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Fate figli e che siano femmine: lo strano appello del Comune di Sanza (Salerno)

“Fate figli e che siano femmine”: questo è l’appello apparso sulla pagina ufficiale di Facebook del Comune di Sanza (Salerno).

Un invito che ha fatto sorridere e alcuni ed arrabbiare altri. Alla base la demografia di Sanza che, nel 2022, su una popolazione di 2.396 abitanti contava 1.227 maschi e 1.169 femmine. Niente di particolarmente allarmante in termini assoluti, ma a preoccupare è lo squilibrio nelle fasce d’età più giovani. Come abbiamo visto nel calo demografico della Sardegna, le dinamiche demografiche che riguardano i più giovani sono quelle che hanno un maggiore impatto sulla demografia di un territorio.

Il post Facebook del Comune di Sanza

La demografia di Sanza

Nella fascia di età tra 0 e 2 anni i maschi sono 29, mentre le femmine sono solo 14, meno della metà. Va meglio nella fascia 3-5 anni con 22 maschi e 20 femmine. Il trend continua anche nelle fasce di età successive: dai 12 ai 17 anni ci sono 57 maschi e 47 femmine, dai 18 ai 24 anni ci sono 110 maschi a fronte di 97 femmine. Anche nel cuore dei Millenial le cose non cambiano: nella fascia 25-34 anni i maschi sono 158 e le femmine 134, 150 e 122 tra i 35 e i 44 anni.

È solo tra la popolazione più anziana, nella fascia oltre i 75 anni, che si assiste a un’inversione di tendenza: ci sono 173 femmine contro 128 maschi. Questo fenomeno si riflette anche sul numero di vedovi e vedove, dove il gap è impressionante: 38 vedovi contro 160 vedove.

In pratica, nonostante la differenza non sia abissale considerando l’intera popolazione di Sanza, tutte le fasce di età in cui si fanno figli sono squilibrate a favore degli uomini.

L’appello del comune di Sanza

Di fronte a questi dati, l’amministrazione comunale ha invitato i giovani a fare figli “con urgenza”. La congiuntura economica e i salari troppo bassi spesso fanno sì che la scelta di diventare genitori ricada solo in parte sui genitori che non possono ignorare le difficoltà di avere un figlio. In Italia, accanto alle difficoltà economiche, ci sono quelle gestionali legate alla scarsa presenza di servizi per l’infanzia e ai loro costi eccessivi, mentre entrambi i genitori devono lavorare per poter garantire un futuro dignitoso al nucleo familiare.

La demografia della Campania

L’ultimo censimento Istat, datato 1° gennaio 2023, dimostra come l’evoluzione demografica della Campania. Con i suoi 5.624.260 abitanti, la regione si distingue nel panorama italiano per una struttura demografica relativamente giovane. Il 13,2% della popolazione ha meno di 14 anni, una percentuale che supera dello 0,5% quella nazionale. Questo dato, tuttavia, nasconde una tendenza al ribasso: nel 2013, i giovani sotto i 14 anni rappresentavano il 15,4% della popolazione campana.

La fascia d’età 15-64 anni costituisce il 65,5% della popolazione ed è anch’essa in calo rispetto al decennio precedente, quando questa fascia rappresentava il 67,5% del totale.

Gli over 65 rappresentano il 21,3% degli abitanti, in netto aumento rispetto al 17,1% del 2013. Questo trend, sebbene meno pronunciato rispetto alla media italiana del 24,3%, pone sfide importanti in termini di servizi sanitari, assistenziali e produttivi.

Come ricorda lo stesso Comune di Sanza nel suo post: “C’è da preoccuparsi? Sì. Basti pensare che a livello nazionale, il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due del 2021 a circa uno a uno nel 2050. Sul territorio – ricorda l’amministrazione locale – entro 10 anni in quattro Comuni su cinque è atteso un calo di popolazione, in nove su 10 nel caso di Comuni di zone rurali”.

Mitologie a parte, una cosa su cui l’essere umano non può incidere in nessun modo è il sesso del nascituro. L’appello del Comune di Sanza (“fate figli e che siano femmine”) è uno di quei tipici casi da meme “Fa ridere, ma fa anche riflettere”, dal momento che nasce da una concreta preoccupazione dell’amministrazione comunale.

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La salute mentale dei dottorandi è a rischio: +40% di...

