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Sylvie Lubamba torna protagonista a Striscia la Notizia: satira, bellezza e ironia

Ritorno da protagonista per Sylvie Lubamba, la celebre showgirl, modella e attrice italiana. Dopo aver preso parte a diversi programmi di successo, come La Talpa, Lucignolo e Pomeriggio Cinque, la giunonica toscana è entrata a far parte della famiglia di Striscia La Notizia. È apparsa, infatti, nel servizio di Dario Ballantini in onda su Canale 5 lo scorso 30 settembre.

Nei panni di Vanna Tuttapanna, l’imitazione irriverente del generale Roberto Vannacci, Ballantini ha voluto al suo fianco Sylvie come personale ‘disturbatrice’. “Il generale ascolta sempre quello che dicono le donne” è stata una delle frasi canzonatorie pronunciate da Lubamba, intervenuta nel bel mezzo di uno scambio di opinioni tra l’imitatore e il Senatore del Partito Democratico Nicola Irto.

Affascinata, ma neanche troppo, dalla ‘mimetica’ di Vanna Tuttapanna, Sylvie ha poi puntualizzato all’uomo che “se continua a dire nero, ce la fanno nero prima o poi”.

Sketch divertenti e pungenti, con una buona dose di satira politica che non guasta mai, messi in luce dalla bellezza di Sylvie Lubamba, che ancora una volta ha saputo fare centro con la sua intelligenza ed ironia. D’altronde, “che sola ‘sto generale”, ha detto a fine servizio l’attrice, senza mascherare minimamente il suo pensiero.

Lo stesso che potrà approfondire nei prossimi appuntamenti di Striscia la Notizia, perché la vedremo ancora! Sempre su Canale 5, sempre a Striscia.

Sbircia la Notizia Magazine è una testata giornalistica di informazione online a 360 gradi, sempre a portata di click! Per info, segnalazioni e collaborazioni, contattaci scrivendo a info@sbircialanotizia.it

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Spettacolo

‘Songs Of A Lost World’ è un ode al mondo...

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Il primo novembre esce il nuovo album della band britannica tra intro lunghissime, sonorità inquiete e malinconia

La copertina di 'Songs Of A Lost World' dei Cure

"To wish impossibile things" cantavano i The Cure qualche anno fa. Desiderare cose impossibili oggi è ascoltare 'Songs Of A Lost World', il nuovo disco della band di Robert Smith, in uscita il primo novembre prossimo, che arriva a ben 16 anni dall’ultimo lavoro in studio. La domanda non è se il gruppo britannico sia ancora rilevante. Rilevante lo è di certo. Lo confermano 46 anni di successi, oltre 30 milioni di dischi venduti e l’influenza che hanno avuto, non solo musicalmente ma anche sul costume di generazioni di fan. La domanda è se abbiano ancora qualcosa da dire. Di sicuro 'Songs of a Lost World' non è un lavoro pigro o di maniera ma l’album, registrato ai Rockfield Studios in Galles, arriva in un momento particolare per il frontman, che ha da poco perso entrambi i genitori e il fratello e i brani sono, inevitabilmente, influenzati dai lutti che ha affrontato negli ultimi anni.

'Songs Of A Lost World' non è un'appendice del precedente lavoro '4:13 Dream'. Qui i Cure tornano alle tipiche sonorità caratterizzate da inquietudine e malinconia, riproposte in forma più adulta. E' un album che suona in modo sofferto e nostalgico, non certo una novità per l'universo sonoro dipinto dai Cure durante la loro carriera, ma che si colora di sfumature cupe e più austere, con chitarre, batteria e tastiere sempre in evidenza. Del resto, di strada ne ha fatta la band guidata dalla carismatica anti rockstar Smith, dagli albori post punk fino al suono dark wave che ancora oggi li rende inconfondibili. Le intro lunghissime caratterizzano quasi tutti gli 8 brani dell’album (‘Alone’, ‘And Nothing Is Forever’, 'A Fragile Thing’, ‘Warsong’, ‘Drone:Nodrone’, ‘I Can Never Say Goodbye’, ‘All I Ever Am’ ed ‘Endsong’), e ci vuole un po’ di tempo prima che la voce di Smith arrivi a sovrastare la montagna di basso, batteria e synth, come l'atmosferica ouverture di 'Alone', la traccia che apre l’album o quella che lo chiude, 'Endsong', connesse sia nei testi sia nelle atmosfere.

