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“Toccare una persona senza il suo consenso non è violenza”: lo pensa un giovane su cinque

Per metà degli adolescenti la gelosia non è violenza e quasi uno su tre pensa che inviare messaggi insistentemente non sia stalking. Ma quando abbiamo iniziato a considerare la violenza come qualcosa di romantico?

Allo Step FuturAbility District a Milano, la Fondazione Libellula ha presentato la Survey Teen 2024, la nuova indagine condotta dall’impresa sociale nata con lo scopo di agire su un piano culturale per prevenire e contrastare la violenza di genere e ogni forma di discriminazione. Sono 1.592 gli adolescenti tra i 14 e i 19 anni che hanno partecipato al sondaggio e quello che è emerso è allarmante.

Dal grado di consapevolezza alla percezione delle dinamiche relazionali tra i più giovani: scopriamo cosa pensano della violenza e quale sia per loro il confine con l’amore.

Il consenso: una questione di percezione?

Per i giovani che hanno partecipato al sondaggio, non è considerata violenza:
Toccare una persona senza il suo consenso: lo pensa 1 adolescente su 5.
Baciare una persona senza il suo consenso, lo pensa 1 adolescente su 5.
Raccontare ad amici e amiche dettagli intimi del o della partner senza il suo consenso, lo pensa più di 1 adolescente su 4.

“Questi dati riflettono una percezione distorta della violenza di genere e del consenso per una buona parte di adolescenti. Il fatto che il 20-25% di loro non consideri comportamenti come il toccare, baciare o rivelare dettagli intimi senza consenso come violenza è preoccupante, poiché sono chiaramente atti invasivi e non rispettosi dell’integrità personale”, ha spiegato la Fondazione.

Questa visione della violenza è dovuta ad una diffusione della “rape culture”, “una pseudocultura che minimizza gli effetti dello stupro arrivando perfino a colpevolizzare le vittime, abbracciando l’idea che l’uomo sia strutturalmente un predatore e la donna una preda sessuale”.

Naturale conseguenza di questo fenomeno è il “victim blaming”: nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia da vittima diventa oggetto di indagine per l’abbigliamento indossato quando è successo il fatto, la strada percorsa, l’orario di uscita, il numero di partner sessuali avuti, tutte domande che trasferiscono sulla donna la responsabilità di quanto accaduto.

A dare l’esempio ai giovani, però, ci sono sempre gli adulti. Non meraviglia, perciò, che i dati dell’indagine Istat “Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza” (2018/2023), confermino questa visione: per il 40% degli uomini è colpa delle donne se vengono violentate; il 39,3% degli uomini è convinto che una donna sia in grado di sottrarsi, se davvero lo vuole, a un rapporto sessuale; il 19,7% degli uomini pensa che siano sempre le donne a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire, mentre il 10% ritiene che, se una donna dopo una festa accetta un invito e poi viene stuprata, è anche colpa sua. L’11% di uomini e donne ritiene che una donna ubriaca (o sotto effetto di droghe) sia in parte responsabile dello stupro; a pensare la stessa cosa è anche il 14,6% delle donne.

Ma quando abbiamo iniziato a considerare normale la violenza o addirittura a romanticizzarla?

“Romanticizzazione della violenza”

Un terzo del campione dei giovani adolescenti intervistati non riconosce come violenza al o alla partner:
dire quali vestiti può indossare e quali no.
impedire di accettare nuove amicizie online senza averne parlato prima.
chiedere di geolocalizzarsi quando si è fuori e voler sapere sempre con chi è.

A questo si aggiunge il 50% del campione secondo il quale la gelosia non è una forma di violenza. Ma ragazzi e ragazze la pensano allo stesso modo? Il 32% delle ragazze pensano che la gelosia sia il segnale che il o la partner ci tiene. Il 56% dei ragazzi è d’accordo che sia un’espressione dell’amore. Per circa il 40% del campione non è una forma di violenza:
• chiedere al o alla partner di condividere la password dei suoi profili social
controllare di nascosto il cellulare e i profili social altrui.

