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Australia, divieto social per gli under 16. L’esperto: “In Italia sarebbe indice di civiltà”

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L’Australia introdurrà limiti di età per l’uso dei social media e la notizia ha già creato un dibattito internazionale.

La polemica sull’argomento si è amplificata nel Paese dopo la morte di una studentessa, Ella Catley-Crawford, di Brisbane, vittima giovanissima di cyberbullismo che a maggio si è tolta la vita e, secondo alcuni esponenti di governo, sarebbe solo la punta di iceberg molto più grande. Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha sostenuto che il divieto dei social sotto i 16 anni sarà legge “entro la fine dell’anno”, poiché il partito laburista sostiene con fermezza che questo “limite nasce per proteggere i bambini dai pericoli online”.

E in Italia si parla già di “Scuole smartphone free” e una petizione, con oltre 70mila firme, chiede il divieto di cellulari sotto i 14 anni e dei social sotto i 16. Secondo il pedagogista Daniele Novara, oltre che essere un bene per la salute dei giovani, sarebbe un grande “gesto di civiltà per il nostro Paese”.

Australia e social: verso il divieto

Le piattaforme social prevedono già limiti di età fissate tra i 13 e i 14 anni. Il problema, secondo le famiglie, i genitori e gli esperti, è che non mettono in pratica i dovuti controlli per assicurarsi che non si iscrivano ragazzi più piccoli. È per questo motivo che il premier australiano, entro la fine dell’anno, ha previsto l’introduzione di una legge per aumentare il limite di età a 16 anni. L’Australia, in questo modo, diverrebbe uno tra i primi Paesi al mondo a imporre un’età minima per l’uso dei social media.

In una riunione straordinaria del governo nazionale, Albanese chiederà ai rappresentanti regionali di sostenere la proposta approvata dal suo governo. Ma non è solo una scelta politica, perché, come riporta l’Herald Sun, gli esperti che studiano la legge sostengono che il piano del governo di imporre limiti di età sui social media ha fondamenta scientifiche.

Quali rischi corrono gli adolescenti con i social?

Il dottor Simon Wilksch, ricercatore senior in psicologia presso la Flinders University, ha affermato al quotidiano australiano che il suo lavoro con i giovani di età compresa tra 11 e 13 anni ha dimostrato un legame tra i disturbi alimentari e la quantità di tempo che trascorrono sui social media: “L’inizio e la metà dell’adolescenza sono periodi in cui il cervello cerca ricompense sociali, in cui aumenta la sensibilità all’attenzione e all’approvazione degli altri”.

E le sue tesi sono supportate dalla professoressa neuroscienziata Selena Bartlett della Queensland University of Technology, secondo la quale, il cervello degli adolescenti è vulnerabile perché si trova in “un periodo di neuroplasticità”. “Il cervello del bambino è aperto all’impulsività e alla scarsa capacità decisionale, ovvero alla dipendenza. Il cervello non è completamente sviluppato fino ai 22 anni per le ragazze e ai 25 per i ragazzi”.

Anche uno studio globale pubblicato su Lancet Psychiatry ha scoperto che gli indicatori della salute mentale dei giovani sono diminuiti in tutto il mondo negli ultimi due decenni e che l’età di massima insorgenza delle malattie mentali è proprio 15 anni.

La reazione alla notizia

Se c’è chi da un lato accoglie la notizia con entusiasmo, meno felici sembrano essere i gestori di queste piattaforme. In primis, il danno è d’immagine, perché sostenere che non si fa a sufficienza per tutelare i minori, oltre che un reato perseguibile, sarebbe un grande colpo di reputazione. Ma è anche una questione di applicabilità delle norme.

Meta, società di Facebook e Instagram, ha dichiarato che avrebbe collaborato con il governo australiano nel processo di consultazione alla formazione della norma. Lo scorso settembre, Antigone Davis, vicepresidente globale per la sicurezza dell’azienda, ha dichiarato a una commissione parlamentare che gli utenti di tecnologia di età inferiore ai 16 anni dovrebbero avere bisogno dell’approvazione dei genitori prima di scaricare le app. Altre piattaforme, invece, sostengono di avere già limiti di questo tipo e che faranno il possibile per mediare i contenuti al proprio interno anche per le fasce minime di età consentita.

Per quanto riguarda i limiti negli altri Paesi, dagli Stati Uniti, alla Corea del Sud, passando per India e Brasile, già sono in vigore per gli adolescenti o si sta altrettanto pianificando di introdurre regole simili.