Le canzoni si allungano, toccando anche picchi tra i 7 e i 10 minuti di durata, contro ogni logica delle moderne piattaforme streaming o di TikTok. Alcuni dei brani della tracklist non sono una novità per i fan. La band li ha in scaletta dal vivo già da due anni nel loro tour 'Shows of a Lost World', che ha totalizzato oltre 1 milione e 300mila spettatori. Ma di certo la ballata che apre il disco, per i fan della band britannica è una coperta calda con le sue sonorità che si snodano su basso distorto, giochi di chitarra e synth. Se cercate paragoni con il passato, non c’è dubbio che la struttura di ‘Alone’, con i suoi 7 minuti di lunghezza e l’intro strumentale, faccia venire in mente ‘Plainsong’, l’opener dell’album capolavoro dei Cure, ‘Disintegration’ del 1989. Ma nel disco si sente anche l’eco funereo e intimista di ‘Faith’, che risentiva della malattia della madre dell’ex batterista Lol Tohlrust.

In ‘Alone’, quando la voce di Smith appare, dopo oltre 3 minuti dall’inizio del brano, riecheggiano le parole di Ernest Dowson, poeta inglese dell’800 e della sua 'Dregs', che esplora i temi della perdita e del passare del tempo. “This is the end of every song that we sing” (Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo) dice Robert Smith nella prima strofa. A 65 anni, il cantante si interroga su “tutto l’amore che sta scomparendo dalle nostre vite”, evocando “uccelli che cadono dal cielo”, e l’idea che tutto, prima o poi, possa finire. Un’immagine molto diversa da quella che apriva ‘Pornography’ nel 1982: ‘Non importa se moriamo tutti’. Il tempo per i Cure è passato e ha lasciato il segno. ‘Alone’ è probabilmente la canzone che racchiude l’essenza dell’album. Ed è facile capirne il perché. Ma anche ‘And Nothing Is Forever’ non è da meno. Aperta dalle note di tastiera è una canzone struggente nella quale Smith ci ricorda quanto, universalmente, tutti dobbiamo fare i conti con il tempo che cambia noi e il mondo.

In tutto il disco i tappeti sonori e gli arpeggi classici di chitarra, la firma dei Cure, sono accompagnati da testi introspettivi con qualche accenno più ritmato e rockeggiante come l’assolo di chitarra in ‘A Fragile Thing’. Non si trova allegria o gioia in questi pezzi ma riflessioni sulla morte, sul passare del tempo, sulla perdita delle persone amate. Come ‘And Nothing Is Forever’ o la sfuriata autenticamente rock di ‘Drone:Nodrone’, che il cantante ha scritto quando, mentre passeggiava nel retro di casa sua, è stato infastidito da un drone con la telecamera che gli ha ricordato della natura intrusiva e sorvegliata del mondo moderno. La granitica ‘Warsong’, invece, nella versione originale parlava di una persona con la quale Smith ha litigato e fatto pace più volte nel corso degli anni e racchiude una riflessione su quello che avviene su scala più grande con le guerre. I Cure sono profeti nel descrivere il dolore universale, l’angoscia e il tempo che scorre inesorabile modellando le nostre vite.

Anche in ‘All I Ever Am’ il tempo passa ma in maniera molto più astratta. Qui Smith parla di quanto sia difficile per lui essere presente nel momento, dell’io che resta sempre sé stesso nel tempo, il ragazzino che era 40 anni fa e l’uomo che è oggi, racchiusi nella stessa persona. La grandezza dei Cure è custodita in brani in cui la band tocca corde molto profonde, come ‘Endsong’, la ballata alla quale è affidata la chiusura del disco e che racchiude lo stesso senso di solitudine e disperazione cantati in proprio in ‘Alone’. Sicuramente ‘Songs Of A Lost World’ tiene insieme in modo lineare otto canzoni dalla lunghezza insolita e ritmi cantilenanti. E’ un disco equilibrato, con brani che non sfigurano se rapportati ai grandi successi del passato. Senza scivolare nella disperazione più totale permette di guardare da vicino, e forse a comprendere a fondo, la maturità raggiunta oggi da Smith e compagni. (di Federica Mochi)

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Spettacolo

Tutte le news esclusive scoperte per voi a Daytona

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Grazie al nostro lungo viaggio americano negli anni ’90, abbiamo scoperto tantissime curiosità super esclusive. Ad esempio, a marzo 2025 ci sarà a Daytona un nuovo super incontro tutto dedicato a Beverly Hills 90210, stavolta con la partecipazione di Jason Priestley, assente in passato perché impegnato su un set, e Tori Spelling, mancata all’ultimo per il suo impegno come concorrente a Dancing with the Stars (il Ballando con le stelle Made in USA).

