Medicina, Dubini (Agite): “A congresso ginecologia di università, ospedali e territorio”
"Mettere in risalto la centralità della donna e accompagnare le sue scelte come medici"
"Questo congresso rappresenta le tre anime della ginecologia - quella universitaria, ospedaliera e quella territoriale - che fra loro devono sempre parlarsi, integrarsi, arricchirsi e potenziare l'un con l'altro la propria attività". Lo ha detto Valeria Dubini, presidente Agite, Associazione ginecologi territoriali, all'Adnkronos salute a pochi giorni dall'avvio del 99° Congresso nazionale della Sigo, Federazione italiana di ginecologia e ostetricia (Aogoi-Agui-Agite), previsto a Firenze dal 3 al 6 novembre, di cui è presidente insieme "a Felice Petraglia e Gianfranco Quintarelli".
Firenze, culla del Rinascimento "ci ha ispirato un po' il titolo, 'Donne al centro di un nuovo rinascimento' - spiega Dubini - Il nostro obiettivo principale è appunto" mettere in risalto "la centralità delle donne che noi assistiamo. Noi siamo i medici delle donne, le accompagniamo nelle loro scelte, rispettando le loro decisioni in tutte le fasi della vita, dall'adolescenza alla menopausa. E quindi è molto importante il messaggio che noi diamo: al centro della nostra attività, prioritariamente, c'è proprio la donna, il rispetto, la sua salute, non soltanto in termini di cura, ma anche in termini di prevenzione e anche di contestualizzazione nella nostra società". In questo contesto si inserisce quindi "la tavola rotonda sulla violenza sulle donne, argomento di cui le nostre società si sono occupate già dal 2000, riconoscendo non solo l'aspetto che magari possiamo leggere sui giornali per episodi appunto di cronaca, ma anche l'aspetto di danno alla salute del vivere in una condizione di violenza".
Nascere e rinascere "fa molto parte della nostra attività e della nostra specialità - osserva la presidente Agite - In questo momento nascere è anche un valore, in più, se pensiamo a tutte le problematiche della denatalità che sono sicuramente molto complesse e che vanno affrontate con l'attenzione con cui si affronta la complessità perché sono legate anche a tutta una serie di situazioni in cui le donne si vengono a trovare anche nella nostra società: difficoltà in termini lavorativi, di supporti genitoriali e per i bambini. Sicuramente dobbiamo vedere a tutto tondo questo aspetto".
"Come ginecologi - aggiunge Dubini - abbiamo anche il compito di prevenire tutto quello che può condizionare la fertilità futura: le malattie sessualmente trasmesse, dare le informazioni corrette e questo come ginecologi territoriali vorrei dire che è proprio un valore che possiamo portare avanti perché noi intercettiamo le nostre assistite in tutti i momenti della loro vita, non soltanto sulla patologia. Intercettiamo le giovani nei consultori e lì abbiamo la possibilità di dare informazione, di accogliere le loro problematiche, i dubbi, anche del partner maschile che, effettivamente, manca un po' di un punto di riferimento medico".
Il programma del congresso è quindi "molto articolato, con questi ma anche con molti altri argomenti tecnico-scientifici: l'intelligenza artificiale, la personalizzazione delle cure - illustra la presidente - e anche aspetti organizzativi che sono sicuramente importanti per rendere sostenibile nel complesso il nostro sistema sanitario nazionale. Il programma è stato fatto guardando a tre aspetti: territorio, ospedale, università, quindi formazione. Questo credo sia un valore aggiunto, un punto importante - conclude - perché dobbiamo guardare le varie problematiche da più sfaccettature per poter capire come affrontarle tutto al meglio, con appropriatezza, senza eccessi di medicalizzazione, ma con corretta, appropriata e attenzione al trattamento".
Salute e Benessere
Covid, ecco come la pandemia ci ha cambiato: meno uscite,...
Due studi indagano sulla 'nuova normalità', così l'esperienza del virus ha cambiato le abitudini quotidiane delle persone
Non uscire, o uscire molto meno, è la 'nuova normalità' post Covid. Le cene? Averne fatte più spesso a casa in famiglia, nei lockdown, rispetto al passato ha avuto come vantaggio anche un aumento della qualità del tempo trascorso con i propri cari a tavola. Così l'esperienza della pandemia ha cambiato le abitudini quotidiane delle persone. Con un impatto pervasivo, ma anche duraturo, certifica la scienza. Due studi esplorano questi aspetti, dalla routine a tavola alla vita 'mondana'.
