L’aspettativa di vita non è uguale per tutti in Europa e una città italiana conquista il podio
Le donne vivono più degli uomini e in alcune regioni europee l’aspettativa di vita alla nascita può essere molto diversa. A fotografare la situazione della longevità in Europa è il report Eurostat che segnala che nel l’aspettativa di vita alla nascita è continuata a crescere, ma non in maniera uniforme.
Se da un lato la vita si allunga per molti, dall’altro emerge un panorama frastagliato, con differenze significative non solo tra i singoli Paesi, ma anche all’interno degli stessi Stati membri. Le disuguaglianze regionali e di genere sono ancora ben visibili: ecco dove.
Le donne vivono più a lungo?
In Europa, le donne continuano a vivere più a lungo degli uomini, con un divario che nel 2022 si è attestato sui 5,4 anni. In media, le donne dell’Unione europea possono aspettarsi di vivere fino a 83,3 anni, mentre gli uomini raggiungono “solo” i 77,9 anni.
Questi numeri si riflettono nelle statistiche regionali, dove alcune aree spagnole si distinguono per l’alto livello di aspettativa di vita. La Comunidad de Madrid, per esempio, detiene il primato con una media di 87,7 anni per le donne, seguita dalla Comunidad Foral de Navarra e da Castilla y León. Ma il panorama non è altrettanto luminoso in altre aree dell’Europa, in particolare in alcune zone dell’Est.
Le regioni più vulnerabili, come Mayotte (un dipartimento francese situato nell’Oceano Indiano) e alcune zone della Bulgaria, presentano le aspettative di vita più basse. A Mayotte, ad esempio, l’aspettativa di vita per le donne si ferma a 74,4 anni, un dato che segnala chiaramente disuguaglianze economiche, sociali e sanitarie significative.
A livello regionale, Severozapaden e altre aree bulgare come Severen tsentralen e Yugoiztochen registrano numeri simili, segnalando una persistente difficoltà di accesso ai servizi sanitari e a condizioni di vita adeguate.
Per gli uomini un futuro “meno roseo”
Anche per gli uomini, Madrid si conferma il “luogo del benessere” con un’aspettativa di vita di 82,4 anni. In questa classifica, il nord Italia e la Svezia non sono lontani, con Trento e Stoccolma che raggiungono rispettivamente 82,3 anni.
Tuttavia, la situazione cambia drasticamente in altre regioni, dove l’aspettativa di vita degli uomini scende ben al di sotto dei 70 anni. Nella regione bulgara di Severozapaden, ad esempio, gli uomini vivono in media solo 68,7 anni, un dato allarmante che riflette povertà, disoccupazione e una minore qualità delle infrastrutture sanitarie.
Anche in Lettonia e altre aree bulgare, l’aspettativa di vita per gli uomini è ben al di sotto dei 70 anni. In queste regioni, le disuguaglianze sociali, le difficoltà economiche e un sistema sanitario spesso carente sembrano giocare un ruolo fondamentale nella determinazione della durata della vita.
È interessante notare che, mentre le donne tendono a vivere più a lungo in tutte le regioni, gli uomini più poveri e meno assistiti sono quelli che registrano le perdite maggiori in termini di longevità.
Disparità di genere
Un dato che non passa inosservato è la marcata disparità di genere. In alcuni Paesi, soprattutto in quelli baltici e in certe regioni della Polonia e della Romania, il divario tra uomini e donne è particolarmente evidente.
In Lettonia, ad esempio, le donne vivono in media 10 anni più a lungo degli uomini. Questo ampio divario potrebbe essere spiegato in parte da fattori come abitudini personali, differenze nelle condizioni lavorative e una generale minore attenzione alla salute da parte della popolazione maschile. La vita più lunga delle donne in queste aree può anche riflettere una maggiore cura della propria salute e un accesso migliore ai servizi sanitari preventivi.
Per contro, in Paesi come la Danimarca, l’Irlanda, i Paesi Bassi e la Svezia, la differenza tra le aspettative di vita di uomini e donne è molto più contenuta. Qui, il divario di genere è talmente ridotto che, in alcune regioni come Mayotte, praticamente non esiste: le donne vivono solo 0,4 anni in più rispetto agli uomini. Questo dato suggerisce che in alcune aree dell’Europa i fattori sociali, economici e sanitari stiano lentamente contribuendo a ridurre il gap di longevità tra i due sessi, un segno che, almeno in qualche ambito, la parità di genere è possibile.