Sapevate che Grant Show, star del nuovo Dynasty e soprattutto di Melrose Place, ha amici a Napoli e non vede l’ora di tornarci? Invece, Heather Locklear, che nel primo Dynasty era Sammy Jo e poi iconica Amanda in Melrose Place, non compariva in pubblico da tre anni a causa di varie vicende personali.

Una curiosità su Melissa Joan Hart, il volto di Sabrina, vita da strega: l’attrice ha condiviso l’evento con Joey Lawrence, suo collega nella sit-com Melissa & Joey, ma hanno praticamente fatto tutto da separati. Inoltre, a differenza di Melissa, Joey Lawrence, a meno di 50 anni, è quasi irriconoscibile!

Grande entusiasmo ha suscitato Jaleel White: il suo Steve Urkel di Otto sotto un tetto è davvero ben impresso nella memoria di tutti. Abbiamo scoperto che il personaggio doveva durare una sola puntata, per poi trasformarsi nel protagonista assoluto della sit-com. E per questo motivo, il resto del cast non gli rivolgeva la parola (per invidia?) a parte le scene del copione da girare per contratto!

A proposito di Settimo Cielo: la matriarca è invecchiata molto, mentre Beverley Mitchell, cioè Lucy, a 43 anni, è praticamente uguale a com’era allora.

Infine, Daphne Zuniga, la Jo di Melrose Place e volto anche di One Tree Hill, ha partecipato pure a una reunion di quest’ultima serie. Proprio come Melrose Place, sembra che anche One Tree Hill avrà un seguito atteso con ansia dai fan.

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Cultura

L’evoluzione dei graffiti nell’arte: intervista a Nico...

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Nico “Lopez” Bruchi è un artista poliedrico: pittore, fotografo, video-maker ed attivista sociale, incarna l’arte nella sua totalità. La sua passione per la creatività si manifesta in ogni campo in cui si esprime.

Nato a Volterra, in una famiglia di creativi, “Lopez” si è immerso fin da giovane nelle subculture urbane come lo skateboard e la street art, che hanno profondamente influenzato il suo percorso artistico e di cui, ed in breve tempo, è diventato uno dei punti di riferimento più importanti.

Oggi ricopre il ruolo di direttore artistico della EDFcrew, un ambizioso progetto di arte sociale che si dedica alla riqualificazione urbana. Con questo collettivo, Bruchi realizza decine di interventi artistici all’anno, trasformando spazi trascurati in opere d’arte, e continua a lavorare come direttore creativo su scala internazionale, collaborando a progetti innovativi che uniscono arte, design e impegno sociale. Lo incontriamo per parlare di urban art.

Cosa sono i graffiti per te?

Sono la più antica e necessaria espressione e affermazione dell’esistenza umana. Nascono nella preistoria e sono antecedenti alla scrittura. Sono cambiati i modi, ma non abbiamo mai smesso di farne, quindi si può dire che siano la più primordiale forma espressiva che abbiamo. Sono da sempre anche una forma di appropriazione di spazi e concetti, per questo motivo sono stati spesso generati in occasione di ribellione di manifestazioni di dissenso, con desiderio d’imponenza, d’invasione di spazi pubblici per autoproclamare sovversivi messaggi alla popolazione. Sono stati vera e propria pubblicità, decorazione, espressione di potenza e ricchezza (affreschi nelle ville), raffigurazione del divino (affreschi nelle chiese).

Per me, però, tutto nasce con i graffiti di Fernando Oreste Nannetti, meglio noto come NOF4, uno degli ospiti del manicomio di Volterra che, durante gli anni di reclusione, incise con le fibbie delle cinture tutte le mura esterne del padiglione manicomiali, creando un vero e proprio diario della sua mente. Considerato un capolavoro dell’Art Brut, il graffito di Nannetti, nella sua cripticità, riportava autoaffermazioni della sua esistenza e personali definizioni del proprio essere, tra le più leggibili, si distingueva questa: “…io sono un astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale. Questa è la mia chiave mineraria. Sono anche un colonnello dell’astronautica astrale e terrestre.”

