interno del servizio sanitario locale. Anche nella regione Lazio, che include Roma, circa il 78% dei ginecologi sono obiettori, secondo i dati del Ministero della Salute.

Nelle regioni del Sud Italia, come la Campania e la Basilicata, la percentuale di medici obiettori supera il 70%, creando disuguaglianze territoriali enormi nell’accesso a un servizio garantito dalla legge 194 del 1978. Questa legge assicura il diritto all’aborto nelle prime dodici settimane di gestazione, ma, nella pratica, l’elevato numero di obiettori di coscienza rende difficile l’applicazione della norma. Secondo l’Istat, circa 67.000 interruzioni volontarie di gravidanza sono state effettuate in Italia nel 2021, ma le difficoltà logistiche create dall’obiezione di coscienza sono un problema sempre più grave.

Alcuni ospedali italiani, specialmente in piccole città, non hanno ginecologi disponibili a eseguire aborti, costringendo le donne a spostarsi in altre regioni o a cercare alternative private, che spesso comportano costi elevati.

Le conseguenze dell’obiezione di coscienza: un sistema sotto pressione

Le implicazioni dell’obiezione di coscienza sono molteplici e complesse. Da un lato, la legge italiana tutela il diritto dei medici di non praticare aborti se questo va contro le loro convinzioni etiche o religiose. Dall’altro, però, la legge prevede anche che gli ospedali pubblici debbano garantire il servizio, un compito che diventa sempre più arduo da rispettare, specialmente in quelle regioni dove la maggioranza del personale medico è obiettore.

Secondo un’indagine condotta dall’Associazione Luca Coscioni, in alcune regioni d’Italia, la carenza di medici non obiettori costringe le donne a tempi di attesa più lunghi, che possono spingerle oltre il limite legale di dodici settimane per l’interruzione volontaria di gravidanza. Questo crea una situazione di “aborto clandestino”, in cui le donne cercano soluzioni non sicure o si recano all’estero per ottenere il servizio.

Non mancano i tentativi di risolvere la questione. Alcuni attivisti e parlamentari hanno proposto di garantire un numero minimo di medici non obiettori in ogni ospedale, ma tali misure sono state oggetto di forte opposizione, sia politica che religiosa. Le discussioni continuano, ma al momento non sembra esserci una soluzione concreta all’orizzonte.

Le dichiarazioni di Papa Francesco hanno innescato un acceso dibattito, che riflette l’attuale polarizzazione delle opinioni sull’aborto in Italia e nel mondo. Le associazioni cattoliche hanno espresso sostegno al Pontefice, lodandolo per aver difeso il diritto alla vita “senza compromessi”. Le organizzazioni pro-choice e molte associazioni per i diritti delle donne hanno invece criticato il linguaggio usato dal Papa, eccessivamente offensivo e aggressivo.

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La manovra riparte dalle famiglie, novità in vista per...

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In un contesto caratterizzato da un preoccupante calo demografico e da una popolazione sempre più anziana, il governo italiano ha messo al centro delle proprie politiche il sostegno alle famiglie, con l’obiettivo di invertire la tendenza e promuovere la natalità. Il nuovo Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025-2029 si pone come un tassello fondamentale per affrontare una delle più grandi sfide del Paese. Al centro delle azioni previste c’è un rafforzamento delle misure già esistenti, oltre all’introduzione di nuovi strumenti volti a supportare sia la natalità che il benessere delle famiglie, con un approccio graduale e di lungo respiro, che cerca di bilanciare sostenibilità economica e interventi sociali. Tuttavia, il successo di queste misure dipenderà da una serie di variabili, tra cui l’efficacia delle politiche sul campo e la capacità di superare i divari territoriali e sociali che caratterizzano il Paese.

Quali sono i provvedimenti chiave

L’Assegno Unico e Universale

Tra i provvedimenti chiave, spicca il rafforzamento dell’Assegno Unico e Universale (AUU), una misura già operativa ma che, nel quadro del nuovo Piano, verrà ulteriormente potenziata. Si tratta di un contributo mensile per ogni figlio a carico, variabile in base al reddito familiare e senza limiti di età per i figli con disabilità. Nel 2023, 9,6 milioni di bambini hanno beneficiato di questa misura, con 18,2 miliardi di euro erogati. Con gli aggiornamenti previsti, si punta a migliorare ulteriormente questo strumento, arrivando a coprire una percentuale ancora più alta di famiglie. L’obiettivo è incentivare la natalità attraverso un sostegno concreto e stabile nel tempo.