Pre e post Covid, i due studi sulla 'nuova normalità'
Rispetto all'esistenza prima del Covid-19, per esempio, secondo un nuovo studio pubblicato sul 'Journal of the American Planning Association', le persone trascorrono quasi un'ora in meno al giorno facendo attività fuori casa, comportamento che i ricercatori sostengono essere una conseguenza duratura della pandemia. Dal 2019 il calo complessivo del tempo di vita fuori casa è di circa 51 minuti, e si aggiunge anche una riduzione di quasi 12 minuti nel tempo trascorso alla guida della propria auto o sui mezzi pubblici.
L'analisi è basata su un sondaggio condotto su 34mila americani, ed è la prima a considerare e analizzare come è cambiato questo aspetto della vita fuori casa rispetto al tempo fra le mura domestiche dopo la pandemia. Gli autori della Clemson University e dell'Ucla (University of California Los Angeles) hanno documentato una tendenza che risale almeno al 2003, ma il Covid e le sue conseguenze hanno notevolmente aumentato questo spostamento delle persone verso la vita domestica. I ricercatori che firmano lo studio sono urbanisti, e sostengono che la tendenza a uscire meno di casa richieda un ripensamento di molte politiche di pianificazione e trasporto. Per esempio vanno ripensati uffici e negozi, se aumenta il lavoro da remoto e lo shopping da casa. I centri urbani devono un po' reinventarsi per adattarsi alle nuove esigenze. Si dovrebbe cercare, secondo l'autore principale Eric A. Morris, professore di pianificazione urbana e regionale alla Clemson University, di "investire di più nei punti di forza rimanenti", fra cui "opportunità per la ricreazione, l'intrattenimento, la cultura, l'arte e altro ancora. Le città centrali potrebbero spostarsi verso il diventare centri di consumo più che di produzione".
A 'spiare' invece le famiglie a tavola è stata una ricerca pubblicata dall'American Psychological Association. Lo studio, pubblicato sulla rivista 'Couple and Family Psychology: Research and Practice', ha osservato che le famiglie che mangiavano insieme più spesso durante la pandemia avevano anche interazioni più positive, condividevano notizie e informazioni e adottavano rimedi tecnologici come le videochiamate per restare in contatto pure con i familiari lontani. Secondo l'autrice principale Anne Fishel, Massachusetts General Hospital, nel complesso la ricerca suggerisce che l'aumento della frequenza delle cene in famiglia durante la pandemia potrebbe aver avuto effetti positivi duraturi sulle dinamiche familiari.
Gli esperti hanno esaminato i dati di un sondaggio condotto a maggio 2021 su 517 genitori di diverse etnie e condizioni socioeconomiche negli Stati Uniti. Il loro obiettivo era indagare sui cambiamenti nella frequenza e nella qualità delle cene in famiglia durante la pandemia di Covid. Oltre il 60% degli intervistati ha dichiarato di cenare insieme più spesso rispetto al periodo prima dell'irruzione di Sars-CoV-2 nelle vite di tutti. "Questo studio evidenzia l'importanza di esaminare sia la frequenza che la qualità per comprendere il quadro completo di come i pasti condivisi possano avere un impatto sulle famiglie", dice Fishel.
Proprio per questo motivo ai partecipanti è stato chiesto sia della frequenza delle cene, che della qualità e delle aspettative post-pandemia. In particolare, "il 56% ha affermato di aver parlato di più delle proprie giornate durante la cena, il 60% di aver parlato di più della propria identità di famiglia, il 60% ha raccontato di aver espresso più gratitudine, il 67% di aver riso di più insieme e il 59% di essersi sentito più connesso l'uno con l'altro a tavola", elenca Fishel. Questa associazione positiva è stata evidente in base a livelli di reddito, istruzione, età, genere e razza. La pandemia ha introdotto anche nuovi aspetti nelle cene in famiglia, per esempio i pranzi a distanza (in videochiamata) con i membri della famiglia allargata e più discussioni sugli eventi attuali, continua Fishel. Molte famiglie hanno quindi rafforzato potenzialmente il senso di appartenenza a un nucleo familiare più ampio. La maggior parte dei genitori che ha aumentato l'uso della tecnologia per le cene a distanza in pandemia ha riferito di voler continuare la pratica anche dopo.
I ricercatori hanno anche scoperto che più famiglie hanno preso l'abitudine di portare notizie e informazioni dal mondo esterno nelle loro conversazioni a cena, offrendo potenzialmente ai bambini uno spazio sicuro in cui discutere di ansie e dubbi con i genitori. Allo stesso modo "l'uso continuato della tecnologia da remoto per connettersi con chi non è fisicamente presente può portare a continue opportunità di legame familiare e far sì che i bambini provino un senso di appartenenza a un'unità più grande, che sappiamo essere protettivo per il loro benessere", conclude Fishel.
