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Medico di base per le persone senza dimora, un’attesa durata quindici anni

Homeless

Dopo un’attesa durata quindici anni, il riconoscimento di un medico di base alle persone senza fissa diventa realtà, per ora nelle 14 città metropolitane dove questo fenomeno è più frequente.

Mercoledì 6 novembre, infatti, il Senato ha finalmente approvato all’unanimità una legge che assicura l’accesso all’assistenza sanitaria per gli homeless in Italia, incluse le cure del medico di base. Presentata dal deputato Marco Furfaro (Pd), la nuova norma colma un vuoto che ha lasciato per troppo tempo oltre 100.000 persone escluse da cure essenziali per il semplice fatto di non avere una residenza anagrafica. Un paradosso che teneva queste persone ancora più ai margini della società. La riforma seguirà due anni di sperimentazione, ma l’obiettivo è renderla strutturale.

Fino ad oggi, chi viveva in strada poteva accedere solo alle cure di emergenza, come quelle garantite nei pronto soccorso, mentre ogni altra prestazione del Servizio Sanitario Nazionale era inaccessibile. Molti Comuni avevano adottato soluzioni temporanee, come la creazione di indirizzi “fittizi” per iscrivere le persone senza dimora alle liste sanitarie, ma si trattava di un espediente instabile, complesso e applicati in casi sporadici.

Un diritto universale che diventa reale

Con la nuova legge, finalmente chi vive in strada potrà avere un medico di base senza il bisogno di un indirizzo formale. È una svolta tanto semplice quanto necessaria: poter contare su una figura medica stabile significa prevenire e curare patologie croniche, garantendo dignità e sicurezza anche a chi è più vulnerabile. La salute è un diritto di tutti, ma per le persone senza dimora, fino all’approvazione di questa legge, era un diritto solo sulla carta, anche se di rango costituzionale (art. 32).

Il contributo di Avvocato di Strada e una battaglia lunga anni

La battaglia per questa legge ha origini lontane e ha visto in prima linea Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di Strada. L’associazione fornisce dal 2001 assistenza legale gratuita alle persone senza dimora, affrontando quotidianamente casi di esclusione e difficoltà burocratiche che impediscono l’accesso ai servizi essenziali. Fu proprio Mumolo a proporre una prima versione della legge più di quindici anni fa, ma l’iter parlamentare si era bloccato per tre legislature consecutive.

Due anni fa, Mumolo era riuscito a ottenere l’approvazione di una legge regionale in Emilia-Romagna che per la prima volta garantiva il medico di base anche a chi non aveva una residenza. Da lì, l’iniziativa si era estesa in altre regioni come Abruzzo, Calabria, Liguria, Marche e Puglia, dove leggi simili erano state approvate. “In questo modo tante persone affette da malattie croniche hanno potuto iniziare a curarsi,” ha spiegato Mumolo, sottolineando come queste leggi abbiano già salvato delle vite.

Un fondo da 1 milione di euro

La nuova normativa prevede un fondo di 1 milione di euro all’anno per il 2025 e il 2026 per avviare un programma sperimentale nelle principali 14 città metropolitane d’Italia: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia. Qui si concentrano le maggiori popolazioni di persone senza dimora e dove l’accesso al medico di base sarà, per molte persone, una novità che potrà fare la differenza. L’obiettivo è estendere il diritto alla salute in modo uniforme e duraturo, evitando che la mancanza di una residenza continui a essere una barriera.

Un passo avanti verso una sanità inclusiva

Questo provvedimento non solo rappresenta un traguardo per chi vive in strada, ma getta le basi per una sanità più inclusiva e sostenibile, in un periodo in cui il Ssn è in grave crisi. Anche se per molti è controintuitivo, permettere a tutti di accedere alle cure di base può contribuire a ridurre la pressione sui pronto soccorso, alleggerendo i costi per il Sistema e migliorando complessivamente la salute pubblica.

L’inclusione sanitaria per le persone senza dimora è anche una questione di giustizia sociale: offrire protezione sanitaria a chi è più vulnerabile significa proteggere il diritto alla salute di tutta la comunità. Una sanità che esclude diventa inevitabilmente più costosa e meno efficace.