Più asili nido meno divari territoriali

Il Piano prevede anche un grande investimento nella creazione di nuovi posti negli asili nido, con l’obiettivo di raggiungere una copertura nazionale del 33% per i bambini da 0 a 2 anni entro il 2026. Il PNRR ha già destinato 3,24 miliardi di euro per la creazione di oltre 150mila nuovi posti, ma uno dei principali ostacoli resta il divario territoriale, in particolare tra Nord e Sud. Il Mezzogiorno, infatti, soffre di una forte carenza di servizi per l’infanzia, con una copertura ben al di sotto della media europea. Un investimento così significativo negli asili nido non solo mira a colmare queste lacune, ma si propone anche di favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia, in particolare per le donne, ancora penalizzate da un sistema che rende difficile combinare carriera e vita familiare.

Congedi parentali più generosi

Sul fronte dei congedi parentali, il Piano introduce importanti novità, con l’aumento dell’indennità fino all’80% della retribuzione imponibile per i primi due mesi e una serie di agevolazioni per chi sceglie di usufruire del congedo nei primi anni di vita del bambino. Si prevede inoltre un incremento della durata del congedo per i padri, con l’obiettivo di riequilibrare i carichi di cura all’interno della famiglia e favorire la permanenza delle madri nel mondo del lavoro. La misura mira a promuovere una cultura della condivisione delle responsabilità genitoriali, riducendo le disparità tra uomini e donne.

Incentivi fiscali per le donne con figli

Il Piano introduce anche agevolazioni fiscali per le donne lavoratrici con figli. Per le madri con contratti a tempo indeterminato e almeno tre figli, è prevista una riduzione del 100% dei contributi, fino a un massimo di 3.000 euro annui. Questo esonero contributivo sarà esteso in via sperimentale anche alle donne con due figli nel 2024, offrendo un sostegno concreto alle famiglie numerose. L’obiettivo è ridurre le barriere economiche all’occupazione femminile e incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Più scuola e più tempo per le famiglie

Infine, il Piano non trascura il tema dell’orario scolastico, con l’estensione delle ore di lezione pomeridiane come parte di una strategia volta a migliorare il rendimento scolastico e a contrastare l’abbandono precoce. Anche questa misura rappresenta un supporto importante per le famiglie, che avranno maggiori opportunità di organizzare il proprio tempo, riducendo il peso della gestione dei figli durante l’orario lavorativo. Questa misura è destinata a favorire l’integrazione dei giovani nel tessuto economico-sociale del Paese, contribuendo nel lungo termine a un incremento della natalità.

Un piano di lungo respiro

La scelta del Governo di pianificare il bilancio e le politiche familiari su un orizzonte quinquennale, piuttosto che concentrarsi su misure a breve termine, riflette la necessità di affrontare in modo strutturale i problemi legati alla demografia e al lavoro. L’Italia, come molti altri Paesi europei, deve fare i conti con un progressivo invecchiamento della popolazione e un tasso di fecondità tra i più bassi dell’OCSE. Come affermato dal sottosegretario al Mef, Federico Freni, all’Adnkronos, “il governo è ben consapevole che chiedere all’Europa un aggiustamento di bilancio distribuito su sette anni, invece che su quattro, implica un impegno importante sul fronte delle riforme”. Il sottosegretario ha sottolineato come la strategia del governo si basi su una visione a lungo termine che tiene conto sia della stabilità economica sia della necessità di un piano di riforme strutturali per rilanciare la crescita e l’attrattività del Paese. “È una consapevolezza – spiega Freni – che si nutre di una forte volontà perché non c’è crescita strutturale senza finanze pubbliche in salute, così come è effimera una disciplina di bilancio che non guarda a una programmazione degli investimenti e, appunto, delle riforme. Siamo noi che riteniamo necessario portare a termine questo doppio impegno.”

Il sottosegretario ha inoltre specificato che, con il Piano Strutturale di Bilancio, “non ci limiteremo ad attuare gli impegni presi con il PNRR: il perimetro delle riforme sarà più ampio e decisamente ambizioso”. In particolare, ha indicato che il governo si impegnerà a completare e implementare le riforme già previste dal PNRR, tra cui la giustizia, la pubblica amministrazione, il fisco, la digitalizzazione e la concorrenza. Tuttavia, il Piano andrà oltre queste misure, introducendo iniziative aggiuntive per migliorare la qualità delle istituzioni e dell’ambiente imprenditoriale. Solo con un approccio così ampio e ambizioso, ha spiegato Freni, sarà possibile rendere il Paese più attrattivo per le imprese e gli investitori, gettando le basi per una crescita economica solida e sostenibile nel lungo termine.

L’inclusione di tali riforme nel Piano non solo risponde agli impegni assunti in sede europea, ma rappresenta anche una precisa scelta strategica del governo per rilanciare l’economia nazionale, in linea con una visione che bilancia crescita economica e sostenibilità delle finanze pubbliche.