Crescere circondato da un’opera così potente ti lascia un segno profondo. La prima volta che scrissi su un muro avevo circa 7 anni, usando un pezzo di alabastro che un artigiano lasciava fuori dalla sua bottega per farci disegnare. Anni dopo, intorno ai 14, scoprii i graffiti “a bomboletta”, come i chiamo io. Praticando skateboard da rollerblading ero spesso negli skatepark ed inevitabilmente inciampai in alcuni writers milanesi e svizzeri. Rimasi affascinato e qualche anno più tardi cominciai dilettarmi nell’uso degli spray.

Vivendo a Volterra, con le sue antiche mura vincolate come beni storici, per evitare denunce iniziai a sperimentare coi graffiti nell’ex manicomio abbandonato. Passavo le giornate da solo a esercitarmi con gli spray. Quel luogo divenne il centro dei graffiti a Volterra, e per rispetto di NOF4, mi sono sempre impegnato a proteggere il suo lavoro, raccontando la sua storia agli artisti e invitandoli a dipingere altrove.

Come hai incontrato la EDFcrew?

Un giorno, un amico (Daniele Orlandi a.k.a. Umberto Staila) mi invitò a una jam di graffiti a Pontedera, dove parteciparono artisti da tutta Italia. Fu stupendo e a fine evento, lui e il suo socio (Niccolò Giannini a.k.a. Joke) mi proposero di entrare nella loro crew, la EDFcrew. Da quel momento, la mia vita cambiò e la crew divenne la mia priorità. Oggi, 20 anni dopo, sono il direttore artistico della EDFcrew, composta da sei artisti e molte figure professionali. I graffiti, da mezzo per esplorarmi e affermarmi, si sono trasformati in uno strumento di creatività sociale e comunitaria, diventando il motore della mia rivoluzione personale.

I graffiti e le opere d’arte urbana hanno attraversato un incredibile viaggio culturale, trasformandosi da attività clandestina a fenomeno celebrato ed integrato nella società contemporanea. 

Nel corso degli anni, i graffiti hanno subito una straordinaria trasformazione culturale, passando dall’essere una forma clandestina di espressione ad un fenomeno celebrato ed integrato nella società. Artisti come me hanno contribuito a questo cambiamento, trasformando i graffiti in opere d’arte che suscitano riflessioni e dialoghi. Si è verificata una separazione tra il ‘Writing’ puro, che si basa sull’auto-affermazione egotica attraverso la scrittura del proprio nome, e i graffitisti figurativi che desideravano esprimersi senza i rischi del Writing clandestino.

Gli artisti figurativi, partendo dal concetto di graffiti “Puppet”, hanno evoluto il loro stile, dedicando più tempo alla creazione rispetto ai rapidi interventi clandestini sui treni. Con il tempo, i graffiti si sono spostati in spazi legali, più adatti alla realizzazione di opere complesse e decifrabili anche da chi non appartiene alle Street Cultures. Molti artisti hanno partecipato a jam su muri concessi dalle istituzioni, portando all’integrazione dei graffiti nell’ambiente urbano e alla nascita di movimenti come la Street Art e il muralismo. Grazie a internet, i graffiti hanno raggiunto una diffusione globale, entrando anche nei musei e nel mercato dell’arte. 

E cosa succederà alle città invase dai murales, quando questi inevitabilmente si deterioreranno?

I murales che contengono un forte valore concettuale ed estetico rimarranno nei ricordi di chi li ha vissuti. Le città si evolvono costantemente, e i murales deteriorati potranno aggiungere un fascino ‘neorealista’ a certi quartieri, o essere restaurati o sostituiti. La natura effimera del muralismo lo rende affascinante: alcune persone potrebbero stancarsi, ma altri continueranno a trovare ispirazione nella loro bellezza, proprio come accade per le grandi opere d’arte.

Noi della EDFcrew ci impegniamo a creare arte sociale, coinvolgendo le comunità nei processi creativi e producendo murales che portano la loro voce. Chiudo dicendo che per molti (e mi metto anch’io tra questi) questa forma d’arte non è che l’inizio di un percorso artistico che poi, col tempo, prende nuove strade contemporanee dell’arte.

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