Sydney Sibilia: “La mia serie sugli 883 è un’istantanea di cose vissute”
Oggi esce ‘Hanno ucciso l’Uomo Ragno’: un racconto di sogni e sentimenti ambientato negli anni 90
Ci sono sogni condivisi con l’amico di sempre. E quegli stessi sogni possono diventare canzoni - intramontabili - che sanno raccontare intere generazioni: come quelle di Max Pezzali e Mauro Repetto, per tutti gli 883. Questi due ragazzi di Pavia, tra illusioni, delusioni, coraggio e passione, si sono conquistati un posto nell’Olimpo della musica ma anche nei cuori dei tanti, anzi tantissimi, fan. A raccontarli è Sydney Sibilia nella serie Sky Original ‘Hanno ucciso l’Uomo Ragno’, da oggi, 11 ottobre su Sky e in streaming su Now. "Questa storia è un’istantanea di cose vissute", dice Sibilia nell’intervista all’Adnkronos. "Non volevamo fare un’operazione vintage, ma portare sullo schermo una storia è ambientata negli Anni 90 che parla sogni e sentimenti che è il motore di qualsiasi generazione, anche di quella attuale”, spiega il regista di ‘Mixed by Erry’ che ha una speranza, e non è l’unico ad averla: "Spero in una reunion degli 883. Attraverso questa serie, nel nostro piccolo, lo abbiamo fatto. Qui si parla di amicizia e penso che quando tra due persone ci sia un legame profondo è difficile che si separino davvero”.
La serie è ambientata a Pavia, alla fine degli Anni 80. Max ama i fumetti e la musica americana. È un anticonformista in una città dove non c’è nulla a cui ribellarsi. In più, dopo aver trascurato il liceo per seguire nuove amicizie e serate punk, arriva inevitabilmente la bocciatura. Questo fallimento si rivela in realtà una nuova, fatale opportunità: nel liceo dove si trasferisce ha un nuovo compagno di banco, Mauro. La musica rende Max e Mauro inseparabili. Grazie alla forza trascinante di Mauro, Max abbraccia il suo talento e insieme a lui compone le prime canzoni che verranno poi prodotte da Claudio Cecchetto. "Un ragazzo di oggi può immedesimarsi nella loro storia", dice Elia Nuzzolo, che interpreta Max Pezzali. Ne è convinto anche Matteo Oscar Giuggioli, qui nel ruolo di Mauro Repetto: "Il tempo passa, oggi ci si annoia meno e le cose corrono più velocemente, ma i sentimenti che provano Max e Mauro sono gli stessi che provo io e quelli della mia generazione".
I due attori si sono rivisti nei personaggi che interpretano. "Quando sogni una cosa fai di tutto per cercare di raggiungerla, ed è un aspetto che appartiene a me e a tutti i ragazzi della mia età", spiega Elia. Ma anche "il non sentirsi mai abbastanza. Quell’insicurezza lì è sana perché ti dà la benzina per studiare e migliorare", aggiunge Matteo. Quello che si racconta nella serie "riguarda anche me - dice il regista di ‘Smetto quando voglio’, nato a Salerno. "Io volevo fare il regista in un posto in cui non c’erano tanti registi. Credo che quando pensi di non essere destinato ad una cosa con un po’ di voglia, un paio di amici e una sana dose di faccia come il culo quello che desideri accade”, dichiara Sibilia.
Le canzoni degli 883 nascono dalla provincia, dai sogni, dai momenti di ribellione, dalle prime volte, dalle prime pulsioni e dalla difficoltà di crescere. Emozioni messe nero su bianco da cantare a squarciagola insieme agli amici di sempre, sudati e appiccicati. Ma felici. Il tempo passa ma sono ancora qui perché "sono sincere - dichiara il regista de 'L’incredibile storia dell’Isola delle Rose' - e, soprattutto nel mondo della musica, solo i prodotti estremamente sinceri superano la prova del tempo”.
Per Sydney "gli 883 in qualche modo segnano uno spartiacque, perché all'inizio degli Anni 90 i cantanti erano tutti fighi, se soffrivano lo facevano per amore. Invece loro - prosegue - sono due ragazzi che cantano ‘andiamo in centro a fare un giro a piedi a guardare le ragazze degli altri’ (‘Weekend’ del 1993). E il 99% della popolazione era come loro. Quindi - conclude - questa sincerità estrema rimane nel tempo, diventando una pietra miliare. Ed è il motivo per cui hanno avuto un successo enorme all'epoca e ce l'hanno ancora oggi". (di Lucrezia Leombruni)
Spettacolo
‘Songs Of A Lost World’ è un ode al mondo...