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“Lo studio è la migliore previdenza per la vecchiaia”, scriveva il filosofo greco Aristotele. Purché non si trasformi in un lavoro opprimente, potremmo aggiungere nel 2024.

In questi giorni un’indagine condotta in Svezia ha dimostrato che la salute mentale dei dottorandi è a rischio. L’indagine, pubblicata su Nature, si inserisce nel dibattito sul mondo accademico, finito recentemente nel mirino per l’aumento dei casi di depressione e ansia.

Prima di approfondire è necessario chiarire il punto: dalle indagini è emerso che il dottorato peggiora la salute mentale dei dottorandi non per lo studio in sé, ma per le sue dinamiche lavorative e para lovorative. Studi precedenti, insieme a numerose testimonianze, avevano già dimostrato come gli studenti di dottorato possano subire una pressione enorme per pubblicare, ottenere finanziamenti e trovare lavoro in un contesto altamente competitivo.

Salute mentale dei dottorandi, lo studio svedese

L’analisi ha esaminato il tasso con cui gli studenti di dottorato in Svezia hanno ricevuto prescrizioni di farmaci psichiatrici e sono stati ricoverati per problemi di salute mentale. I dati hanno rivelato che, in media, più a lungo durano gli studi di dottorato, maggiore è la necessità di ricorrere a tali servizi. Al quinto anno di studi, la probabilità che i dottorandi necessitino di farmaci per la salute mentale aumenta del 40% rispetto all’anno precedente l’inizio del dottorato.

Secondo Wendy Ingram, fondatrice di Dragonfly Mental Health, un’organizzazione no-profit globale con sede a Bradenton, Florida, che si occupa di salute mentale nel mondo accademico, i problemi di salute mentale tra i dottorandi sono “sistemici e affliggono il mondo accademico da decenni”. Ingram sottolinea inoltre che “pochissimi studi hanno esaminato misure oggettive della salute mentale”, il che rende lo studio condotto in Svezia un contributo prezioso per affrontare un problema spesso sottovalutato.

Lo studio ha utilizzato dati amministrativi svedesi raccolti tra il 2006 e il 2017, tracciando oltre 20.000 studenti di dottorato prima e dopo l’inizio dei loro programmi. Questo ha permesso ai ricercatori di valutare l’effetto diretto degli studi di dottorato sulla salute mentale degli studenti, come spiegato da Eva Ranehill, economista comportamentale dell’Università di Göteborg e coautrice dello studio.

L’aumento dell’uso di farmaci psichiatrici

Una delle scoperte più significative riguarda l’aumento dell’uso di farmaci psichiatrici, come antidepressivi e sedativi, tra i dottorandi. Prima di iniziare il dottorato, gli studenti e le persone con un diploma di laurea magistrale usavano questi servizi con la stessa frequenza. Tuttavia, durante gli anni di studio, l’uso di tali farmaci tra i dottorandi è aumentato di anno in anno, raggiungendo il picco tra il quarto e il quinto anno, per poi diminuire nel sesto e settimo anno.

Le donne e le persone che avevano già fatto uso di farmaci psichiatrici prima di iniziare il dottorato risultavano essere le categorie più a rischio di ricevere nuove prescrizioni durante il percorso di studi. Analogamente è emerso che, sebbene all’inizio del dottorato i candidati facessero meno uso di servizi di salute mentale (psicoterapia e affini) rispetto alla popolazione generale, entro la fine degli studi i tassi erano sostanzialmente equivalenti.

L’ambiente accademico è più stressante di altri?

Si è detto che sono le dinamiche lavorative e para lavorative a incidere sulla salute mentale dei dottorandi. Per questo, gli autori dello studio si sono chiesti se anche altri ambiti professionali producono effetti analoghi.

Alcuni sondaggi suggeriscono che i livelli di ansia e depressione tra i dottorandi siano più alti rispetto alla popolazione generale, ma secondo Ranehill è ancora presto per stabilire se queste condizioni siano più comuni nei dottorandi rispetto a coloro che lavorano in settori con richieste simili. “In futuro, inizieremo ad affrontare i diversi esiti di salute mentale tra i vari settori lavorativi, analizzando ulteriormente il set di dati svedese”, ha spiegato.

