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Un veleno potentissimo, cos’è la sindrome causata dalle tossine del botulino

Di cosa si tratta, in che forma si presenta e i sintomi della grave intossicazione che ha portato alla morte di un'anziana a Roma

Pronto soccorso - Fotogramma

All'origine di tutto c'è un batterio: Clostridium botulinum, il botulino. O meglio le tossine rilasciate da questo microrganismo e da altri clostridi, microrganismi anaerobi che si possono trovare nel suolo o nella polvere sotto forma di spora. Sono loro che provocano il botulismo, grave intossicazione che può scatenare una sindrome neuro-paralitica e avere conseguenze letali, portando a paralisi respiratoria e asfissia. L'ultima vittima finita all'attenzione delle cronache è un'anziana morta a Roma, per avvelenamento da botulino. Il caso a settembre. La donna aveva mangiato insieme alla figlia - finita in terapia intensiva - una zuppa di carciofi acquistata al supermercato, e la procura di Roma ha aperto un fascicolo d'indagine per omicidio colposo a carico di ignoti.

"Il più potente veleno conosciuto" in quale forma si presenta?

Le tossine botuliniche, come si spiega in un focus su 'Epicentro', il portale di epidemiologia dell'Istituto superiore di sanità (Iss), sono considerate per l'uomo "il più potente veleno conosciuto", con una dose letale stimata in 1 nanogrammo (ng)/kg.

Il botulismo si presenta sotto varie forme: alimentare, infantile, da ferita, negli adulti, si legge in un approfondimento sul sito dell'Irccs Humanitas. Vista la pericolosità, evidenziano gli esperti, è necessario intervenire rapidamente, anche se i sintomi nella fase iniziale sono spesso simili a quelli di disturbi meno gravi, come una gastroenterite.

Il botulismo alimentare è la più nota e comune forma di botulismo, si verifica quando la contaminazione interessa conserve sott'olio, carne o pesce in scatola, salumi. L'intossicazione è causata dall'accumulo delle tossine prodotte dai clostridi nell'intestino.

I sintomi si manifestano generalmente dopo 18 o 36 ore dal momento in cui la tossina viene a contatto con l'organismo. In alcuni casi possono passare anche molti giorni, fino a 8, prima di lamentare i segni della tossinfezione.

I sintomi del botulismo

Quali sono i sintomi? Nella fase iniziale ci possono essere diarrea, dolori addominali, nausea e vomito, quindi qualcosa di molto simile a una gastroenterite, fanno notare gli esperti di Humanitas. Ma in realtà la situazione progredisce poi molto rapidamente, e precipita, portando a difficoltà a deglutire e parlare, alterazione della vista, visione annebbiata o sdoppiata (diplopia), secchezza della bocca, palpebre cadenti, problemi di respirazione, difficoltà a muovere i muscoli facciali, paralisi.

Come si previene?

In Italia, ripercorre Epicentro, il botulismo è una malattia a notifica obbligatoria dal 1975. Nel 1990, a seguito della riorganizzazione del sistema informativo delle malattie infettive e diffusive, è stato inserito tra le malattie di classe I, per le quali è richiesta la segnalazione da parte del medico all'azienda sanitaria entro 12 ore dalla formulazione del sospetto clinico, percorso attraverso il quale il caso arriva all'attenzione del sistema di sorveglianza nazionale esistente per la patologia.

Come si previene il botulismo? La prevenzione - si legge nell'approfondimento di Humanitas - si attua evitando di consumare cibi sulla cui preparazione e conservazione non si hanno garanzie, e cibi scaduti. Le conserve fatte in casa, ad esempio, sono maggiormente rischiose di quelle di produzione industriale. Sono ritenute sicure le conserve di alimenti acidi, come passata di pomodoro e sott'aceto, con alte concentrazioni di zucchero come marmellate e confetture, sale, conserve in salamoia. In tutti i casi valgono le regole di igiene personale, regolare e scrupolosa. E quando ci si procura una ferita è sempre necessario disinfettarla accuratamente.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.

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Salute e Benessere

Sanità, Salutequità: “Lea a rischio anche da gennaio...