Un futuro dove nessuno è invisibile

Con questa legge, l’Italia compie un passo importante verso una società più giusta e coesa. Per troppo tempo, il diritto alla salute per chi non aveva una casa è stato considerato un “problema irrisolvibile”. Ora, invece, il riconoscimento di questo diritto rende finalmente concreto un principio semplice e fondamentale: nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno deve essere invisibile.

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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...

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Donna che fa una smorfia

Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.

I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’

Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.

Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.

‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà

Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.

Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.

Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.

Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.

La bellezza è anche un privilegio economico e sociale

Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.

Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.

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Bologna, 12 brasiliani chiedono la cittadinanza perché...

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Ragazza con bandiera italiana

12 brasiliani hanno chiesto al tribunale di Bologna la cittadinanza italiana. La parte anomala della vicenda è che la richiesta si basa su un’antenata in comune, nata a Marzabotto nel 1876.

Una richiesta formalmente legittima, ma di dubbia ragionevolezza giuridica, tanto che, con ordinanza, il tribunale di Bologna “ha sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina italiana in materia di cittadinanza, nella parte in cui prevede il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza alcun limite temporale”. Come spiegato dal presidente del tribunale Pasquale Liccardo, i giudici chiedono se sia legittimo riconoscere la cittadinanza anche se l’avo di riferimento sia nato molte generazioni prima (in questo caso quasi 150 anni fa) e i discendenti non abbiano alcun legame con la cultura, le tradizioni e la lingua italiana.

L’ordinanza del tribunale di Bologna

A firmare l’atto è stato il giudice Marco Gattuso, lo stesso che un mese fa aveva sollevato alla Corte di Giustizia Ue il rinvio pregiudiziale del decreto Paesi sicuri, attirandosi le critiche dell’esecutivo. In questo caso, Gattuso spiega che “la cittadinanza identifica l’elemento costitutivo del popolo, cui la Carta costituzionale riconosce la sovranità”, “il criterio che consente di distinguere il ‘popolo’ rispetto agli altri popoli”.

Da qui la questione di costituzionalità sullo ius sanguinis, che si applica senza alcun limite temporale purché la trasmissione di cittadinanza non sia mai stata interrotta con un atto formale di rinuncia. Il tribunale chiede alla Consulta di verificare se “tale disciplina sia o meno in contrasto con le nozioni di popolo e di cittadinanza richiamati nella Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia anche nell’ambito dell’Unione europea”, sottolineando implicitamente l’illogicità del meccanismo.

I 12 brasiliani, spiega ancora il tribunale di Bologna “chiedono l’accertamento della cittadinanza italiana per la sola presenza di un’antenata italiana, fra le decine di loro antenati non italiani, nata nel 1876 e partita da giovane dal nostro Paese”.

Il confronto con gli altri Paesi e il rischio di un precedente

Recentemente, il dibattito politico si è acceso sul tema della cittadinanza tra ius scholae, ius soli e ius sanguinis. Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato agevolmente le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.

Intanto, tranne rare eccezioni, vige uno ius sanguinis particolare: “l’ordinamento italiano è uno dei pochissimi al mondo a riconoscere lo ius sanguinis senza prevedere alcun limite”, scrive ancora il tribunale di Bologna nell’ordinanza spedita a Roma. I giudici si rivolgono alla Consulta non solo in merito alla richiesta dei 12 brasiliani, ma anche considerando che l’Italia “presenta all’estero, secondo le stime più accreditate, diverse decine di milioni di discendenti da un antenato italiano”. Un precedente in tal senso potrebbe generare un effetto a cascata nonostante la dubbia ragionevolezza giuridica del meccanismo.

Seguendo una interpretazione restrittiva della legge, i richiedenti possono diventare italiani pur non avendo mai visto l’Italia se non in video o in foto. Nel frattempo, milioni di immigrati nati e cresciuti in Italia non riescono ad ottenere la cittadinanza perché, tranne in rare eccezioni, non vige lo ius soli, né lo ius scholae o lo ius culturae.