Il carico di stress legato al dottorato varia significativamente a seconda del campo accademico. I dottorandi nelle scienze naturali hanno visto un aumento del 100% nell’uso di farmaci entro il quinto anno rispetto ai livelli pre-dottorato, mentre quelli nelle scienze umane e sociali hanno registrato aumenti rispettivamente del 40% e del 50%. Gli studenti di medicina, al contrario, non hanno mostrato un incremento significativo nell’uso di farmaci psichiatrici.

Le differenze tra le discipline potrebbero essere spiegate dalle diverse norme accademiche. “In alcuni settori, si è molto dipendenti dal proprio supervisore. In altri, si è più isolati”, ha dichiarato Ranehill. Alcuni mentori offrono un grande supporto, ma altri, purtroppo, contribuiscono a creare ambienti di lavoro tossici. Rituja Bisen, dottoranda al quinto anno in neurobiologia presso l’Università di Würzburg, in Germania, ha affermato che la pressione per ottenere finanziamenti e pubblicare articoli scientifici può essere schiacciante: “Devi generare dati il più rapidamente possibile, e la sensazione di competizione per i fondi e i posti di lavoro può essere molto forte, anche all’inizio del tuo dottorato”.

Con i dovuti distinguo, il meccanismo ricorda l’eziologia degli hikikomori, fenomeno nato in Giappone anche a causa di un contesto ultra competitivo che mette i cittadini sottopressione sin da piccoli.

Il supporto degli altri come chiave per affrontare lo stress

Bisen ha condiviso la sua esperienza personale, raccontando come sia riuscita a gestire lo stress grazie al sostegno ricevuto dal suo supervisore e dal dipartimento. Tuttavia, come si legge su Nature, non tutti i suoi colleghi hanno avuto la stessa fortuna: “Non importa quanto sia buono un laboratorio; se proviene da una cultura lavorativa tossica, non ne vale la pena a lungo termine”. Per affrontare lo stress, Bisen ha trovato un’importante valvola di sfogo in attività esterne, come il bouldering, che pratica insieme ad altri biologi: “Parliamo dello stress e ci sfoghiamo. È come un gruppo di supporto”.

Il tenore delle sue parole dimostra come il problema sia tanto sottaciuto quanto grave.

Organizzazioni come Dragonfly Mental Health stanno lavorando per migliorare la salute mentale nel mondo accademico. Fondata nel 2019, Dragonfly ha sviluppato programmi in 22 Paesi, rivolti a più di 50.000 accademici a diversi stadi della carriera. I programmi includono formazione basata su approcci scientificamente validati per migliorare la salute mentale, e i primi risultati saranno pubblicati nel 2026. L’auspicio è che siano diversi da quelli della ricerca condotta in Svezia.

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Pellicer (Ivi): “Sono cambiate le priorità per le coppie,...

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“Sono cambiate le priorità. In generale si è creato un contesto meno favorevole alla natalità. In Italia, come in Spagna, le coppie tendono a posticipare la genitorialità a causa di molteplici fattori socioeconomici. La donna ha fatto passi avanti in termini di empowerment, assumendosi responsabilità in ambito professionale che prima erano prerogativa maschile. La maternità non è più vista come una tappa obbligatoria, ma come una scelta consapevole. Ma questo, per la mancanza di un sostegno concreto da parte delle istituzioni, rende più difficile, per chi desidera avere figli, farlo in un’età biologicamente ottimale”. Così Antonio Pellicer, presidente e fondatore del Gruppo IVI e uno dei massimi esperti in Pma d’Europa, analizza con l’Adnkronos i fattori che incidono sull’attuale trend demografico.

Sono i numeri della procreazione medicalmente assistita a mostrare quanto sia cambiato il contesto. Dal 2010 a oggi, l’età media al parto delle donne italiane è salita da 31 a oltre 33 anni. In vent’anni è quasi raddoppiata la richiesta di trattamenti per la procreazione medicalmente assistita (pma) che ha fatto nascere più di 200mila bambini nel nostro Paese. Ma il Registro nazionale della pma mostra anche un dato preoccupante. L’età media delle donne che si sottopongono a cicli di pma è aumentata considerevolmente, passando dai 34 anni nel 2005 ai 37 anni nel 2022. Questo cambiamento si riflette anche nella crescente percentuale di donne sopra i 40 anni che accedono a tali trattamenti, che è passato, in due decenni, dal 20,7% al 34% nel 2022. Questo spostamento verso un’età più avanzata non è solo un dato statistico, ma lo specchio di un mutamento sociale più ampio.