Perché le donne vivono più a lungo?
Storicamente, le donne hanno vissuto più a lungo degli uomini in quasi tutti i Paesi del mondo. Il divario di genere per la longevità è dovuto al funzionamento immunitario femminile più attivo, l’effetto protettivo degli estrogeni, gli effetti compensatori del secondo cromosoma X, la riduzione dell’attività dell’ormone della crescita e l’influenza dello stress ossidativo sull’invecchiamento e sulle malattie.
Lo studio “Twentieth century surge of excessive adult male mortality”, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, sostenuto dal National Institute on Aging e condotto dalla University of Southern California Leonard Davis School of Gerontology ha rilevato che diversi sono i fattori che possono incidere su questo gap di longevità:
• Fattori bio-genetici: Le donne, con il corredo cromosomico XX, potrebbero godere di una maggiore protezione contro alcune patologie grazie a un cromosoma X in più rispetto agli uomini (XY). Le donne, inoltre, sono soggette a patologie riproduttive differenti (tumori al seno e all’utero, mentre gli uomini alla prostata). Anche l’effetto protettivo degli ormoni femminili potrebbe giocare un ruolo.
• Fattori bio-psicologici: Il testosterone maschile è associato a comportamenti più aggressivi e rischiosi, aumentando la mortalità maschile per suicidi, violenze, incidenti e malattie legate a stili di vita rischiosi.
• Fattori comportamentali: Le differenze nei comportamenti di salute, come l’abitudine al fumo, sono state rilevanti. Storicamente, il fumo era più comune tra gli uomini, ma ha visto una crescita tra le donne negli ultimi decenni, con effetti negativi sulla salute cardiovascolare e i tumori.
Sebbene le donne vivano più a lungo degli uomini, la loro vita sana è meno lunga. Le donne soffrono più frequentemente di malattie disabilitanti (osteoporosi, artrite reumatoide), mentre gli uomini sono maggiormente colpiti da malattie letali come i tumori e le malattie cardiovascolari. Pertanto, le donne tendono a vivere più a lungo ma con un periodo di vita attiva più breve rispetto agli uomini.
L’Europa mostra così un mosaico di esperienze diverse e il divario di longevità tra diverse aree è un richiamo alla necessità di politiche sanitarie più inclusive, mirate a ridurre le disuguaglianze e a garantire a tutti, indipendentemente dalla regione in cui vivono, una vita lunga e sana. La lunga vita non è solo una questione di numeri, ma di opportunità. La vera sfida per l’Europa del futuro è rendere l’aspettativa di vita, soprattutto quella sana, un diritto per tutti, senza che il luogo di nascita o il genere diventino fattori di disuguaglianza.
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Congedo parentale all’80% solo per i papà, la proposta...
Innalzare dal 30% all’80% della retribuzione l’indennità per il terzo mese di congedo parentale, ma solo per i papà. È questa è la proposta avanzata dal presidente dell’Inps Gabriele Fava in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato per la Legge di bilancio. La proposta mira a favorire una ripartizione più equa delle responsabilità genitoriali, che in Italia sono ancora fortemente sbilanciate sulle madri, che usufruiscono del congedo spesso per periodi più lunghi dei padri e con pesanti ricadute sulle loro carriere.
Perché il congedo riservato ai papà? Le radici della disparità
I numeri parlano chiaro. In Italia, dopo la nascita del primo figlio la probabilità che una madre lasci il settore privato aumenta al 18%, un tasso significativamente superiore rispetto all’11% degli anni precedenti alla maternità. Invece, per i padri, il rischio di abbandono del posto di lavoro rimane pressoché invariato. Questo quando va bene. Quando va male, il che non è raro, le neomamme sono costrette a dimettersi, a sostituire il loro lavoro con uno completamente diverso e non retribuito mentre la loro carriera si arena. Ancora una volta, parlano i dati: secondo il report Save the Children ‘Le Equilibriste – La maternità in Italia 2024’, nel nostro Paese una lavoratrice su cinque rinuncia al lavoro dopo la maternità e il 72,8% delle dimissioni dei neogenitori proviene dalle mamme.
Il Rapporto evidenzia inoltre che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello europeo pari a 9,4 punti percentuali.