L’Unione europea si è espressa in passato, con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ha sostenuto che alcune di queste piattaforme rischiano di creare depressione e ansia. Una conseguenza è la decisione di sette famiglie francesi che hanno provveduto per vie legali contro TikTok perché, secondo loro, “non farebbe abbastanza per moderare i contenuti, amplificando il dolore dei figli”.

“Smartphone free” in Italia

In Italia, una petizione, a firma di pedagogisti e psicoterapeuti e presentata al governo, chiede esattamente un divieto degli smartphone sotto i 14 anni e e dei social sotto i 16. “La notizia che arriva dall’Australia – ha commentato Daniele Novara, pedagogista e ideatore della petizione in Italia – è sicuramente positiva, è anche una delle richieste presenti nell’appello ‘Stop smartphone e social sotti i 14 e 16 anni’ indirizzato al governo italiano”.

Secondo l’esperto, infatti, le “piattaforme devono avere l’obbligo di controllare l’età dei loro utenti e i governi devono agire perché questa legge venga rispettata. Il controllo non può essere delegato totalmente ai genitori che devono concentrarsi sull’educazione e non sulle procedure di vigilanza. I genitori oggi sono lasciati soli, come se la crescita delle nuove generazioni fosse un problema solo loro e non dell’intera comunità. Quindi guardo con estremo interesse quello che sta succedendo nel mondo. L’Australia si sta facendo capofila di un movimento internazionale su cui l’Italia assolutamente non dovrebbe risultare una retroguardia, ma un’avanguardia”.

E ha concluso: “Certo il nostro appello, che ha raccolto 70.000, punta anche al divieto di utilizzo di smartphone sotto i 14 anni, cosa che garantirebbe davvero alle nuove generazioni di evitare che il loro cervello entri in uno stato osmotico con i vari device. Gli smartphone sono capaci di attaccarsi alle aree dopaminergiche neuro-cerebrali impedendo ai bambini, alle bambine, ai ragazzi e le ragazze di fare una vita normale fatta di relazioni, di gioco, di spazi aperti. Non possiamo rimanere immobili di fronte a una generazione che rischia di isolarsi nelle camerette in una condizione di gravissimo rischio psico-evolutivo. Rischio abbondantemente segnalato da tutti gli indicatori psichiatrici e sociologici”.

Ma non è solo una questione di salute per i giovani, per Novara è proprio “un indice di civiltà. Ricordiamoci che siamo il Paese che per primo ha abrogato nel mondo le classi differenziali e i manicomi, due leggi a tutela delle fasce più deboli e fragili della nostra società. Ora si pone un problema simile e mi auguro che la politica, che già ha dato segnali di interesse, passi al più presto dalle parole ai fatti, con norme chiare che non lascino il cerino per l’ennesima volta in mano ai genitori”.

E le opinioni del pedagogista trovano il ministro dell’Istruzione italiano d’accordo. Infatti, secondo Valditara bisognerebbe “che i giovani prendano una pausa, almeno a scuola, dallo smartphone per fare in modo che non maturino una dipendenza”.

“Facciamo che le scuole siano ambienti smartphone free. Molti Paesi hanno già avviato un percorso di contenimento dell’utilizzo in particolare per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado, come abbiamo fatto noi”. Ma si può fare di più: “vietare l’accesso ai social ai minori di 15 anni – sostiene Valditara -. Esiste già una direttiva europea che interviene su questo settore, ora bisogna arrivare al riconoscimento dell’utente”. Dell’uso degli smartphone a scuola e dei social sotto una certa età, si discuterà il 25 novembre a Bruxelles.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Medico di base per le persone senza dimora, un’attesa...

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Homeless

Dopo un’attesa durata quindici anni, il riconoscimento di un medico di base alle persone senza fissa diventa realtà, per ora nelle 14 città metropolitane dove questo fenomeno è più frequente.

Mercoledì 6 novembre, infatti, il Senato ha finalmente approvato all’unanimità una legge che assicura l’accesso all’assistenza sanitaria per gli homeless in Italia, incluse le cure del medico di base. Presentata dal deputato Marco Furfaro (Pd), la nuova norma colma un vuoto che ha lasciato per troppo tempo oltre 100.000 persone escluse da cure essenziali per il semplice fatto di non avere una residenza anagrafica. Un paradosso che teneva queste persone ancora più ai margini della società. La riforma seguirà due anni di sperimentazione, ma l’obiettivo è renderla strutturale.