“È avvenuto un cambiamento significativo nel modo in cui le nuove generazioni percepiscono la genitorialità – sottolinea il professor Pellicer – in passato, avere figli era spesso visto come un obbligo sociale, una tappa inevitabile della vita adulta. Oggi, invece, le giovani generazioni non sentono più questo peso e non desiderano essere forzate a fare questa scelta. La genitorialità è diventata una decisione consapevole e ponderata, che si colloca in un contesto di valori e condizioni di vita molto diverse rispetto al passato. Per favorire la genitorialità – suggerisce Pellicer – la società dovrebbe creare un contesto favorevole in cui la scelta di avere figli possa essere libera e supportata da politiche che garantiscano benessere e sicurezza per le famiglie. Le coppie che desiderano avere dei figli, nonostante tutto, sono tante, ma questa scelta è strettamente legata alla volontà di poter garantire ai propri figli un ambiente in cui possano crescere in condizioni di benessere. In questo contesto, il percorso di carriera e la realizzazione personale giocano un ruolo fondamentale.

“Infatti, al crescere dell’importanza della carriera e del valore della realizzazione personale non è corrisposto un adeguato sviluppo del welfare, di strumenti di supporto e di aiuto. Al termine degli studi universitari – spiega – le donne sono nel picco della fertilità, ma entrambi i partner sono all’inizio del percorso per raggiungere l’indipendenza e la stabilità economica, comprare casa è più difficile, e così passano gli anni. Il risultato è che le coppie spesso scelgono di avere figli in un momento che per loro sembra ideale, ma che biologicamente potrebbe risultare tardivo”. Nella nostra società il desiderio di un figlio si affaccia a più di trent’anni, ma “c’è un orologio biologico che nessuno può fermare – sottolinea Pellicer – In questo contesto, la medicina della riproduzione, pur non essendo sempre la soluzione, potrebbe aiutare a invertire la rotta. Le coppie, però, dovrebbero essere aiutate maggiormente nel loro percorso di cura dell’infertilità con migliore informazione”.

È importante, ad esempio sapere che “dopo i 36-37 anni, la qualità degli ovuli tende a peggiorare, rendendo più difficile il concepimento. La pma offre una soluzione quando l’età, o altri fattori biologici, riducono le possibilità di concepire naturalmente, ma la chiave è la consapevolezza. Congelare gli ovuli sani quando si hanno trent’anni permette di preservare la fertilità per il futuro. Mentre infatti la qualità degli ovuli diminuisce con l’età, la capacità dell’utero di portare avanti una gravidanza si mantiene fino ai 45-48 anni. Con la pma, inoltre, è possibile selezionare gli ovuli migliori e gli embrioni sani, per aumentare le possibilità di successo, e ridurre i tempi per ottenere una gravidanza. Fino ai 38 anni, con le tecniche di fecondazione si ottengono il 50% di embrioni sani, a 42 anni, solo il 30% si può impiantare, il 70% infatti non sono sani, ma a 44 anni la percentuale di embrioni utili si riduce al 10%. Questo è l’orologio biologico”.

Nel caso in cui la qualità degli ovuli di una aspirante madre non fossero di buona qualità o fossero falliti ti i tentativi precedenti, è possibile ricorrere alla pma eterologa che prevede l’impiego di ovuli donati da una donna esterna alla coppia. “In questo caso – evidenzia Pellicer – la percentuale di successo diventa superiore al 90% se si utilizzano almeno 3 embrioni, offrendo a molte coppie la possibilità di realizzare il sogno di avere un figlio”. Un’altra cosa che può fare la pma è accorciare i tempi per il concepimento. “Ogni mese, la probabilità di una coppia, all’apice della fertilità, quindi tra i 23 e 25 anni, di avere un figlio naturalmente, è intorno al 22%, ma intensificandosi rapporti, aumenta la probabilità di avere una gravidanza. Nel caso della Pma, la gravidanza inizia proprio nel momento in cui l’embrione è posto in utero con una probabilità del 65%. Per arrivare al 90% sono necessari 3 embrioni: se infatti il primo tentativo non va a buon fine, si può provare il mese successivo e, nell’altro. Arriviamo addirittura al 98% con 5 embrioni”.