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Donne con endometriosi, quali rischi per il cuore?

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Le donne che soffrono di endometriosi hanno un rischio di infarto o ictus circa il 20% maggiore rispetto alle donne senza endometriosi. A rilevarlo è uno studio condotto dalla University Hospital di Copenhagen, in Danimarca.

Secondo i ricercatori, questo studio consentirà di approfondire le cure per l’endometriosi e migliorare i problemi e i rischi cardiaci che le donne con questa patologia corrono.

Endometriosi e cuore: quale legame?

Si stima che in tutto il mondo ci siano più di 190 milioni di donne in età riproduttiva che soffrono di endometriosi. L’endometriosi si verifica quando il tessuto uterino cresce all’esterno dell’utero, sulle ovaie, sulle tube di Falloppio e sugli organi circostanti, causando forti dolori e problemi di fertilità.

I ricercatori hanno esaminato i tassi di infarto e ictus in più di 60.000 donne con endometriosi rispetto a quasi un quarto di milione che non soffriva di questo problema. I risultati hanno mostrato che le donne con endometriosi avevano il 35% di probabilità in più di avere un infarto e il 20% in più di probabilità di avere un ictus ischemico.

Inoltre, l’endometriosi sembra aumentare anche il rischio di aritmie cardiache e insufficienza cardiaca.

“Per decenni, la malattia cardiovascolare (Cvd) è stata considerata una malattia maschile e i fattori di rischio sono stati considerati dalla prospettiva maschile, ad esempio, includendo la disfunzione erettile nelle linee guida sulla valutazione del rischio di Cvd. Tuttavia, 1 donna su 3 muore di Cvd e 1 donna su 10 soffre di endometriosi. I nostri risultati suggeriscono che potrebbe essere giunto il momento di considerare di routine il rischio di Cvd nelle donne con endometriosi”, ha affermato l’autrice principale dello studio, la dottoressa Eva Havers-Borgersen del Rigshospitalet Copenhagen University Hospital, Copenhagen, Danimarca.

La dottoressa ha sottolineato l’importanza che, secondo lei, dovrebbe avere sottoporre regolarmente a controlli cardiaci le donne che soffrono di questa particolare patologia: “È giunto il momento di considerare i fattori di rischio specifici delle donne, come l’endometriosi, ma anche il diabete gestazionale e la preeclampsia, nei modelli di previsione del rischio cardiovascolare“.

Lo studio

Lo studio si è avvalso dei registri nazionali danesi per analizzare le donne con diagnosi di endometriosi tra il 1977 e il 2021. Quest’ultime sono state abbinate a donne senza endometriosi in un rapporto 1 a 4 in base all’anno di nascita. L’esito primario era un composito di infarto miocardico acuto e ictus ischemico. Gli esiti secondari comprendevano i rischi per i singoli componenti dell’esito primario, così come aritmie, insufficienza cardiaca e mortalità. Sono state incluse nell’analisi 60.508 donne con endometriosi e 242.032 senza endometriosi. L’età media era di 37,3 anni e sono seguite per una media di 16 anni e per un massimo di 45 anni.

Le donne con endometriosi presentavano un rischio aumentato di circa il 20% del composito di infarto miocardico acuto e ictus ischemico rispetto a quelle senza endometriosi. L’incidenza cumulativa delle possibili patologie a 40 anni prevedeva la possibilità di avere infarto miocardico acuto e ictus ischemico, rispettivamente del 17,5% e del 15,3% nelle donne con e senza endometriosi.

Se prese le singole patologie, le donne con endometriosi avevano circa il 20% in più di rischio di ictus ischemico e circa il 35% in più di rischio di infarto miocardico acuto rispetto a quelle senza endometriosi. Inoltre, le donne con endometriosi avevano anche un rischio aumentato di aritmie e insufficienza cardiaca rispetto a quelle senza endometriosi.

L’importanza della prevenzione

La dottoressa Havers-Borgersen ha aggiunto: “Sebbene le differenze assolute fossero piccole, le differenze relative erano del 20% e, con l’elevata prevalenza dell’endometriosi, questi risultati forniscono ulteriori prove del fatto che i fattori di rischio specifici e le malattie cardiovascolari nelle donne necessitano di maggiore attenzione”.

E ha concluso: “Suggeriamo che le donne con endometriosi si sottopongano a una valutazione del rischio di malattie cardiovascolari ed è giunto il momento di considerare i fattori di rischio specifici delle donne, come l’endometriosi, ma anche il diabete gestazionale e la preeclampsia, nei modelli di previsione del rischio cardiovascolare. Sono necessarie ulteriori ricerche per confermare i nostri risultati e integrare questi fattori in modelli di previsione del rischio efficaci”.

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