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Il presidente Aceti: "Miliardi dati alle Regioni a fronte di nessuna prestazione aggiuntiva"

 - (Fotogramma)

La Manovra 2025 mette 50 milioni di euro l'anno tra 2025 e 2030 per aggiornare i Lea, cioè le prestazioni erogate gratuitamente o dietro pagamento di un ticket da parte del Servizio sanitario nazionale, e le relative tariffe. Ma a essere in bilico ancora oggi, dopo oltre un lustro, è la stessa possibilità dei 'tariffari' di entrare in vigore all'inizio del prossimo anno. Sono i contenuti di un articolo pubblicato nel sito di Salutequità, che riprendono un'intervista di Tonino Aceti, presidente del 'laboratorio italiano' per l'analisi dell'andamento e dell’attuazione delle politiche sanitarie, a 'Il Sole 24 Ore'.

"Negli anni si sono accumulate risorse - si legge nel sito - Al 31 dicembre 2023 l'ammontare dei finanziamenti previsti dalla legge per l'aggiornamento delle tariffe di protesica e specialistica legato al Dpcm del 2017 è stato pari a 3,046 miliardi, a cui si aggiungono 400 milioni destinati a un ulteriore aggiornamento, per un totale di 3,446 miliardi". Sono "miliardi dati alle Regioni a fronte di nessuna prestazione Lea aggiuntiva garantita ai cittadini sul territorio nazionale", sottolinea Aceti che ricorda la lettera firmata dal Ragioniere generale dello Stato e inviata al ministro della Salute quando si decise l'ultimo slittamento al 2025. Una proroga a cui il Mef era nettamente contrario. "In un passaggio cruciale di quella missiva - spiega il presidente di Salutequità - si sottolinea come l'adozione del decreto tariffe sia fondamentale per ridurre le disuguaglianze anche a fronte di una mobilità sanitaria monstre. Per questo il Ragioniere generale aveva chiesto a Schillaci di rendere indisponibili quelle risorse, pari a 631 milioni per il 2024 e a 781 milioni a decorrere dal 2025, fino al loro effettivo impiego per le finalità indicate dalle norme e limitatamente agli impatti finanziari associati".

L'urgenza di creare un meccanismo di aggiornamento dei Lea è reale, frutto anche della continua innovazione che caratterizza i servizi sanitari, le tecnologie e i bisogni di salute. "Nel corso dell'ultimo anno - rileva Aceti - secondo la Corte dei conti la Commissione Lea ha proseguito nell'esame delle richieste di aggiornamento pervenute tramite il portale del ministero della Salute da parte di società scientifiche, Ordini professionali, Regioni e aziende sanitarie per approvarne 9 isorisorse e 12 che comportano oneri per la finanza pubblica. La Commissione ha quindi formulato due proposte che sono confluite nella complessiva proposta di aggiornamento del Dpcm 12 gennaio 2017. Però perché il via libera sia formalizzato occorre attendere l'entrata in vigore del decreto interministeriale che definisce le tariffe massime. Rinviato più volte, appunto, fino alla scadenza del 1° gennaio 2025". Una data a rischio, su cui la stessa Manovra di bilancio potrebbe riservare sorprese.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Salute e Benessere

Farmaci, lecanemab: nuovi dati su benefici a lungo termine...

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Presentati al Ctad nuovi risultati a 3 anni studio Clarity AD e tecnica per quantificazione protofibrille

Farmaci, lecanemab: nuovi dati su benefici a lungo termine in Alzheimer iniziale

Una somministrazione precoce e continuativa del trattamento con lecanemab, anticorpo monoclonale contro la proteina beta amiloide, può avere un impatto positivo nella progressione della malattia nei pazienti con Alzheimer in fase iniziale e fornire benefici a lungo termine. Sono questi, in sintesi, i risultati dello studio 'Clarity AD' presentati da Eisai e Biogen alla 17° Conferenza Ctad (Clinical Trials for Alzheimer's Disease) in corso a Madrid. Questi dati - si legge in una nota - ampliano quelli già illustrati a luglio 2024 durante l'Alzheimer's Association International Conference (Aaic), includendo ulteriori valutazioni derivanti dai 3 anni di trattamento continuo con lecanemab in pazienti con bassi livelli di amiloide cerebrale al basale.