Attenzione, però. “Dobbiamo essere onesti – avverte Pellicer – Nonostante i progressi della medicina riproduttiva, è sempre meglio cercare di avere figli prima dei 37 anni, quando la fertilità è ancora alta. La Pma non può sostituire l’importanza di incentivare la ricerca di un figlio in età più giovane. Anche nei Paesi più avanzati nel campo della Pma, come Danimarca e Spagna – precisa il professore – solo il 10-11% dei bambini nasce grazie a queste tecniche. In Italia siamo introno al 4%. In ogni caso, il 90% e oltre dei nuovi nati arrivano da gravidanze naturali. Questo significa che il supporto alla natalità deve essere integrato da politiche sociali e culturali solide – non bonus una tantum ma servizi e sgravi fiscali – che incoraggino le coppie a diventare genitori quando hanno un’età biologicamente più favorevole”.

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La denatalità traccia il futuro delle pensioni: ecco come...

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Andare in pensione sarà sempre più difficile, soprattutto per chi vuole lasciare il lavoro prima dei 67 anni. In compenso, il governo sta lavorando a degli incentivi per chi resta al lavoro anche dopo l’età pensionabile.

Le indiscrezioni che arrivano dai lavori della Manovra sono dolorose, ma del tutto preventivate. D’altronde, solo pochi giorni fa l’Istat ha lanciato l’allarme sulle troppe pensioni anticipate in Italia. Così tante che mediamente si va in pensione a 64,2 anni e non a 67. Un gap che il Paese non può permettersi con questa crisi demografica.

Ancor meno fattibile, e già esclusa, l’ipotesi proposta dalla Lega di introdurre Quota 41, ovvero la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. A inizio anno il sottosegretario all’Economia Claudio Durigon aveva rilanciato questo canale di uscita anticipata dal lavoro, ma non si farà perché il sistema pensionistico è già in grave affanno. Non sarà inserita in Manovra neanche la versione light di Quota 41 che prevede il calcolo contributivo dell’intero assegno, esclusa a causa dei costi troppo elevati.

Stretta sulle pensioni anticipate

Dovrebbero essere prorogati i tre canali di pensionamento già esistenti e in scadenza il 31 dicembre:

Quota 103: 41 anni di contributi e 62 anni d’età;
Opzione Donna: che è stata spostata in avanti con la Manovra 2024 (a 61 anni e non più 60 senza figli; a 60 anni e non più 59 con un figlio; a 59 anni e non più 58 con due o più figli);
Ape Sociale: già rivista aumentando di 5 mesi il requisito anagrafico per l’uscita anticipata, che passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.

Resteranno in vigore anche le restrizioni introdotte lo scorso anno, come il calcolo contributivo per Quota 103 e il tetto all’importo dell’assegno fino al compimento dei 67 anni.

La decisione di non introdurre nuove forme di pensionamento anticipato riflette la volontà (necessità) del governo di puntare su un prolungamento dell’età lavorativa, cercando di tenere a galla il sistema previdenziale.

Nelle scorse settimane, il ministro Giorgetti ha messo sul tavolo l’ipotesi di prolungare le finestre per l’accesso alla pensione anticipata dagli attuali 3 mesi fino a 6 o 7 mesi per chi intende uscire dal lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne 41) e indipendentemente dall’età anagrafica.

Le “finestre” sono un periodo di attesa obbligatorio, il tempo che una persona deve aspettare dopo aver maturato i requisiti necessari (in questo caso l’anzianità contributiva) prima di poter effettivamente andare in pensione.

Se la proposta diventasse realtà, l’età effettiva a cui si può andare in pensione verrebbe posticipata a 43 anni e 5 mesi per gli uomini e 42 anni e 5 mesi per le donne.

In questo senso è già intervenuto il ministro Giorgetti con la stretta sulle pensioni anticipate dato che già da quest’anno sono state allungate le finestre per Quota 103 (da 3 a 7 mesi nel caso dei lavoratori del privato e da 6 a 9 per quelli del pubblico). Per il 2025, l’ipotesi del ministro è estendere il prolungamento delle finestre alle pensioni anticipate ordinarie.