Per il 40% delle e degli adolescenti telefonare o inviare insistentemente messaggi a una persona che ti piace non è una forma di violenza. “Il fatto che oltre il 40% di chi ha risposto non consideri una forma di violenza il mandare insistentemente messaggi a chi piace – ha spiegato il professor Luca Milani, dell’Università Cattolica di Milano -, ci allerta su quanto anche tra gli e le adolescenti non venga tenuta in considerazione l’esperienza soggettiva di chi riceve i messaggi. Se infatti il comportamento di contatto prosegue anche in presenza di manifesto disagio da parte del/la ricevente (e in questo si può anche includere la assenza di reciprocità), si può configurare un comportamento chiaramente persecutorio, indipendentemente dalle intenzioni di chi invia il messaggio. È come se la “buona intenzione” venga considerata in qualche modo, da chi considera accettabile il comportamento persecutorio, una valida giustificazione per considerare queste azioni “meno gravi” e dunque percepite come assimilabili a una manifestazione di affetto”.

Il peso degli stereotipi

Perdere la testa dopo un tradimento e reagire con violenza o aggressività è comprensibile per 1 adolescente su 4. Una ragazza che picchia un ragazzo è meno grave del contrario per 1 adolescente su 4. Vedere diffuse pubblicamente le foto intime che hai inviato al o alla partner è anche colpa tua per quasi un adolescente su 3. Di questo ne sono più convinti i ragazzi (40%) che le ragazze (19%).

Secondo la Fondazione, questa mancanza di consapevolezza su cosa sia violenza e cosa non lo sia è una percezione legata a stereotipi culturali societari che si apprendono sin dalle prime fasi della vita. Ed è ancora una volta analizzando i dati che ciò emerge con chiarezza:

Nei rapporti spesso le ragazze dicono di no, ma vorrebbero dire di sì: lo pensa 1 adolescente su 3. Solo il 18% delle ragazze ha questa convinzione mentre è il 38% dei ragazzi a pensarla così.
È normale che un ragazzo sia più interessato al sesso rispetto a una ragazza per 1 adolescente su 3. Il 23% delle ragazze la pensa così contro il 28% dei ragazzi. Un ragazzo che non vuole fare sesso con una ragazza probabilmente è gay, secondo il 17% del campione. Ma solo il 5% delle ragazze ha questa convinzione a fronte del 28% dei ragazzi che la pensa così.
Gli uomini hanno bisogno di una donna che si prenda cura di loro per il 36% del campione: 25% delle ragazze è concorde a fronte del 47% dei ragazzi che la pensa così.
Le donne hanno bisogno di un uomo che le protegga: lo pensa il 38% del campione. Ma solo il 27% delle ragazze ha questa convinzione a differenza del 49% dei ragazzi che la pensa così
Ragazzi e ragazze hanno capacità diverse per natura per il 52% del campione. Lo crede il 44% delle ragazze, mentre sale a 60 la percentuale di ragazzi che la pensa così.

“La survey ci dice che sembra sia più difficile per i ragazzi liberarsi dalle gabbie degli stereotipi, dalle norme di maschilità definite “tradizionali”, le quali possono promuovere l’esercizio della violenza e la negazione delle responsabilità – spiegano i ricercatori -. Forse perché negli ultimi anni abbiamo puntato molto (anche se mai abbastanza) sull’empowerment femminile, ricordando alle ragazze che possono essere ciò che vogliono, mentre si è fatto ancora troppo poco per incoraggiare gli adolescenti a esprimersi pienamente”.

Subire una violenza

Subire un episodio di violenza è capitato a 1 adolescente su 3. Sentire commenti espliciti sul proprio corpo capita a 1 adolescente su 3. Ma ragazzi e ragazze hanno la stessa esperienza? Non proprio. Il 43% delle ragazze ha sentito commenti espliciti sul proprio corpo, mentre per i ragazzi riguarda solo il 21% del campione. Così come, ricevere richieste sessuali e attenzioni non desiderate capita a 1 ragazza su 4. Mentre per gli uomini capita ad 1 ragazzo su 10. E lo stesso vale per quanto riguarda ricevere contatti fisici indesiderati da parte di coetanei o coetanee che capita a più di 1 adolescente su 10.

Inoltre, è successo di aver ricevuto strattoni da parte del o della partner a un adolescente su cinque. Come è successo di aver ricevuto pugni, schiaffi o colpi da parte del o della partner a più di 1 adolescente su 10. È successo di vedersi lanciati addosso oggetti dal o dalla partner a quasi 1 adolescente su 10.