Una nuova visione del congedo parentale: incentivare la partecipazione maschile
La proposta dell’Inps di riservare l’indennità maggiorata all’80% ai padri mira a ridurre questo squilibrio. La Manovra finanziaria 2024 ha mirato allo stesso obiettivo, cambiando le norme sul congedo parentale. L’indennità del secondo mese è stata portata dal 30% al 60%, che diventa 80% solo per il 2024. La scorsa legge di Bilancio ha previsto un indennizzo dell’80% della retribuzione per i primi due mesi di congedo parentale, anche se punto occorre fare delle precisazioni. In quest’anno che ormai volge al termine, l’indennità per il primo mese è salita dal 60% all’80% mentre quella del secondo mese è rimasta all’80% solo per le famiglie che hanno terminato o termineranno il congedo obbligatorio entro quest’anno.
In pratica, la Manovra 2024 ha aggiunto un’indennità pari all’80% della retribuzione per un mese entro il sesto anno di vita del bambino per i lavoratori dipendenti che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, successivamente al 31 dicembre 2023. L’attuale disciplina del congedo parentale concede a ciascun genitore dipendente la possibilità di prendersi fino a dieci mesi di congedo retribuito (con l’indennità all’80% limitata a una mensilità), da fruire nei primi 12 anni di vita del figlio.
Tuttavia, nonostante le disposizioni legislative che incentivano l’uso condiviso del congedo, sono soprattutto le madri a richiedere il congedo e a usufruirne per periodi più estesi. Una circostanza che cozza persino con l’obiettivo del congedo parentale, come ha spiegato il direttore centrale Studi e Ricerche dell’Inps Gianfranco Santoro: “Se il fine del congedo parentale è quello di favorire l’occupazione femminile, lo si riservi al padre”. Assegnare un’indennità elevata esclusivamente ai padri rappresenterebbe un incentivo concreto a modificare il contesto attuale: non solo permetterebbe ai padri di sentirsi legittimati nel prendere tempo dal lavoro per accudire i figli, ma potrebbe contribuire a un cambio di prospettiva collettiva, in cui il ruolo paterno di cura viene normalizzato e valorizzato anche sul piano professionale.
Sono gli stessi papà a chiedere più congedi parentali per la nascita dei propri figli, in modo da poter condividere i primi attimi della loro vita e distribuire in maniera equilibrata i compiti con la partner. Insomma, la proposta di riservare il terzo mese di congedo parentale ai padri è al passo con i tempi e risponde all’esigenza di “non lasciare le donne troppo lontane dal mercato del lavoro, favorendone un loro rientro, senza pregiudicarne lo sviluppo professionale e economico”, ha spiegato ancora Santoro aggiungendo che “Sommare tre mesi di congedo parentale ai cinque mesi di congedo obbligatorio significa allontanare le madri dal mondo del lavoro”.
Dimissioni e difficoltà di conciliazione: una questione ancora femminile
L’impatto della maternità sulle carriere femminili è confermato anche dai numeri delle dimissioni volontarie. Nel 2022, ben 61.391 genitori con figli piccoli hanno lasciato il lavoro volontariamente, con una netta prevalenza di donne (72,8%). Le ragioni più comuni? La difficoltà nel conciliare lavoro e cura (41,7%) e le problematiche organizzative (21,9%). La mancanza di servizi di assistenza adeguati e un contesto lavorativo spesso poco flessibile continuano a rappresentare un grande ostacolo per le madri italiane, troppe volte costrette a rinunciare alla carriera per far fronte agli impegni familiari. Una situazione iniqua che dal privato ricade sul pubblico, aggravando la crisi demografica del Paese.
Il modello dei Paesi nordici
La proposta dell’Inps si ispira anche a modelli europei, in particolare a quelli dei paesi nordici, dove i congedi riservati ai padri hanno avuto un impatto significativo sull’equilibrio di genere. In Svezia, ad esempio, una parte del congedo parentale è riservata esclusivamente ai padri: se non viene utilizzata, va persa. Questo approccio ha contribuito a modificare le dinamiche familiari, riducendo le disparità di genere nel mercato del lavoro e creando una cultura in cui entrambi i genitori condividono più equamente i compiti di cura.