Lecanemab, grazie al suo doppio meccanismo d'azione - riduce le placche di beta amiloide e previene il deposito di questa proteina nel cervello, ricorda la nota - è l'unico trattamento per la malattia di Alzheimer in fase precoce disponibile in grado di supportare la funzione neuronale eliminando anche le protofibrille, altamente tossiche, che alimentano il danno e la morte dei neuroni, anche dopo che le placche sono state rimosse dal cervello.

La quantificazione di queste protofibrille nel liquido cerebrospinale umano (Csf) è però complicata dalla loro bassa concentrazione. I ricercatori di Eisai hanno quindi approntato un nuovo metodo di misurazione che evidenzia il legame tra le protofibrille e i biomarcatori della neurodegenerazione. Grazie a questa nuova tecnica è stato possibile osservare che le protofibrille sono correlate più strettamente ai biomarcatori della malattia neurodegenerativa, indicando un chiaro ruolo significativo delle protofibrille nella disfunzione sinaptica in presenza di malattia di Alzheimer.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Salute e Benessere

Covid, ecco come la pandemia ci ha cambiato: meno uscite,...

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Due studi indagano sulla 'nuova normalità', così l'esperienza del virus ha cambiato le abitudini quotidiane delle persone

Lockdown nel 2020 - Afp

Non uscire, o uscire molto meno, è la 'nuova normalità' post Covid. Le cene? Averne fatte più spesso a casa in famiglia, nei lockdown, rispetto al passato ha avuto come vantaggio anche un aumento della qualità del tempo trascorso con i propri cari a tavola. Così l'esperienza della pandemia ha cambiato le abitudini quotidiane delle persone. Con un impatto pervasivo, ma anche duraturo, certifica la scienza. Due studi esplorano questi aspetti, dalla routine a tavola alla vita 'mondana'.

Pre e post Covid, i due studi sulla 'nuova normalità'

Rispetto all'esistenza prima del Covid-19, per esempio, secondo un nuovo studio pubblicato sul 'Journal of the American Planning Association', le persone trascorrono quasi un'ora in meno al giorno facendo attività fuori casa, comportamento che i ricercatori sostengono essere una conseguenza duratura della pandemia. Dal 2019 il calo complessivo del tempo di vita fuori casa è di circa 51 minuti, e si aggiunge anche una riduzione di quasi 12 minuti nel tempo trascorso alla guida della propria auto o sui mezzi pubblici.

L'analisi è basata su un sondaggio condotto su 34mila americani, ed è la prima a considerare e analizzare come è cambiato questo aspetto della vita fuori casa rispetto al tempo fra le mura domestiche dopo la pandemia. Gli autori della Clemson University e dell'Ucla (University of California Los Angeles) hanno documentato una tendenza che risale almeno al 2003, ma il Covid e le sue conseguenze hanno notevolmente aumentato questo spostamento delle persone verso la vita domestica. I ricercatori che firmano lo studio sono urbanisti, e sostengono che la tendenza a uscire meno di casa richieda un ripensamento di molte politiche di pianificazione e trasporto. Per esempio vanno ripensati uffici e negozi, se aumenta il lavoro da remoto e lo shopping da casa. I centri urbani devono un po' reinventarsi per adattarsi alle nuove esigenze. Si dovrebbe cercare, secondo l'autore principale Eric A. Morris, professore di pianificazione urbana e regionale alla Clemson University, di "investire di più nei punti di forza rimanenti", fra cui "opportunità per la ricreazione, l'intrattenimento, la cultura, l'arte e altro ancora. Le città centrali potrebbero spostarsi verso il diventare centri di consumo più che di produzione".

A 'spiare' invece le famiglie a tavola è stata una ricerca pubblicata dall'American Psychological Association. Lo studio, pubblicato sulla rivista 'Couple and Family Psychology: Research and Practice', ha osservato che le famiglie che mangiavano insieme più spesso durante la pandemia avevano anche interazioni più positive, condividevano notizie e informazioni e adottavano rimedi tecnologici come le videochiamate per restare in contatto pure con i familiari lontani. Secondo l'autrice principale Anne Fishel, Massachusetts General Hospital, nel complesso la ricerca suggerisce che l'aumento della frequenza delle cene in famiglia durante la pandemia potrebbe aver avuto effetti positivi duraturi sulle dinamiche familiari.