Età lavorativa e cambiamenti in arrivo

Il Piano Strutturale di Bilancio (Psb), che il governo invierà a Bruxelles, prevede un possibile innalzamento dell’età pensionabile per i lavoratori pubblici. Attualmente, questi devono andare in pensione a 67 anni, ma potrebbe essere introdotta la possibilità di continuare a lavorare su base volontaria fino a 70 anni. L’ipotesi è già stata rilanciata dal ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo che ha aperto. Il provvedimento mira a tamponare la perdita di quasi un milione di dipendenti prevista entro il 2030, a causa di pensionamenti previsti e del blocco del turnover attuato tra il 2010 e il 2020, che ha ridotto l’organico di circa 300.000 unità.

Anche per i lavoratori del settore privato sono allo studio incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro, con l’obiettivo di allungare il periodo di contribuzione e ridurre la pressione sulle casse previdenziali.

Perequazione delle pensioni

Una piccola nota positiva potrebbe riguardare la perequazione delle pensioni, ovvero l’adeguamento degli assegni all’inflazione. Attualmente, il sistema prevede una rivalutazione meno generosa per gli assegni superiori a quattro volte il minimo (circa 2.459 euro lordi al mese). Con la manovra del 2023, il governo ha tagliato l’indicizzazione per questi assegni, risparmiando circa 10 miliardi nel triennio e 36 miliardi fino al 2032.

L’attuale meccanismo scadrà il 31 dicembre 2024. Senza interventi, si tornerebbe a un sistema più generoso con rivalutazioni del 100% fino a quattro volte il minimo, del 90% tra quattro e cinque volte, e del 75% per gli importi superiori. Tuttavia, anche se il governo decidesse di migliorare la perequazione, gli aumenti sarebbero minimi, poiché l’inflazione è scesa dall’8% del 2022 all’1,5%.

C’è però il rischio che, se dovessero essere approvate misure che aumentano la spesa, come la maggiorazione delle pensioni minime, il Tesoro potrebbe richiedere di coprire questi costi riducendo proprio la perequazione.

Il nodo delle pensioni anticipate

Uno dei punti centrali del dibattito è il numero elevato di pensionamenti anticipati rispetto all’età legale di 67 anni, la più alta in Europa insieme a quella della Grecia. Il recente rapporto annuale dell’Inps ha lanciato un allarme: le pensioni anticipate assorbono ormai la metà della spesa pensionistica e rischiano di compromettere l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale nel medio-lungo periodo.

Nel 2023, l’Istituto di previdenza ha chiesto oltre 10 miliardi di euro di fondi pubblici per pagare gli assegni, e la cifra è destinata ad aumentare nei prossimi anni.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha più volte sottolineato che la combinazione tra il declino demografico e il numero elevato di pensioni anticipate rende urgente una revisione delle politiche previdenziali.

Tutti gli elementi tratti in questo articolo riguardano la Manovra 2025, in attesa di una agognata riforma delle pensioni. Sul punto, Giorgetti è stato laconico: “Con questa denatalità, nessuna riforma delle pensioni terrebbe”.

Previdenza integrativa, torna il silenzio-assenso?

Laddove non arriva il pubblico, deve arrivare il privato.
Per questo, un altro fronte su cui il governo sta lavorando è quello della previdenza integrativa. La ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha proposto di aprire un nuovo periodo di silenzio-assenso per destinare automaticamente il Tfr ai fondi pensione di categoria. Questo meccanismo, già utilizzato in passato, permetterebbe di far confluire il trattamento di fine rapporto nei fondi pensione se il lavoratore non esprime esplicitamente la propria contrarietà entro sei mesi dall’avvio del periodo.

La previdenza integrativa potrebbe diventare una risorsa importante per chi desidera andare in pensione anticipatamente. Il Psb prevede che l’adesione ai fondi pensione sarà sempre volontaria, ma chi vi aderisce potrebbe utilizzare i contributi accumulati per raggiungere la soglia di pensionamento anticipato a 64 anni, a condizione che l’importo raggiunto sia pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale (circa 1.500 euro al mese).

La diffusione delle pensioni private sarebbe incentivata da una basilare educazione finanziaria, su cui l’Italia ha un gap enorme con gli altri Paesi Ue. In questo senso, serve replicare l’esempio (sostenuto dal Ddl capitali) di alcuni comuni che hanno deciso di introdurre l’educazione finanziaria a scuola. Bisogna attivare diversi canali per evitare che la crisi demografica azzeri le speranze di una generazione senza colpe, ma con tanti debiti.

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