Non è un caso che in Svezia e in Danimarca lavorino di più le madri con figli che quelle senza (+7,7% in Svezia e +7% in Danimarca). Cose che un italiano fa fatica anche a leggere. Una situazione simile, con differenze minori, è stata registrata in Croazia, Lettonia, Portogallo, Slovenia, Paesi Bassi e Finlandia, come evidenziato dal rapporto 2024 di Eurostat sull’uguaglianza e la non discriminazione nell’Ue.
Il futuro delle politiche familiari in Italia
L’idea di riservare dell’Inps di riservare il terzo mese di congedo parentale all’80% esclusivamente ai papà è interessante, ma l’esperienza ci insegna che per tornare a riempire le culle non bastano le misure ad hoc.
Molto dipenderà dalla capacità delle aziende e delle istituzioni di sostenere un cambiamento culturale più ampio, in cui la cura dei figli venga considerata una responsabilità condivisa e non un “dovere” quasi esclusivo delle madri. Affinché questa proposta non rimanga solo un progetto ambizioso, sarà fondamentale il coinvolgimento delle aziende nella promozione di modelli di lavoro flessibili, per favorire un reale bilanciamento tra lavoro e vita privata, sia per le madri che per i padri. Qualcosa in Italia si sta muovendo ma quasi esclusivamente da parte delle grandi aziende che hanno la potenza economica, infrastrutturale e manageriale per introdurre queste novità. Se si vuole vincere la sfida demografica, serve che i buoni esempi di welfare siano la regola, non l’eccezione.
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TikTok, genitori denunciano l’app perché “danneggia i...
TikTok e il suo algoritmo esporrebbero i giovani a contenuti che li mettono in pericolo. Sette famiglie francesi, per questo motivo, hanno deciso di denunciare l’app cinese. A raccontare la vicenda è Maître Laure Boutron-Marmion, avvocata penalista specializzata nella difesa dei minori coinvolti nella denuncia, due dei quali hanno posto fine alla loro vita recentemente.
“Vi confermo che ho presentato al tribunale di Créteil un ricorso proposto da sette famiglie che denunciano tutte la stessa cosa, il deterioramento dello stato di salute fisica e mentale dei loro figli – ha raccontato l’avvocata lunedì 4 novembre a Franceinfo -. Purtroppo, alcuni non sono più qui per parlarne”.
Denunce e testimonianze contro TikTok
Le sette famiglie si sono unite attorno ad un collettivo che ha preso il nome di Algos Victima. Secondo le testimonianze raccolte dal collettivo, l’algoritmo di TikTok proporrebbe numerosi video che promuovono il suicidio, l’autolesionismo o che presentano disturbi alimentari.
“Il nostro appello è ricco di documenti e di prove tangibili per ciascuna delle storie di queste sette famiglie”, ha precisato l’avvocata. Questo appello si aggiunge a una denuncia penale presentata nel 2023 dai genitori di una di loro, Marie, che si è suicidata.
Una delle testimonianze raccolte dal quotidiano francese racconta di una giovane ragazza, già vittima di molestie e bullismo a scuola, che, da quando ha ricevuto il suo primo cellulare a 14 anni, ha iniziato a vedere per puro caso contenuti che incoraggiano l’autolesionismo, il suicidio e simili. Su TikTok, ha spiegato l’adolescente, “ci sono, ad esempio, persone che mostrano le loro cicatrici, alcune ancora fresche, con il sangue. Oppure gente che dice che andrà a comprare delle lamette e altre che dicono che, se non finisci al pronto soccorso dopo un tentativo di suicidio, non conta. Oppure, per i disturbi alimentari, bisogna essere sottopeso, con la sonda nel naso, per essere considerati”.
“TikTok – ha aggiunto la ragazza – mi ha incoraggiato a porre fine alla mia vita, dando consigli su dove acquistare medicine o cosa usare per farsi del male, cose del genere. Mi sono resa conto che avevo solo video di persone tristi, ma questo mi ha fatto piacere, mi è piaciuto perché mi sentivo ascoltato”.
E dopo un tentativo di suicidio, “vorrei che TikTok rivedesse le sue priorità di scelta dei contenuti, perché ci sono video che incitano al suicidio o all’autolesionismo, o altre cose del genere, che sono abbastanza comuni sulla piattaforma. In ogni caso, su TikTok ho preso davvero coscienza di molte cose che non sono salutari”.