Gli esperti hanno esaminato i dati di un sondaggio condotto a maggio 2021 su 517 genitori di diverse etnie e condizioni socioeconomiche negli Stati Uniti. Il loro obiettivo era indagare sui cambiamenti nella frequenza e nella qualità delle cene in famiglia durante la pandemia di Covid. Oltre il 60% degli intervistati ha dichiarato di cenare insieme più spesso rispetto al periodo prima dell'irruzione di Sars-CoV-2 nelle vite di tutti. "Questo studio evidenzia l'importanza di esaminare sia la frequenza che la qualità per comprendere il quadro completo di come i pasti condivisi possano avere un impatto sulle famiglie", dice Fishel.

Proprio per questo motivo ai partecipanti è stato chiesto sia della frequenza delle cene, che della qualità e delle aspettative post-pandemia. In particolare, "il 56% ha affermato di aver parlato di più delle proprie giornate durante la cena, il 60% di aver parlato di più della propria identità di famiglia, il 60% ha raccontato di aver espresso più gratitudine, il 67% di aver riso di più insieme e il 59% di essersi sentito più connesso l'uno con l'altro a tavola", elenca Fishel. Questa associazione positiva è stata evidente in base a livelli di reddito, istruzione, età, genere e razza. La pandemia ha introdotto anche nuovi aspetti nelle cene in famiglia, per esempio i pranzi a distanza (in videochiamata) con i membri della famiglia allargata e più discussioni sugli eventi attuali, continua Fishel. Molte famiglie hanno quindi rafforzato potenzialmente il senso di appartenenza a un nucleo familiare più ampio. La maggior parte dei genitori che ha aumentato l'uso della tecnologia per le cene a distanza in pandemia ha riferito di voler continuare la pratica anche dopo.

I ricercatori hanno anche scoperto che più famiglie hanno preso l'abitudine di portare notizie e informazioni dal mondo esterno nelle loro conversazioni a cena, offrendo potenzialmente ai bambini uno spazio sicuro in cui discutere di ansie e dubbi con i genitori. Allo stesso modo "l'uso continuato della tecnologia da remoto per connettersi con chi non è fisicamente presente può portare a continue opportunità di legame familiare e far sì che i bambini provino un senso di appartenenza a un'unità più grande, che sappiamo essere protettivo per il loro benessere", conclude Fishel.

Quanto al resto delle attività casalinghe, l'altro studio entra nel merito considerando sia le abitudini di lavoro che quelle di svago, dati ricavati dall'American Time Use Survey, fotografia annuale di come gli americani trascorrono il loro tempo, in esecuzione dal 2003. Gli autori hanno esaminato il comportamento degli adulti da 17 anni in su e hanno raggruppato l'uso del tempo in 16 attività in casa dal sonno all'esercizio fisico, oltre a 12 attività fuori casa tra cui eventi artistici e sportivi, shopping, lavoro, appuntamenti religiosi. Separatamente, hanno analizzato i viaggi in auto, a piedi e sui mezzi pubblici. I risultati hanno mostrato che il tempo trascorso su 8 delle 12 attività fuori casa è diminuito dal 2019 al 2021, mentre 11 delle 16 attività domestiche sono aumentate. Il tempo medio per le attività fuori casa è sceso da 334 minuti al giorno nel 2019 a 271 nel 2021, all'incirca da 5,5 ore al giorno fuori casa a 4,5. Lo 'smart working' per gli autori spiega parte di questa tendenza, ma ci sono state grandi diminuzioni anche in altri usi del tempo fuori casa. La quota lontano dalle mura domestiche si è ripresa solo modestamente dopo la pandemia, rimbalzando di soli 11 minuti dal 2021 al 2023 (fino a 281). E la tendenza a uscire meno sembra reggere. Questo 'ritiro in casa' era in corso da almeno 16 anni prima della pandemia. Ma i cali delle attività fuori dal domicilio sono stati molto maggiori dopo la pandemia rispetto ai trend precedenti.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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