Quanto al resto delle attività casalinghe, l'altro studio entra nel merito considerando sia le abitudini di lavoro che quelle di svago, dati ricavati dall'American Time Use Survey, fotografia annuale di come gli americani trascorrono il loro tempo, in esecuzione dal 2003. Gli autori hanno esaminato il comportamento degli adulti da 17 anni in su e hanno raggruppato l'uso del tempo in 16 attività in casa dal sonno all'esercizio fisico, oltre a 12 attività fuori casa tra cui eventi artistici e sportivi, shopping, lavoro, appuntamenti religiosi. Separatamente, hanno analizzato i viaggi in auto, a piedi e sui mezzi pubblici. I risultati hanno mostrato che il tempo trascorso su 8 delle 12 attività fuori casa è diminuito dal 2019 al 2021, mentre 11 delle 16 attività domestiche sono aumentate. Il tempo medio per le attività fuori casa è sceso da 334 minuti al giorno nel 2019 a 271 nel 2021, all'incirca da 5,5 ore al giorno fuori casa a 4,5. Lo 'smart working' per gli autori spiega parte di questa tendenza, ma ci sono state grandi diminuzioni anche in altri usi del tempo fuori casa. La quota lontano dalle mura domestiche si è ripresa solo modestamente dopo la pandemia, rimbalzando di soli 11 minuti dal 2021 al 2023 (fino a 281). E la tendenza a uscire meno sembra reggere. Questo 'ritiro in casa' era in corso da almeno 16 anni prima della pandemia. Ma i cali delle attività fuori dal domicilio sono stati molto maggiori dopo la pandemia rispetto ai trend precedenti.
Salute e Benessere
Cancro al retto, Siena (UniMi): “Un 1 caso su 4 si...
Il principal investigator dello studio No-Cut: "Importante nella diagnosi identificare se è Msi o Mss"
Nel momento in cui c'è una diagnosi di carcinoma del retto localmente avanzato, cioè o molto grosso o con linfonodi contigui interessati dal tumore, "la prima cosa da fare è assicurarsi che venga verificato se si tratta di tumore Msi o Mss, perché se è Msi (dall'inglese, instabilità dei microsatelliti) devo fare l'immunoterapia, ma se si tratta di tumore al retto localmente avanzato Mss (stabilità dei microsatelliti) ci sono delle novità da considerare". Come dimostrano "i risultati dello studio 'No-Cut', recentemente presentato al Congresso europeo di oncologia (Esmo), nel tumore del retto localmente avanzato Mss una persona su 4 può avere remissione completa senza chirurgia del retto". Così Salvatore Siena, direttore del Dipartimento Oncologico dell'Ospedale Niguarda e professore di Oncologia medica all'Università degli Studi di Milano, spiega all'Adnkronos Salute, come principal investigator dello studio, le ultime novità nella cura di uno dei tumori più diffusi.
Le neoplasie "del grosso intestino, cioè del colon e del retto, sono le seconde neoplasie più frequentemente diagnosticate in Italia - ricorda Siena - Ogni anno, nel nostro Paese, ci sono circa 38mila nuovi casi di carcinoma del colon e 14mila nuove diagnosi di carcinoma del retto, più o meno equamente distribuiti fra uomini e donne. Se tempo fa la malattia si manifestava negli anziani, ultimamente si registra un aumento dell'incidenza per il tumore del grosso intestino in giovani con meno di 40 anni". Attualmente queste neoplasie "rappresentano la seconda/terza causa di morte", nonostante "i progressi nei trattamenti e delle campagne di diagnosi precoce, di screening: se non ci fossero, sarebbe molto peggio". Per capire l'impatto delle patologie nella vita delle persone, si deve ricordare che, se il colon "è deputato principalmente alle funzioni fisiologiche della digestione e del mantenimento del metabolismo - precisa lo specialista - il retto è costituito da una serie di strutture sfinteriche per svolgere la funzione di evacuazione. L'intervento chirurgico per l'eliminazione del tumore a questo livello è quindi molto più invasivo, con sequele più invalidanti sulla qualità di vita, anche dal punto di vista sociale, specie nel caso in cui si debba amputare il retto e si debba posizionare una stomia, noto come 'sacchetto'".