L’analogia con il “caso veneto”

La questione sollevata dal tribunale di Bologna ricorda il “caso veneto”, dove 92mila bambini e ragazzi, figli di genitori stranieri, vivono e studiano senza avere la cittadinanza, mentre 300mila oriundi nati all’estero, con un trisavolo veneto, riescono a ottenerla. Il fenomeno pone interrogativi sul senso di appartenenza e cittadinanza nel nostro Paese, ma anche sui criteri con cui vengono stabiliti i diritti civili.

Il Veneto è una delle regioni italiane più colpite da questa dinamica, a causa del suo passato di forte emigrazione verso le Americhe tra Ottocento e Novecento. Molti discendenti di emigranti veneti, principalmente in Brasile e Argentina, richiedono la cittadinanza italiana grazie alla legge sullo ius sanguinis. Salvatore Laganà, presidente del Tribunale di Venezia, ha confermato che il 43% delle richieste per discendenza in tutta Italia proviene proprio dal Veneto. Dal trasferimento della competenza nel 2022, il Tribunale ha gestito oltre 23mila pratiche, con ancora 18mila richieste pendenti.

La regione oggi si trova a gestire migliaia di richieste di cittadinanza, un compito che grava pesantemente sui piccoli Comuni. Il paradosso demografico è evidente: in un territorio in cui nascono sempre meno bambini – circa 30mila all’anno – il numero di nuovi cittadini per discendenza supera di gran lunga quello delle nuove nascite.

Per approfondire: Alcuni comuni veneti hanno più richieste di cittadinanza che nuovi nati

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Congedo paternità obbligatorio, per Meloni è ‘no’. Valore...

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Padre legge un libro al figlio

Occorre stimolare un cambiamento culturale per quanto riguarda l’utilizzo dei congedi di paternità, ma per rendere questo cambiamento concreto e celere serve anche estendere la misura e renderla obbligatoria, in modo da “responsabilizzare entrambi i genitori nel loro ruolo educativo”. Lo ha sottolineato Valore D, associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e l’inclusività come fattore competitivo per la crescita delle aziende e del Paese, a proposito delle affermazioni della premier Giorgia Meloni espresse in un’intervista rilasciata alla direttrice di ‘Donna Moderna’ Maria Elena Viola.

Meloni: “No al congedo di paternità obbligatorio”

Nell’intervista Meloni aveva detto di non essere a favore dell’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, e questo perché la soluzione, ha precisato, è nella “libera scelta: il congedo parentale, infatti, vale sia per la madre che per il padre”.

La premier riconosce l’esistenza di un problema culturale su cui è favorevole a intervenire: in Italia gli uomini si vergognano a prendere il congedo parentale. “Sono d’accordo – ha detto – ed è qualcosa su cui bisogna lavorare, però non so quanto lo possiamo risolvere con un obbligo”.

“Il congedo parentale, come lo abbiamo ampliato noi, si utilizza fino al sesto anno di vita del bambino e consente alla famiglia di organizzarsi perché non si smette di essere genitori dopo i primi mesi di vita del figlio – ha spiegato. È un congedo che si prende a condizione necessaria. Se noi lo mettessimo obbligatorio potremmo aumentarlo di quanto? Dieci giorni, un mese? Non avrebbe lo stesso impatto. Culturalmente sì, però, secondo me, ha più senso se noi su questo lavoriamo sul piano culturale perché ci dà una risposta che può essere ugualmente utile, senza però comprimere quello che stiamo dando alle famiglie, perché tre mesi sono tre mesi. Sicuramente sul tema culturale questa è una battaglia che mi interessa”.

Valore D: da anni lavoriamo per promuovere congedo di paternità

In riferimento alla posizione espressa da Meloni, Valore D ha anche evidenziato come da anni l’associazione lavori attraverso le proprie associate per mettere in atto politiche che promuovano il congedo di paternità oltre i 10 giorni stabiliti dalla legislazione corrente, sottolineando che l’estensione del congedo di paternità e l’obbligatorietà della misura rimangano necessarie per raggiungere l’obiettivo di “una pari responsabilizzazione di entrambi i genitori”, e dunque per “migliorare il benessere della famiglia nel suo insieme” e arrivare a “contrastare l’inverno demografico italiano”.

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