Fino ad oggi, chi viveva in strada poteva accedere solo alle cure di emergenza, come quelle garantite nei pronto soccorso, mentre ogni altra prestazione del Servizio Sanitario Nazionale era inaccessibile. Molti Comuni avevano adottato soluzioni temporanee, come la creazione di indirizzi “fittizi” per iscrivere le persone senza dimora alle liste sanitarie, ma si trattava di un espediente instabile, complesso e applicati in casi sporadici.

Un diritto universale che diventa reale

Con la nuova legge, finalmente chi vive in strada potrà avere un medico di base senza il bisogno di un indirizzo formale. È una svolta tanto semplice quanto necessaria: poter contare su una figura medica stabile significa prevenire e curare patologie croniche, garantendo dignità e sicurezza anche a chi è più vulnerabile. La salute è un diritto di tutti, ma per le persone senza dimora, fino all’approvazione di questa legge, era un diritto solo sulla carta, anche se di rango costituzionale (art. 32).

Il contributo di Avvocato di Strada e una battaglia lunga anni

La battaglia per questa legge ha origini lontane e ha visto in prima linea Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di Strada. L’associazione fornisce dal 2001 assistenza legale gratuita alle persone senza dimora, affrontando quotidianamente casi di esclusione e difficoltà burocratiche che impediscono l’accesso ai servizi essenziali. Fu proprio Mumolo a proporre una prima versione della legge più di quindici anni fa, ma l’iter parlamentare si era bloccato per tre legislature consecutive.

Due anni fa, Mumolo era riuscito a ottenere l’approvazione di una legge regionale in Emilia-Romagna che per la prima volta garantiva il medico di base anche a chi non aveva una residenza. Da lì, l’iniziativa si era estesa in altre regioni come Abruzzo, Calabria, Liguria, Marche e Puglia, dove leggi simili erano state approvate. “In questo modo tante persone affette da malattie croniche hanno potuto iniziare a curarsi,” ha spiegato Mumolo, sottolineando come queste leggi abbiano già salvato delle vite.

Un fondo da 1 milione di euro

La nuova normativa prevede un fondo di 1 milione di euro all’anno per il 2025 e il 2026 per avviare un programma sperimentale nelle principali 14 città metropolitane d’Italia: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia. Qui si concentrano le maggiori popolazioni di persone senza dimora e dove l’accesso al medico di base sarà, per molte persone, una novità che potrà fare la differenza. L’obiettivo è estendere il diritto alla salute in modo uniforme e duraturo, evitando che la mancanza di una residenza continui a essere una barriera.

Un passo avanti verso una sanità inclusiva

Questo provvedimento non solo rappresenta un traguardo per chi vive in strada, ma getta le basi per una sanità più inclusiva e sostenibile, in un periodo in cui il Ssn è in grave crisi. Anche se per molti è controintuitivo, permettere a tutti di accedere alle cure di base può contribuire a ridurre la pressione sui pronto soccorso, alleggerendo i costi per il Sistema e migliorando complessivamente la salute pubblica.

L’inclusione sanitaria per le persone senza dimora è anche una questione di giustizia sociale: offrire protezione sanitaria a chi è più vulnerabile significa proteggere il diritto alla salute di tutta la comunità. Una sanità che esclude diventa inevitabilmente più costosa e meno efficace.

Un futuro dove nessuno è invisibile

Con questa legge, l’Italia compie un passo importante verso una società più giusta e coesa. Per troppo tempo, il diritto alla salute per chi non aveva una casa è stato considerato un “problema irrisolvibile”. Ora, invece, il riconoscimento di questo diritto rende finalmente concreto un principio semplice e fondamentale: nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno deve essere invisibile.

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Chiara Balistreri su TikTok: “Il mio ex scappato dai...

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Chiara Balistreri Tiktok picchiata dall'ex

Chiara Balistreri ha appena 21 anni e la sua vita è di nuovo in pericolo: “Preferisco registrarmi da viva prima che diventi l’ennesimo caso di femminicidio” denuncia su TikTok la giovane ragazza di Bologna prima di attaccare le istituzioni italiane per la situazione in cui si trova. Due anni e mezzo fa, Chiara è stata pestata con calci e pugni dal compagno, che lei ha denunciato.