Dove si verificano più frequentemente episodi di violenza? Il luogo più a rischio di molestie e violenze è la strada secondo 7 adolescenti su 10: nello specifico, lo pensa il 75% delle ragazze e il 62% dei ragazzi è d’accordo.

I social network sono più pericolosi dei mezzi di trasporto pubblici. Sono soprattutto le teenager femmine a pensarlo (71% contro il 57% dei ragazzi). La scuola è più pericolosa per i teenager maschi che femmine (34% contro il 24%). La scuola è anche il luogo dove può avvenire il cambiamento culturale: 3 adolescenti su 4 reputano che qui si debba parlare di violenza di genere.

Durante l’evento di presentazione, relatori come Giuseppe Di Rienzo, direttore generale di Fondazione Libellula, Elena Panzera, presidente Aidp Lombardia, e con la moderazione di Valeria Ciardiello, hanno discusso dell’importanza di agire con urgenza per educare le nuove generazioni al rispetto e al consenso, coinvolgendo scuole, famiglie e aziende per prevenire la violenza di genere

“Il fatto che quest’anno alla Survey abbiano risposto più di 1.500 adolescenti tra i 14 e i 19 anni ci dimostra che c’è volontà di parlare di questi argomenti” – dichiara Giuseppe Di Rienzo, direttore generale di Fondazione Libellula. “A noi spetta coinvolgere gli agenti educativi per parlarne con consapevolezza e competenza: la scuola, ma anche le aziende, di cui spesso sottovalutiamo il ruolo culturale. Il nostro approccio è quello di creare una sinergia tra tutte le parti coinvolte, adolescenti, famiglie, scuole, associazioni e aziende, per portare soluzioni che abbiano un impatto concreto per prevenire e contrastare la violenza di genere”.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.

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Demografica

Lucca Comics, Himorta: “Il cosplaying è l’anima della...

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Quelli del Lucca Comics & Games sono i cinque giorni più attesi dell’anno da centinaia di migliaia di italiani e non solo dai più giovani. Quasi duecentomila sono i biglietti già staccati per la fiera internazionale dedicata al fumetto, all’animazione, ai giochi (di ruolo, da tavolo, di carte), ai videogiochi e al mondo fantasy. Anche se “l’anima pulsante del Lucca Comics e anche degli altri eventi a tema è il cosplaying”, racconta a Demografica di Adnkronos Antonella Arpa, in arte Himorta.

Un po’ come il Lucca Comics, prima fiera di settore a livello europeo, Himorta è la cosplayer più seguita d’Italia e d’Europa con oltre 1 milione di follower su Instagram. “Tutto nasce dal senso di umanità” profonda che anima le sue azioni, come quella, tra le altre, di essere ambasciatrice dell’associazione Women in game a sostegno delle discriminazioni di genere.

Lucca Comics, cosplaying e ponti generazionali

Himorta ci svela subito un aspetto poco conosciuti del cosplaying: “Negli ultimi anni sta avvicinando le diverse generazioni in un contesto caratterizzato da grande divisione sociale e intergenerazionale”.

Cosa accomuna i fan di questo mondo che si ritrovano al Lucca Comics. È giusto trovarne la cause nella volontà di evasione, o c’è dell’altro?

“La parte bellissima di Luca è che tu cammini per strada e trovi la barista vestita da Sailor Moon, il commesso vestito da Goku, un altro da Hercules… Le altre fiere di settore, in Italia, sono all’interno di un padiglione, al più dei poli fieristici. A Lucca si trasforma tutta la città, ci sono delle parate, delle sfilate per tutta la città che creano un’atmosfera magica. Quindi più che evasione, io parlerei di elemento nostalgico condiviso dai bambini, dai ragazzi e dagli adulti, che per cinque giorni si immergono in questo mondo fatto di cartoon, di videogiochi, di fumetti, e di cosplay, che sono l’anima della fiera”.

Come approcciano le diverse generazioni al mondo del cosplay?