E' possibile fare una prevenzione primaria, "che consiste nel miglioramento degli stili di vita, nel preferire la dieta mediterranea, evitando le carni conservate e l'eccessivo consumo della carne rossa, che non deve essere tolta dalla dieta - chiarisce l'oncologo - Esiste poi una prevenzione secondaria, cioè la diagnosi precoce con le campagne di screening organizzate dalle autorità regionali con analisi del sangue occulto delle feci, tra i 50 e 69 anni. In base all'esito si può prevedere la colonscopia per indagare la presenza di tumori maligni o di adenomi, noti come polipi, che sono benigni, ma che si possono asportare per evitare che diventino maligni".
Oggi, illustra Siena, i trattamenti del cancro al retto sono "la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia, l'immunoterapia e le terapie a bersaglio molecolare. Vengono utilizzate a seconda che si tratti di tumore Msi o Mss e dello stadio, cioè dell'estensione della malattia. Nello stadio iniziale (1-2), la terapia di scelta è la chirurgia. Negli stadi 3 cosiddetti localmente avanzati, ossia per tumori molto grossi, quelli che noi chiamiamo T4, o con interessamento linfonodale loco regionale, cioè vicino al retto, la terapia dipende dalle caratteristiche del tumore. Se ha una instabilità microsatellitare (Msi), condizione che interessa il 5-7% delle diagnosi, si può ricorrere all'immunoterapia, perché tale condizione rende il cancro suscettibile a questa cura. Nel caso la caratteristica molecolare sia di stabilità microsatellitare (Mss), il 95% dei casi, il trattamento è multimodale e consiste in radioterapia, chemioterapia e chirurgia. Ma ci sono delle novità perché nel 26% dei casi si può evitare l'intervento chirurgico, come dimostra lo studio No-Cut che ha coinvolto 4 istituti italiani - il Niguarda di Milano come capofila, l'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, l'Istituto oncologico veneto (Iov) di Padova e il Giovanni XXIII di Bergamo - ed è stato finanziato da Airc Ets e Fondazione Oncologia Niguarda Ets".
Scopo dello studio, "che ha interessato 180 persone con carcinoma del retto medio e basso - prosegue lo specialista - era di verificare quanto osservato a livello di casistica retrospettiva e cioè che, in presenza di remissione clinica dopo radio-chemioterapia, l'omissione della chirurgia non pregiudicasse la recidiva a distanza. In questi pazienti, dopo i primi 2 trattamenti, invece di procedere con la chirurgia, si è fatta una rivalutazione. In presenza di remissione clinica completa", valutata con opportuni test, "non si è proceduto alla chirurgia. Tale situazione si è verificata in un paziente su 4 e, attualmente, abbiamo pazienti in remissione da 5 anni". Un simile risultato è stato possibile "grazie all'alleanza fortissima tra medici, ricercatori e pazienti - sottolinea l'oncologo - Senza il loro coraggio non sarebbe stato possibile verificare che l'omissione della chirurgia non mette in pericolo la persona per una recidiva a distanza". La ricerca ora "è focalizzata nell'identificare, attraverso la biopsia liquida, la presenza nel sangue di marcatori che possono individuare le persone che vanno in remissione completa e che non necessitano della chirurgia".
Ci sono però novità anche per i tumori Msi. "Uno studio recente ha infatti mostrato che l'impiego di 9 iniezioni di immunoterapia con dostarlimab, che è disponibile in Italia, determina una remissione completa. In questi pazienti non c'è bisogno né di chemio, né di radio, né di chirurgia - rimarca Siena - Appena abbiamo saputo di questi risultati, un lavoro americano del 2022, abbiamo subito attivato uno studio real-world, quindi dalla vita reale, pubblicato su 'Esmo Open', che evidenzia un 96% di remissioni complete, senza chemio, senza radio e senza chirurgia". Alla luce di questi risultati diventa sempre più importante, "in fase di diagnosi, conoscere le caratteristiche del tumore - Msi o Mss - ma anche recarsi in centri altamente specializzati - conclude - per una presa in carico completa".
Salute e Benessere
Melanoma, immunoterapia sì o no? Batteri intestinali spia...
Scoperta Ieo-Pascale "apre una nuova strada sul fronte vaccini terapeutici"
Nei batteri intestinali che formano il microbiota si nascondono dei fattori 'spia' capaci di predire l'efficacia dell'immunoterapia anti-melanoma, e con un semplice test del sangue è possibile capire quali pazienti con tumore avanzato risponderanno al trattamento e quali no. La scoperta apre "una nuova strada per lo sviluppo di un vaccino terapeutico", spiega l'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano annunciando i risultati di uno studio coordinato da Luigi Nezi dell'Ieo, pubblicato su 'Cell Host and Microbe'.