@chiara_balistreri___

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♬ suono originale – Chiara______🤍

L’uomo, Gabriel, ha trascorso due anni di latitanza all’estero, prima di finire agli arresti domiciliari il 26 ottobre scorso, quando una telefonata anonima al 113 ha avvertito la polizia, e la ragazza, del suo rientro in città. Ma gli arresti domiciliari non sono serviti a nulla: il ragazzo è scappato e ora è di nuovo a piede libero nonostante le gravi minacce rivolte alla donna: “In questi due anni e mezzo non ha mai smesso con le minacce, non ha mai smesso di dire che sarebbe ritornato a bruciarmi con l’acido, ad uccidermi, a farmela pagare per averlo denunciato”, ha raccontato su TikTok Chiara Balistreri, la cui storia è stata ripresa anche da“Le Iene” e “Chi l’ha visto?”

Chiara Balistreri
Chiara Balistreri sui social

Chiara Balistreri contro i domiciliari per l’ex

Le parole della giovane donna fanno riflettere sulla necessità di prevedere nuove regole e meccanismi di tutela specifici, adeguati alla fattispecie. Dopo l’efferato femminicidio di Giulia Cecchettin da parte dell’ex Filippo Turetta, l’opinione pubblica ha sviluppato una maggiore comprensione di quanto gli uomini malati di gelosia e/o invidia siano più imprevedibili di molti criminali, nonché estremamente pericolosi per le donne che finiscono nel loro mirino. L’ennesima prova arriva dalla stessa Chiara che in passato, su TikTok, aveva già dato conto delle minacce ricevute dall’ex anche dopo la condanna del giudice.

È giusto concedere gli arresti domiciliari in queste condizioni, assumendosi il rischio che l’uomo, ormai fuori controllo, scappi e vada a caccia della sua vittima? “Vorrei ringraziare il giudice che ha dato la possibilità a Gabriel di ritornare a casa sua, di farlo scappare per la seconda volta dopo che si è dichiarato latitante per due anni e mezzo”, attacca Chiara. “Mi chiedo anche se quel giudice” avrebbe “dato la stessa pena a Gabriel” e avrebbe usato “lo stesso metro di misura se io fossi stata sua figlia”, si chiede amareggiata la ragazza, che non comprende la scelta dei domiciliari “Nonostante un tentato omicidio (…) una latitanza, violenze fisiche, domestiche e lesioni gravi” perpetrate per cinque anni dall’ex compagno Gabriel che, spiega Chiara, è potuto tornare “nella stessa casa dove mi ha rotto il naso”, prima di scappare per la seconda volta.

La giovane ragazza non usa giri di parole: “Preferisco dare la mia testimonianza e parlarne ora da viva prima che diventi l’ennesimo caso di femminicidio”, confessa impaurita e allo stesso tempo arrabbiata: “Non so che piega prenderà la vicenda, che piega prenderà la mia vita. Mi domando perché in Italia bisogna per forza aspettare la tragedia per muoversi e per fare qualcosa nel giusto modo”.

Intanto, Chiara Balistreri non può più vivere la propria vita normalmente, deve avere paura di andare al lavoro, di uscire, di avere una vita normale, ora che il suo ex è di nuovo a piede libero.

Cosa dice la legge

In Italia, il femminicidio non è un reato specifico, bensì rientra nella fattispecie generica dell’omicidio. Il Codice penale prevede pene specifiche e aggravanti per i reati di violenza di genere, ma non prevede ancora pene e misure specifiche per il femminicidio rispetto all’omicidio come denuncia la stessa Chiara Balistreri. Negli anni, sono state introdotte modifiche legislative che contemplano aggravanti per determinati contesti.

La legislazione si è evoluta specialmente dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013, che ha fornito un quadro normativo per la protezione delle donne contro ogni forma di violenza. Nello stesso anno, il decreto-legge 93 ha introdotto misure urgenti per la sicurezza e il contrasto alla violenza di genere. Nel 2019, con la legge numero 69, è stato rafforzato il Codice Rosso che prevede specifiche tutele per le vittime di violenza domestica e di genere, introducendo nuove fattispecie penali (ma non il reato di femminicidio) e l’inasprimento delle pene per reati come maltrattamenti e stalking. Il Codice Rosso prevede anche una corsia preferenziale per le denunce di violenza.