TikTok nel mirino dei governi
Non è la prima volta che TikTok finisce “a processo” per questo genere di eventi. Anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha più volte ribadito che il social network rappresenta una minaccia agli anni dell’adolescenza che sono molto importanti per le “funzioni cerebrali” e “per lo sviluppo della personalità”. Per questo preoccupa la Commissione Ue, ma non solo. Anche perché le “interferenze” operate tramite i social media “su scala industriale” non sarebbero le stesse che hanno in Cina. Lì è “leggero e motivante”, in Europa no. E così “non può” andare avanti: “È un terreno completamente nuovo – ha spiegato – La tutela dei minori e il lavoro contro le caratteristiche di questi social che creano dipendenza sono cose di cui l’Ue si deve occupare”.
Per pedagogisti e studiosi dello sviluppo cognitivo giovanile il problema è ancora più profondo e riguarda proprio l’uso o meno dello smartphone da parte di adolescenti e giovani. Una petizione è in corso nel nostro Paese e vede protagonista la richiesta al governo di vietare ai minori di 14 anni di avere un cellulare e agli under 16 di aprire un profilo sui social media.
Per il momento, il divieto è arrivato negli istituti scolastici italiani e europei con esempi quali il liceo Volta di Torino che chiude a chiave gli smartphone delle prime e seconde classi. Mentre da quest’anno, il governo olandese ha esteso il divieto di smartphone, smartwatch e tablet a tutte le scuole primarie e secondarie, per contrastare le distrazioni e migliorare le prestazioni accademiche. Così come la Francia stessa che ha vietato l’uso degli smartphone nelle scuole elementari e medie dal 2018, per promuovere un ambiente di apprendimento più sano e ridurre la dipendenza dai dispositivi digitali. O anche la Grecia che ha implementato divieti simili nelle scuole, in linea con un trend crescente in Europa volto a ridurre l’impatto negativo della tecnologia sull’istruzione.
Secondo il surgeon general degli Stati Uniti, Vivek Murthy, una delle più alte cariche sanitarie del Paese, negli Usa il 95% degli adolescenti di età compresa tra 13 e 17 anni afferma di utilizzare almeno un’app di social media e più di un terzo afferma di utilizzarla “quasi costantemente”. In un report da loro redatto lo scorso anno è emerso che 1 adolescente su tre usa il cellulare anche oltre la mezzanotte e che spesso sente di essere vittima di “insoddisfazione del proprio corpo, disturbi alimentari, confronto sociale e bassa autostima, specialmente tra le ragazze adolescenti”.
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Manovra, fino a 1.000 euro in più all’anno, ecco come...
Gli stipendi degli italiani potrebbero cambiare dal 2025, e non di poco. Il testo della Manovra prevede fino a mille euro in più all’anno per chi ha redditi tra 35 mila e 40 mila euro e dei bonus (indennità) per chi ha redditi fino 20 mila euro. Per le altre fasce subentra una novità storica per l’assetto fiscale italiano: dal prossimo anno non conterà più solo la retribuzione da dipendente, ma il reddito complessivo, quindi anche eventuali guadagni da case in affitto e simili.
Stipendi, come e perché cambiano dal 2025
Prima di approfondire le novità previste nella Manovra, un paio di considerazioni:
- se “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, “il Fisco italiano è un sistema fondato sul ceto medio”, come confermano i Report di Itinerari previdenziali sulla spesa pubblica e le dichiarazioni dei redditi 2022. I contribuenti che dichiarano almeno 35 mila euro sono circa 6,4 milioni, il 15,27%, ma pagano il 63,4% delle imposte
- il sistema fiscale ha creato un paradossale effetto soglia, una “trappola” fiscale per cui chi supera anche di un centesimo il reddito di 35.000 euro guadagna (al netto) meno di alcuni contribuenti che stanno al di sotto di questa soglia, perché oltre i 35.000 euro non si applica il taglio del cuneo fiscale. La “perdita” annuale può arrivare fino a 1.100 euro.
Questo paradosso si traduce in un disincentivo ad aumentare i salari e, in alcuni casi, “incentiva” gli aumenti salariali in nero.
L’intervento del governo punta a introdurre una riforma più inclusiva, con benefici distribuiti in modo graduale su una platea di lavoratori più ampia e un nuovo meccanismo di calcolo basato sul reddito complessivo.
Il “paradosso di quota 35 mila euro” era emerso all’indomani della Manovra 2024, quando l’Ufficio parlamentare di bilancio aveva spiegato che “la modalità per fasce (e non per scaglioni, ndr.) fa cessare ogni beneficio oltre la soglia di retribuzione lorda di 35 mila euro”.