Per rispondere a questa domanda, Antonella Arpa ci fa un esempio concreto: “Tra la generazione di mia madre e la mia c’è un profondo divario sociale, culturale e tecnologico. Eppure, c’è qualcosa che va oltre le generazioni, oltre le differenze: quando guardiamo una sfilata cosplay, quando sfogliamo un fumetto, quando ci immergiamo in questo mondo, proviamo lo stesso sentimento. Questo perché per quanto siamo diverse e quindi per quanti anni ci possano dividere, abbiamo in comune l’amore per il fumetto e per l’infanzia, perché io amo la mia infanzia, mia madre ha amato la sua. In qualche modo i personaggi dell’infanzia sono quelli che rimangono nel nostro cuore per sempre”. Una passione così forte da trascendere non solo i limiti di età, ma qualsiasi divisione, spiega Himorta: “I cartoni animati fanno parte dell’infanzia di ciascuno di noi e tutti quanti li amiamo indistintamente da chi siamo, uomini, donne, giovani, vecchi, bambini o di qualsiasi etnia o religione. Tutti amiamo i cartoni animati”.

Un tempo erano anche gli orari televisivi a sincronizzarci con i nostri coetanei ad un orario preciso. Come cambia il rapporto con i cartoni animati ora che è finita l’era della tv lineare in favore di quella veloce e on demand del digitale?

“Credo che il ruolo dei cartoni animati spesso venga sottovalutato: io ho imparato molto del linguaggio vedendo i cartoni animati, anche perché prima c’erano molti dialoghi chiari da cui chiunque ha imparato tantissimo”. Oggi la situazione è un po’ diversa e anche la produzione risente spesso della ‘produttività a tutti i costi’. Per Himorta, questo si dovrebbe tradurre in un’attenzione ancora maggiore da parte dei genitori che devono fare “una selezione dei cartoni animati da far guardare ai propri figli”. Per essere precisi, Antonella aggiunge: “non sono madre, ma sicuramente un giorno almeno tutta la carrellata di classici Disney i miei figli la faranno, perché oltre ad essere meravigliosi e farci sognare aiutano tantissimo da un punto di vista educativo e linguistico”.

Purtroppo, anche ma non solo a causa di un work-life balance squilibrato, spesso le cose non vanno così e per molti genitori “passare il tablet al figlio per evitare che pianga è molto più semplice che fare delle attività ludico-ricreative con i propri figli, mentre l’offerta è fuori controllo. Per questo credo che il ruolo dei genitori sia più delicato oggi che qualche anno fa”.

Tu sei molto attiva anche nella lotta al bullismo e cyberbullismo. Secondo la tua esperienza, quali sono i messaggi più efficaci per contrastare queste forme di violenza?

Sul tema Himorta parte da sé stesso e da quello che lei chiede di fare alla sua enorme community. La chiama “Educazione al commento” e risponde a un principio tanto semplice quanto prezioso: essere sempre costruttivi, mai distruttivi. “I commenti che si fanno devono essere positivi, – spiega Antonella – se qualcosa non ci piace scrolliamo, andiamo oltre, perché nel momento in cui noi alimentiamo un commento negativo creiamo il principio del bullismo, che esiste solo se esiste un branco”.

Questo significa anche non dare risalto ai commenti negativi, non dargli alcuna rilevanza. “Se lasciamo quel commento negativo isolato non può crearsi il bullismo”. Il messaggio di Himorta è chiaro: “È una banalità ma è davvero così: se, nel nostro piccolo, tutti iniziamo a fare commenti positivi, creiamo un circolo virtuoso”, la ‘kryptonite’ dei bulli.

“Dobbiamo iniziare a educare dal momento in cui installano i social, dal momento in cui installano Instagram piuttosto che Facebook o piuttosto che YouTube, insegnare all’educazione del commento positivo. È sbagliato parlare di bullo, bisogna parlare di bulli, perché i bulli esistono laddove c’è un contesto fertile per il bullismo”. E noi possiamo fare in modo che non sia così.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Manovra, ‘tassa’ sulla cittadinanza e stretta sulle...

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Nella Manovra 2025, il governo italiano vuole introdurre una doppia stretta sulle agevolazioni fiscali per i lavoratori immigrati e introdurre una “tassa” sui procedimenti di cittadinanza.

L’obiettivo dichiarato di queste misure, presentate nel disegno di legge di bilancio depositato alla Camera, è ridefinire i costi per gli immigrati extra Ue che vivono e lavorano in Italia, che da circa un decennio tengono a galla la preoccupante demografia del Paese.