Pene previste

  • Omicidio: la pena per omicidio può variare da un minimo di 21 anni fino all’ergastolo in casi di particolare gravità;
  • Violenza sessuale: le pene variano da 6 a 12 anni, mentre per la violenza sessuale di gruppo si va da 12 a 14 anni. In caso di reati sessuali contro una persona con cui si ha avuto una relazione affettiva, è prevista la pena dell’ergastolo;
  • Maltrattamenti in famiglia: le pene vanno da 3 a 7 anni, con aggravamenti in caso di vittime vulnerabili (come donne in gravidanza o minori);
  • Stalking: la pena per stalking varia da 6 mesi a 6 anni, con possibilità di aggravamento in caso di relazioni affettive.

Aggravanti specifiche

La legge italiana prevede diverse aggravanti che possono aumentare le pene nei seguenti casi:

  1. Stalking: se il reato è commesso nei confronti di una donna in stato di gravidanza o da parte di un coniuge/ex coniuge, la pena è aumentata;
  2. Violenza sessuale: le aggravanti si applicano se la vittima è un minore o una donna in gravidanza. In tali situazioni, la pena può aumentare fino a un terzo;
  3. Minacce: la multa per minacce può arrivare fino a 1.032 euro, rispetto ai 51 euro previsti precedentemente;
  4. Lesioni permanenti: il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso è punito con pene da 8 a 14 anni;
  5. Violazione dei provvedimenti: La violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare è punita con pene da 6 mesi a 3 anni.

La legge n. 168 del 2023 ha previsto ulteriori modifiche al Codice Rosso, come il potenziamento delle misure cautelari, e l’introduzione dell’uso del braccialetto elettronico per monitorare i trasgressori. I numeri sui femminicidi e la situazione della giovane Chiara Balistreri che non può più vivere una vita normale nonostante la condanna al suo ex fidanzato dimostrano che la legge non fa sentire sicure le donne minacciate dagli uomini.

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L’aborto farmacologico precoce non è pericoloso per la...

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ecografia gravidanza

Non solo salute, ma anche “una questione politica”, L’aborto, per la dottoressa Karin Brandell, ginecologa presso il Karolinska University Hospital e dottoranda presso il Department of Women’s and Children’s Health, è soggetto a due strade: da un lato la scienza, che procede dimostrando che “l’aborto farmacologico precoce non è pericoloso per la salute delle donne” e dall’altro la politica che influisce direttamente sul diritto all’aborto in diversi Stati del mondo.

Cliniche e ospedali attualmente rinviano l’aborto farmacologico fino a quando l’ecografia non conferma una gravidanza all’interno dell’utero. Tuttavia, un ampio studio internazionale condotto da ricercatori della Facoltà di Medicina del Karolinska Institutet in Svezia della dottoressa Brandell ha indicato che il trattamento può essere ugualmente efficace e sicuro anche prima della sesta settimana di gravidanza. Lo studio è stato pubblicato su The New England Journal of Medicine.

“Le donne spesso scoprono molto presto se sono incinte e la maggior parte sa anche se desidera interrompere la gravidanza e, in tal caso, desidera che ciò avvenga il più rapidamente possibile”, ha spiegato l’autrice dello studio Brandell. “Per questo abbiamo voluto studiare se l’aborto molto precoce è efficace e sicuro quanto quello nelle settimane successive“.

Lo studio

In Svezia nel 2023 sono stati effettuati 35.550 aborti, oltre il 60% dei quali prima della fine della settima settimana di gravidanza – secondo quanto riportano dall’Istituto di Medicina svedese. Spesso, la procedura viene rinviata fino a quando non viene confermata l’assenza o presenza di una gravidanza intrauterina, tramite ecografia vaginale, per escludere la possibilità di una gravidanza ectopica, in cui l’embrione si attacca all’esterno dell’utero, solitamente nelle tube di Falloppio. In quel caso, la gravidanza non viene interrotta da un aborto farmacologico perché può essere pericoloso per la vita della donna. Ma, un’ecografia rivela una gravidanza a partire dalla quinta o sesta settimana, limite massimo per accedere all’aborto in alcuni Stati (Florida, Usa, ad esempio).

Lo studio, denominato “Vema (Very early medical abortion)”, ha coinvolto oltre 1.500 donne in 26 cliniche in nove Paesi. Si trattava di donne che avevano richiesto un aborto prima che l’ecografia potesse confermare una possibile gravidanza intrauterina. Divise in due gruppi, le donne sono state assegnate in modo casuale a una pratica di aborto ritardato (nella settimana 5-6) o a un aborto precoce (nella settimana 4-5). Entrambi i gruppi hanno ricevuto due farmaci: mifepristone e misoprostolo.