All'Irccs fondato da Umberto Veronesi e all'Istituto nazionale tumori 'Fondazione Pascale' di Napoli sono stati arruolati 23 pazienti con melanoma inoperabile e candidati a ricevere la terapia che, bloccando la proteina linfocitaria PD-1, riattiva la risposta immunitaria anticancro. Da ognuno sono stati raccolti dati clinici e diversi campioni biologici, sia prima dell'inizio della terapia sia mensilmente durante il periodo di trattamento (fino a 13 mesi), permettendo così ai ricercatori di associare variazioni del microbiota intestinale con altri marcatori infiammatori ematici. Benché il legame fra microbiota intestinale e immunoterapia sia noto da tempo, sottolineano dall'Ieo, il nuovo studio spiega perché e come avviene l'interazione. "I nuovi risultati dimostrano che i pazienti con una risposta clinica completa hanno una composizione del microbiota intestinale unica, che varia poco durante l'immunoterapia e stabilizza alcuni batteri - riassume Angeli D.G. Macandog, ricercatrice Ieo e primo autore del lavoro - Questi batteri, che appartengono principalmente alla classe dei Clostridia, sono noti per essere tra i principali artefici del metabolismo delle fibre alimentari, che favoriscono sia la salute intestinale che le funzioni linfocitarie. Se da un lato questa osservazione conferma quanto già scoperto dal dottor Nezi e da altri gruppi sui benefici per l'immunoterapia di un'alimentazione ricca di fibre, dall'altro apre nuovi scenari nella comprensione di come il microbiota intestinale modula la risposta al trattamento".
Da un'analisi approfondita dei geni batterici (metagenomica) - riporta in dettaglio l'Ieo - emerge che il microbiota intestinale dei pazienti responsivi all'immunoterapia è arricchito di alcuni geni che portano alla sintesi di peptidi (frammenti di proteine) i quali mimano esattamente la struttura di alcuni dei principali antigeni tumorali espressi dalle cellule di melanoma. Poiché la somiglianza consente a linfociti diretti contro i peptidi batterici di riconoscere anche i loro analoghi tumorali, l'immunità antitumorale ne esce rafforzata.
"La maturazione dei linfociti - chiarisce Nezi - prevede l'eliminazione a livello centrale, nel timo, di quelli che riconoscono proteine prodotte dal nostro stesso organismo (endogene). Se da un lato questo meccanismo ci protegge da potenziali fenomeni autoimmuni, dall'altro rende il nostro sistema immunitario cieco agli antigeni tumorali che, non dimentichiamolo, sono in gran parte espressi anche dalle cellule normali del nostro corpo. A livello dei tessuti periferici, e soprattutto dell'intestino, entrano invece in gioco meccanismi differenti che ci consentono soprattutto di tollerare la presenza dei batteri cosiddetti 'commensali', fondamentali per la salute del nostro organismo. Scoprire che alcuni di questi batteri esprimono antigeni dall'aspetto identico a quelli tumorali ci fa pensare che nel nostro intestino esista una vera e propria 'biblioteca' di peptidi che, all'occorrenza, potrebbe favorire il nostro sistema immunitario nel combattere il tumore in modo mirato ed efficace".
"Questa scoperta consentirà in breve tempo di condurre uno screening dei pazienti candidati a immunoterapia grazie a un test ematico per ricercare linfociti che riconoscono i peptidi batterici analoghi a quelli del melanoma", prospettano gli autori. "La possibilità di avere a disposizione marcatori che predicono la risposta ad un trattamento o meno - afferma Paolo Ascierto, direttore del Dipartimento Melanoma e Immunoterapia del Pascale - rappresenta un aspetto importantissimo della ricerca oncologica. In questo modo si selezionano i pazienti che possono realmente avere un beneficio da una terapia, evitando inutili costi e possibili effetti collaterali a coloro che non ne avranno beneficio. Inoltre consente di focalizzare la ricerca su quei pazienti resistenti 'ab initio' ad un trattamento".
"I nostri risultati - conclude Nezi - hanno un forte potenziale terapeutico, se si considera che l'azione favorevole del microbiota potrebbe essere indotta somministrando al paziente semplici mix di peptidi. Gli stessi che, in un futuro non lontano, potrebbero essere utilizzati sia per migliorare l'attuale limitata applicabilità delle terapie cellulari, sia come vaccino che educhi il sistema immunitario a riconoscere il tumore e, in combinazione con l'immunoterapia, a combatterlo".