Stop alle detrazioni fiscali per i familiari a carico all’estero

La prima misura riguarda l’abolizione delle detrazioni fiscali per i familiari a carico residenti all’estero. A partire dal 1° gennaio 2025, i contribuenti che non sono cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea (o che non fanno parte dello Spazio Economico Europeo) non potranno più beneficiare di agevolazioni fiscali per familiari rimasti nel loro Paese d’origine. Questa decisione potrebbe impattare lavoratori come badanti e assistenti domiciliari, una categoria ampiamente rappresentata in Italia e spesso composta da migranti che lavorano in regola e pagano le imposte nel nostro Paese.

Traducendo la norma in termini pratici, un lavoratore o una lavoratrice extra comunitaria che lavora in Italia e ha la famiglia nel Paese di origine non potrà più usufruire delle detrazioni fiscali per i familiari. Non avrà quindi accesso alle agevolazioni attualmente riconosciute, che prevedono riduzioni fiscali per coniugi non legalmente separati e per i figli a carico, per un massimo di 950 euro per ciascun figlio, compresi quelli riconosciuti fuori dal matrimonio o adottati. Il timore è che questa novità possa portare molti lavoratori stranieri a valutare l’impatto fiscale del loro impiego in Italia e, in prospettiva, a rivalutare la permanenza nel nostro Paese.

La nuova tassa per le pratiche di cittadinanza

Oltre alla stretta fiscale, la manovra impone un nuovo costo per chi desidera ottenere la cittadinanza italiana. Dal 1° gennaio 2025, per le controversie riguardanti il riconoscimento della cittadinanza italiana, sarà richiesto un contributo unificato di 600 euro per ciascuna parte ricorrente. Questa cifra si somma ai 250 euro e ai 16 euro di marca da bollo già necessari per presentare la domanda. La norma prevede che il contributo sia dovuto per ciascuna parte ricorrente, anche in caso di domande congiunte nello stesso giudizio.

Il tutto a qualche settimana di distanza dal dibattito politico-culturale sul diritto di cittadinanza, foriero anche di divisioni tra la Lega del vicepremier Salvini e Forza Italia dell’altro vicepremier Antonio Tajani. Le dinamiche demografiche dell’Italia, caratterizzate da una popolazione sempre più anziana e da tassi di natalità in calo, evidenziano l’importanza dei contributi sociali ed economici degli immigrati nonostante anche la loro fertilità sia calata nel corso degli anni, in Italia.

Il ruolo dell’immigrazione sulla demografia italiana

L’Italia sta affrontando una sfida demografica importante: con una popolazione in costante invecchiamento e una natalità ai minimi storici, i lavoratori stranieri rappresentano una risorsa vitale per il mercato del lavoro e per il mantenimento del sistema di welfare. Come evidenzia il report demografico dell’Istat, nel 2023, “Le migrazioni con l’estero giocano un ruolo importante nel contesto demografico del Paese. Nel 2023, oltre a contrastare il calo della popolazione con un saldo migratorio che compensa, quasi del tutto, il saldo naturale negativo, esse contribuiscono a rallentare il processo di invecchiamento”.

Dopo il record di sbarchi registrato nel 2023, al 1° gennaio 2024 i residenti stranieri erano 5 milioni e 308 mila unità, +166 mila individui (+3,2%) rispetto all’anno precedente. Questo aumento, che rappresenta il 9% della popolazione totale, potrebbe non proseguire. Sin da subito, l’esecutivo Meloni ha ribadito la sua linea anche con le parole della ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità Eugenia Roccella: “Non possiamo sostituire la natalità con l’immigrazione”.
Nel 2024, come dimostrano il cruscotto informativo del ministero degli Interni, c’è stato un crollo degli sbarchi in Italia: dall’inizio dell’anno al 23 ottobre 2024 i nuovi ingressi sono stati 55.036 contro i 141.578 registrati nell’intero anno 2023.

Una distribuzione non omogenea e la fuga dei giovani

Bisogna considerare che la ripartizione geografico degli immigrati non è omogenea lungo la penisola. Così come non lo è quella autoctona che registra da decenni una forte migrazione interna. Secondo il report demografico Istat, nel 2023 il Mezzogiorno, contava solo 897mila residenti stranieri (16,9%), con un’incidenza del 4,5%.
Dati anni luce distanti da quanto succede al Nord, scelto come meta dal 58,6% degli immigrati stranieri nel 2023, ovvero 3 milioni e 109 mila persone. Un’incidenza dell’11,3%, più che doppia rispetto a quella registrata al Sud. Situazione analoga al Centro, con un milione e 301 mila individui (24,5% degli immigrati nell’anno), ovvero l’11,1% della popolazione totale.