Il primo novembre esce il nuovo album della band britannica tra intro lunghissime, sonorità inquiete e malinconia
"To wish impossibile things" cantavano i The Cure qualche anno fa. Desiderare cose impossibili oggi è ascoltare 'Songs Of A Lost World', il nuovo disco della band di Robert Smith, in uscita il primo novembre prossimo, che arriva a ben 16 anni dall’ultimo lavoro in studio. La domanda non è se il gruppo britannico sia ancora rilevante. Rilevante lo è di certo. Lo confermano 46 anni di successi, oltre 30 milioni di dischi venduti e l’influenza che hanno avuto, non solo musicalmente ma anche sul costume di generazioni di fan. La domanda è se abbiano ancora qualcosa da dire. Di sicuro 'Songs of a Lost World' non è un lavoro pigro o di maniera ma l’album, registrato ai Rockfield Studios in Galles, arriva in un momento particolare per il frontman, che ha da poco perso entrambi i genitori e il fratello e i brani sono, inevitabilmente, influenzati dai lutti che ha affrontato negli ultimi anni.
'Songs Of A Lost World' non è un'appendice del precedente lavoro '4:13 Dream'. Qui i Cure tornano alle tipiche sonorità caratterizzate da inquietudine e malinconia, riproposte in forma più adulta. E' un album che suona in modo sofferto e nostalgico, non certo una novità per l'universo sonoro dipinto dai Cure durante la loro carriera, ma che si colora di sfumature cupe e più austere, con chitarre, batteria e tastiere sempre in evidenza. Del resto, di strada ne ha fatta la band guidata dalla carismatica anti rockstar Smith, dagli albori post punk fino al suono dark wave che ancora oggi li rende inconfondibili. Le intro lunghissime caratterizzano quasi tutti gli 8 brani dell’album (‘Alone’, ‘And Nothing Is Forever’, 'A Fragile Thing’, ‘Warsong’, ‘Drone:Nodrone’, ‘I Can Never Say Goodbye’, ‘All I Ever Am’ ed ‘Endsong’), e ci vuole un po’ di tempo prima che la voce di Smith arrivi a sovrastare la montagna di basso, batteria e synth, come l'atmosferica ouverture di 'Alone', la traccia che apre l’album o quella che lo chiude, 'Endsong', connesse sia nei testi sia nelle atmosfere.
Le canzoni si allungano, toccando anche picchi tra i 7 e i 10 minuti di durata, contro ogni logica delle moderne piattaforme streaming o di TikTok. Alcuni dei brani della tracklist non sono una novità per i fan. La band li ha in scaletta dal vivo già da due anni nel loro tour 'Shows of a Lost World', che ha totalizzato oltre 1 milione e 300mila spettatori. Ma di certo la ballata che apre il disco, per i fan della band britannica è una coperta calda con le sue sonorità che si snodano su basso distorto, giochi di chitarra e synth. Se cercate paragoni con il passato, non c’è dubbio che la struttura di ‘Alone’, con i suoi 7 minuti di lunghezza e l’intro strumentale, faccia venire in mente ‘Plainsong’, l’opener dell’album capolavoro dei Cure, ‘Disintegration’ del 1989. Ma nel disco si sente anche l’eco funereo e intimista di ‘Faith’, che risentiva della malattia della madre dell’ex batterista Lol Tohlrust.
In ‘Alone’, quando la voce di Smith appare, dopo oltre 3 minuti dall’inizio del brano, riecheggiano le parole di Ernest Dowson, poeta inglese dell’800 e della sua 'Dregs', che esplora i temi della perdita e del passare del tempo. “This is the end of every song that we sing” (Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo) dice Robert Smith nella prima strofa. A 65 anni, il cantante si interroga su “tutto l’amore che sta scomparendo dalle nostre vite”, evocando “uccelli che cadono dal cielo”, e l’idea che tutto, prima o poi, possa finire. Un’immagine molto diversa da quella che apriva ‘Pornography’ nel 1982: ‘Non importa se moriamo tutti’. Il tempo per i Cure è passato e ha lasciato il segno. ‘Alone’ è probabilmente la canzone che racchiude l’essenza dell’album. Ed è facile capirne il perché. Ma anche ‘And Nothing Is Forever’ non è da meno. Aperta dalle note di tastiera è una canzone struggente nella quale Smith ci ricorda quanto, universalmente, tutti dobbiamo fare i conti con il tempo che cambia noi e il mondo.
In tutto il disco i tappeti sonori e gli arpeggi classici di chitarra, la firma dei Cure, sono accompagnati da testi introspettivi con qualche accenno più ritmato e rockeggiante come l’assolo di chitarra in ‘A Fragile Thing’. Non si trova allegria o gioia in questi pezzi ma riflessioni sulla morte, sul passare del tempo, sulla perdita delle persone amate. Come ‘And Nothing Is Forever’ o la sfuriata autenticamente rock di ‘Drone:Nodrone’, che il cantante ha scritto quando, mentre passeggiava nel retro di casa sua, è stato infastidito da un drone con la telecamera che gli ha ricordato della natura intrusiva e sorvegliata del mondo moderno. La granitica ‘Warsong’, invece, nella versione originale parlava di una persona con la quale Smith ha litigato e fatto pace più volte nel corso degli anni e racchiude una riflessione su quello che avviene su scala più grande con le guerre. I Cure sono profeti nel descrivere il dolore universale, l’angoscia e il tempo che scorre inesorabile modellando le nostre vite.