Addio taglio del cuneo fiscale nel 2025
La manovra introduce una nuova forma di bonus fiscali che va a sostituire il taglio del cuneo fiscale inaugurato dal governo Draghi e in vigore fino al 31 dicembre 2024. La platea dei beneficiari si allarga dai 13 milioni coinvolti finora a oltre 14 milioni e, considerando anche la conferma del taglio delle aliquote Irpef da quattro a tre il costo per le casse pubbliche sale dai 14 ai 17 miliardi.
Il testo della Manovra propone una riduzione graduale (décalage) delle agevolazioni per far cessare il paradosso fiscale appena visto sopra. Questo cambiamento permette di evitare il brusco calo di reddito netto, sostenendo così gli aumenti salariali regolari. La situazione sarà la seguente:
- Per i redditi tra 20 mila e 32 mila euro praticamente non cambierà nulla: ci sarà una detrazione fissa di mille euro all’anno, ovvero 83,3 euro per dodici mensilità. Come vedremo, la situazione resta invariata anche fino a 36 mila euro, pur cambiando il meccanismo;
- Per i redditi dai 32 mila euro fino ai 44 mila euro si attuerà un décalage di sgravio: tra i 35 e i 36 mila euro si prevedono circa mille euro annuali in più in busta paga; quindi, in pratica non cambierà nulla per chi rientra in questi redditi. Lo sgravio cala progressivamente fino a 5,5 euro in più all’anno per chi guadagna 44 mila euro.
C’è poi un’altra differenza fondamentale: a differenza del passato, dove lo sgravio era applicato solo sul “reddito da lavoro”, ora si tiene conto del “reddito complessivo” di ogni lavoratore, che può includere anche altre fonti di reddito, inclusi i canoni di affitto. Di conseguenza, chi ha altre entrate oltre allo stipendio potrebbe non beneficiare dello sgravio, anche se ha un reddito da lavoro che non supera i 44 mila euro annui.
Bonus per i redditi sotto i 20 mila euro
Per i redditi inferiori ai 20 mila euro, la Manovra 2025 introduce un indennità calcolata come percentuale sul reddito annuale. Questo contributo non concorre alla formazione del reddito imponibile ed è modulato in base alle tre fasce:
- Redditi fino a 8.500 euro: in questa fascia, il bonus equivale al 7,1% del reddito annuale;
- Redditi tra 8.500 e 15 mila euro: il bonus scende al 5,3%;
- Redditi tra 15 mila e 20 mila euro: l’importo del bonus corrisponde al 4,8% del reddito;
Ad esempio, chi percepisce 15 mila euro annui riceverà circa 795 euro di bonus (pari a circa 66,25 euro mensili), un importo comparabile a quello attuale grazie al taglio del cuneo contributivo. Per i redditi prossimi ai 20 mila euro, il beneficio si attesta attorno a 960 euro, migliorando lievemente rispetto al 2024.
Stipendi dal 2025, lo schema
La Manovra interviene quindi sia introducendo delle indennità, sia rimodulando il taglio del cuneo fiscale. Spiegati i meccanismi, ecco uno schema pratico tra i vari scaglioni di reddito:
- Inferiori a 8.500 euro (no tax area): bonus pari al 7,1% del reddito;
- Tra 8.500 euro e 15 mila euro 5,3%: bonus al 5,3%;
- Tra 15 mila euro e 20 mila euro: bonus al 4,8%.
Per questi ultimi redditi, la situazione sarà analoga a quella attuale, solo che al posto del taglio del cuneo fiscale ci saranno delle indennità, dei bonus. Continuando:
- Tra i 20 mila euro e i 32 mila euro: sgravio fiscale di mille euro fissi;
- Tra i 32 mila euro e i 36 mila euro: sistema diverso (décalage) ma non cambia la sostanza, si resterà sui mille euro in più all’anno;
- Tra i 36 mila e i 44 mila euro: sgravio progressivo fino a raggiungere la quota di 5,5 euro annui per i redditi di 44 mila euro.
In pratica, riceveranno sicuramente un beneficio i contribuenti che rientrano nei redditi (complessivi e non solo da lavoro) tra i 35 mila e i 40 mila. Per gli altri, la differenza può essere minima rispetto al “vecchio” sistema del taglio del cuneo.