A lungo termine, un minore afflusso di lavoratori immigrati potrebbe avere effetti negativi sulle dinamiche demografiche italiane. Meno immigrati significherebbe un calo della popolazione attiva e una maggiore difficoltà nel sostenere le spese del welfare, soprattutto in un contesto in cui l’età media continua a crescere. Le barriere economiche e burocratiche per ottenere la cittadinanza potrebbero inoltre limitare la stabilizzazione dei residenti stranieri, rendendo difficile il processo di integrazione e aumentando la mobilità dei lavoratori stranieri verso altri Paesi europei che offrono condizioni di permanenza più favorevoli.

L’Italia è il Paese europeo con il più basso tasso di attrattività giovanile. Per ogni giovane europeo che sceglie di venire a vivere in Italia, otto italiani se ne vanno. Con una capacità attrattiva del 6%, l’Italia si posiziona in coda rispetto alla Svizzera, che accoglie il 34% dei giovani europei, e alla Spagna, che si attesta al 32%. Inoltre, tra i giovani italiani che emigrano, il 50% è laureato e un terzo diplomato, con una marcata prevalenza di partenze dal Nord Italia, evidenziando come il fenomeno coinvolga principalmente giovani altamente qualificati.

I dati del Rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero”, realizzato dalla Fondazione Nord Est e presentato il 23 ottobre obbligano a delle riflessioni che la crisi demografica rende urgenti. Dal 2011 al 2023, l’Italia ha perso sempre più giovani: circa 550 mila italiani tra i 18 e i 34 anni hanno deciso di lasciare il Paese per stabilirsi all’estero. Questo numero, se corretto per i rientri, si riduce a 377 mila, ma il fenomeno resta allarmante: si stima una perdita di 134 miliardi di euro di capitale umano negli ultimi tredici anni. L’87% degli expat valuta positivamente l’esperienza all’estero e solo un terzo tornerebbe in Italia.

Chiamarla fuga dei cervelli è riduttivo: è anche fuga di mani, di speranze e di famiglie che scelgono l’estero per vivere la propria vita.

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Giovani imprenditori italiani alla riscossa: il fenomeno EET

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Un sorprendente e positivo cambiamento sta attraversando il panorama economico e lavorativo italiano. I protagonisti di questa svolta sono i giovani imprenditori italiani, definiti EET (Employed Educated and Trained) nel nuovo focus Censis-Confcooperative. In un contesto dove il tasso di disoccupazione giovanile resta una preoccupazione, questi ragazzi tra i 15 e i 29 anni si stanno distinguendo come veri e propri “anti-NEET”, ribaltando il destino di un’intera generazione. Hanno scelto di reinventarsi con l’autoimprenditorialità, costruendo nuove opportunità lavorative in settori tecnologici e innovativi, che non solo sfidano la crisi, ma tracciano un percorso di crescita per l’Italia.

Gli EET, un fenomeno in crescita

A colpire è la consistenza di questo movimento: 144mila giovani hanno scelto di avviare attività indipendenti, dando vita a un microcosmo in cui l’autoimprenditorialità rappresenta non solo una via d’uscita dalla disoccupazione, ma un’affermazione di competenze e ambizioni. Il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, celebra questa “occupazione di nuovo conio”, sottolineando come questi giovani si collochino in un’economia delle competenze, che vede crescere la domanda di capitale umano qualificato.

L’evidente successo di questi EET è visibile in ogni angolo d’Italia. Il Sud, dove il tasso di disoccupazione giovanile ha storicamente raggiunto livelli più elevati, rappresenta il 35,4% delle nuove iniziative imprenditoriali giovanili. Una percentuale rilevante, che testimonia la capacità dei giovani del Mezzogiorno di rispondere alla mancanza di occupazione con la creazione di attività locali, dinamiche e spesso connesse ai settori emergenti. Seguono il Nord Ovest con il 28,5%, il Centro con il 16,7% e il Nord Est con il 19,4%, dimostrando che il fenomeno è distribuito lungo tutta la penisola, con variazioni legate alle opportunità economiche specifiche delle singole regioni.