Anche in ‘All I Ever Am’ il tempo passa ma in maniera molto più astratta. Qui Smith parla di quanto sia difficile per lui essere presente nel momento, dell’io che resta sempre sé stesso nel tempo, il ragazzino che era 40 anni fa e l’uomo che è oggi, racchiusi nella stessa persona. La grandezza dei Cure è custodita in brani in cui la band tocca corde molto profonde, come ‘Endsong’, la ballata alla quale è affidata la chiusura del disco e che racchiude lo stesso senso di solitudine e disperazione cantati in proprio in ‘Alone’. Sicuramente ‘Songs Of A Lost World’ tiene insieme in modo lineare otto canzoni dalla lunghezza insolita e ritmi cantilenanti. E’ un disco equilibrato, con brani che non sfigurano se rapportati ai grandi successi del passato. Senza scivolare nella disperazione più totale permette di guardare da vicino, e forse a comprendere a fondo, la maturità raggiunta oggi da Smith e compagni. (di Federica Mochi)
Spettacolo
Tutte le news esclusive scoperte per voi a Daytona
Grazie al nostro lungo viaggio americano negli anni ’90, abbiamo scoperto tantissime curiosità super esclusive. Ad esempio, a marzo 2025 ci sarà a Daytona un nuovo super incontro tutto dedicato a Beverly Hills 90210, stavolta con la partecipazione di Jason Priestley, assente in passato perché impegnato su un set, e Tori Spelling, mancata all’ultimo per il suo impegno come concorrente a Dancing with the Stars (il Ballando con le stelle Made in USA).
Sapevate che Grant Show, star del nuovo Dynasty e soprattutto di Melrose Place, ha amici a Napoli e non vede l’ora di tornarci? Invece, Heather Locklear, che nel primo Dynasty era Sammy Jo e poi iconica Amanda in Melrose Place, non compariva in pubblico da tre anni a causa di varie vicende personali.
Una curiosità su Melissa Joan Hart, il volto di Sabrina, vita da strega: l’attrice ha condiviso l’evento con Joey Lawrence, suo collega nella sit-com Melissa & Joey, ma hanno praticamente fatto tutto da separati. Inoltre, a differenza di Melissa, Joey Lawrence, a meno di 50 anni, è quasi irriconoscibile!
Grande entusiasmo ha suscitato Jaleel White: il suo Steve Urkel di Otto sotto un tetto è davvero ben impresso nella memoria di tutti. Abbiamo scoperto che il personaggio doveva durare una sola puntata, per poi trasformarsi nel protagonista assoluto della sit-com. E per questo motivo, il resto del cast non gli rivolgeva la parola (per invidia?) a parte le scene del copione da girare per contratto!
A proposito di Settimo Cielo: la matriarca è invecchiata molto, mentre Beverley Mitchell, cioè Lucy, a 43 anni, è praticamente uguale a com’era allora.
Infine, Daphne Zuniga, la Jo di Melrose Place e volto anche di One Tree Hill, ha partecipato pure a una reunion di quest’ultima serie. Proprio come Melrose Place, sembra che anche One Tree Hill avrà un seguito atteso con ansia dai fan.
Spettacolo
Sylvie Lubamba torna protagonista a Striscia la Notizia:...
Ritorno da protagonista per Sylvie Lubamba, la celebre showgirl, modella e attrice italiana. Dopo aver preso parte a diversi programmi di successo, come La Talpa, Lucignolo e Pomeriggio Cinque, la giunonica toscana è entrata a far parte della famiglia di Striscia La Notizia. È apparsa, infatti, nel servizio di Dario Ballantini in onda su Canale 5 lo scorso 30 settembre.
Nei panni di Vanna Tuttapanna, l’imitazione irriverente del generale Roberto Vannacci, Ballantini ha voluto al suo fianco Sylvie come personale ‘disturbatrice’. “Il generale ascolta sempre quello che dicono le donne” è stata una delle frasi canzonatorie pronunciate da Lubamba, intervenuta nel bel mezzo di uno scambio di opinioni tra l’imitatore e il Senatore del Partito Democratico Nicola Irto.
Affascinata, ma neanche troppo, dalla ‘mimetica’ di Vanna Tuttapanna, Sylvie ha poi puntualizzato all’uomo che “se continua a dire nero, ce la fanno nero prima o poi”.
Sketch divertenti e pungenti, con una buona dose di satira politica che non guasta mai, messi in luce dalla bellezza di Sylvie Lubamba, che ancora una volta ha saputo fare centro con la sua intelligenza ed ironia. D’altronde, “che sola ‘sto generale”, ha detto a fine servizio l’attrice, senza mascherare minimamente il suo pensiero.
Lo stesso che potrà approfondire nei prossimi appuntamenti di Striscia la Notizia, perché la vedremo ancora! Sempre su Canale 5, sempre a Striscia.