All’inizio dello studio, tutte le partecipanti erano incinte di almeno 5 settimane e non presentavano sintomi di gravidanza ectopica (ad esempio dolore addominale o sanguinamento) o fattori di rischio per tale gravidanza (ad esempio gravidanza nonostante spirale o precedenti gravidanze ectopiche). La misura dell’esito era l’interruzione della gravidanza, cioè l’aborto completo.

“L’aborto farmacologico molto precoce è risultato altrettanto efficace e sicuro da eseguire, anche in caso di gravidanza ectopica non diagnosticata”, ha spiegato Kristina Gemzell-Danielsson, professoressa di ostetricia e ginecologia presso lo stesso dipartimento e medico senior al Karolinska University Hospital, oltre che responsabile del progetto dello studio Vema.

“Una questione politica”

In entrambi i gruppi, oltre il 95% delle donne ha avuto un aborto completo, ma le poche procedure fallite differivano per diversi casi. Il trattamento ritardato è stato incompleto nel 4,5% dei casi e ha richiesto un ulteriore intervento chirurgico. Nello 0,1% dei casi, la gravidanza è continuata. Nel gruppo in cui l’aborto è stato sottoposto precocemente, la gravidanza è continuata nel 3% dei casi e l’1,8% ha richiesto un intervento chirurgico per aborto incompleto. Un totale dell’1% di tutte le partecipanti ha avuto una gravidanza ectopica. Le donne del primo gruppo hanno riferito meno dolore e sanguinamento. In entrambi i gruppi, le donne hanno anche espresso il desiderio di abortire il più rapidamente possibile.

L’aborto è una questione politica oltre che medica“, ha spiegato la dottoressa Brandell. “In Svezia, una donna può ripetere la procedura una settimana dopo un aborto precoce fallito. Ma una donna in Texas, dove l’aborto è vietato dopo la sesta settimana, non può. Era quindi importante dimostrare che l’aborto precoce equivale all’attuale procedura standard”.

Le parole della dottoressa arrivano in un contesto nel quale, in alcuni Stati americani, in concomitanza con le presidenziali, si è votato anche un referendum per inserire in Costituzione il diritto d’aborto. In sintesi, gli Stati del sud e del Midwest, come la Florida, il Nebraska e il South Dakota, stanno rafforzando le leggi restrittive, mentre Stati come l’Arizona, il Missouri, il Nevada, il Montana, e vari Stati della costa orientale e occidentale (come Maryland, Colorado e New York) stanno cercando di garantire l’accesso all’aborto attraverso modifiche costituzionali o ampliamenti delle leggi esistenti.

Questo dimostra come il diritto all’aborto sia diventato un tema centrale nella politica statale americana, con implicazioni significative per le donne e per la politica sanitaria di ogni singolo Stato. La situazione continua a evolversi, con molte battaglie legali e politiche in corso a livello locale e nazionale e non solo in America.

In Italia, ad esempio, ha fatto scalpore la determina del 9 ottobre, in Emilia-Romagna, che ha aggiornato il protocollo per l’aborto farmacologico introducendo la possibilità di assumere la seconda pillola abortiva a casa con assistenza in telemedicina. Sarà possibile ricevere il farmaco a domicilio senza dover tornare in ospedale o in consultorio, a partire dal primo gennaio 2025.

Migliori aborti e contraccettivi

I ricercatori ora vogliono testare se una nuova combinazione di farmaci per l’aborto precoce sia efficace anche per le gravidanze ectopiche. Stanno anche sviluppando nuovi contraccettivi basati su uno dei componenti degli attuali farmaci abortivi, come il mifepristone, ad esempio. “Può essere assunto in una dose inferiore rispetto a quella per l’aborto per prevenire gravidanze indesiderate sotto forma di una compressa a settimana o quando necessario“, ha spiegato il professor Gemzell-Danielsson.

Lo studio è stato sostenuto da sovvenzioni dello Swedish Research Council, fondi di ricerca del Hospital System di Helsinki e Uusimaa, della European Society of Contraception and Reproductive Health, della Nordic Federation of Societies of Obstetrics and Gynecology, della Gothenburg Society of Medicine e una sovvenzione ALF (Karolinska Institutet/Region Stockholm).

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