Il numero dei giovani occupati ha raggiunto quota 3 milioni, contribuendo al PIL con un valore di 52,2 miliardi di euro, pari al 2,5% del totale. Ma ciò che distingue gli EET dagli altri giovani lavoratori è la capacità di generare profitti non solo per sé stessi, ma anche per il contesto in cui operano, portando innovazione e freschezza a settori finora dominati da figure professionali senior. Fra questi settori spiccano quelli della pubblicità e ricerche di mercato (+228,7% di imprese giovanili tra il 2017 e il 2024), i servizi di consulenza gestionale (+206,4%) e la produzione di software e consulenza informatica (+52,4%), dimostrando che l’interesse dei giovani si focalizza sempre più su ambiti ad alto valore tecnologico e di competenza.

I settori trainanti dell’economia giovanile

Questa generazione è capace di far emergere settori economici che le generazioni precedenti non avevano sviluppato allo stesso modo. La pubblicità, ad esempio, ha visto l’ingresso di numerosi giovani imprenditori, che rappresentano oggi il 20,2% del totale delle aziende attive nel settore, segnalando un aumento del 12,3% dal 2017. In parallelo, anche settori culturali e creativi, come la produzione cinematografica, televisiva e musicale, registrano un incremento del 65,9%. La crescita nel software e nei servizi postali evidenzia la diversificazione e l’adattamento degli EET ai bisogni emergenti, offrendo prodotti e servizi digitali in grado di cavalcare i cambiamenti sociali e tecnologici.

La nuova economia delle competenze si fonda su un alto livello di specializzazione. Un dato interessante che emerge è l’aumento del 3,1% degli occupati con laurea o post-laurea, che oggi costituiscono il 23,5% del totale degli occupati giovani. La scelta formativa e il percorso educativo sono quindi fattori fondamentali per inserirsi in questi settori ad alta intensità tecnologica. Di pari passo, si registra una diminuzione del 2,7% degli occupati con la sola licenza media, segnale di una marginalizzazione delle competenze di base. Questa tendenza evidenzia come il mercato richieda sempre più competenze avanzate, portando a una ristrutturazione dell’economia nazionale verso settori a elevato valore aggiunto e tecnologico.

Questa trasformazione apre una sfida cruciale per l’Italia: quella di adattare il sistema formativo alle esigenze di un’economia imperniata su innovazione e competenze specifiche. Non farlo comporterebbe un rischio di disallineamento strutturale tra domanda e offerta di competenze. La stabilità del numero di diplomati, che rappresentano il 59,9% dei giovani occupati, evidenzia l’importanza di politiche formative che promuovano percorsi diversificati e che rendano l’istruzione superiore accessibile, senza dimenticare il problema delle disparità di genere, che si riflette ancora in un divario occupazionale di 10,4 punti percentuali tra uomini e donne.

La crisi dei settori tradizionali e l’ascesa dei settori tecnologici

Nonostante la crescita in settori emergenti, alcune aree tradizionali stanno perdendo terreno, con decrementi significativi nelle attività ricreative, sanitarie e commerciali. Il commercio al dettaglio e le attività di ristorazione, settori che storicamente hanno offerto occupazione giovanile, registrano rispettivamente un calo del 32,7% e del 31,8% tra il 2016 e il 2023. La decrescita nelle attività di sanità e assistenza sociale, con un calo del 40,2%, riflette le sfide che alcuni settori stanno affrontando per mantenere il passo con le nuove esigenze del mercato. Di conseguenza, è in atto una riduzione generale del numero di imprese giovanili tradizionali, con un calo del 16,9% tra i titolari di impresa under 30.

Sebbene la tendenza mostri una contrazione complessiva degli imprenditori giovani, l’aumento delle imprese giovanili in settori tecnologici suggerisce che, piuttosto che un disinteresse per l’imprenditoria, stiamo assistendo a una selezione naturale verso ambiti più innovativi. Gli EET rappresentano una risposta a un modello di lavoro ormai superato, dove l’impiego stabile era visto come il culmine del percorso professionale. Ora i giovani ambiscono a un’imprenditoria che rispecchi le loro competenze e passioni, andando oltre le aspettative tradizionali.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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