Crollo delle nascite? De Palo: “Siamo in una fase di terremoto”
L’Italia è alle prese con una vera e propria emergenza demografica, che spinge esperti e rappresentanti politici a lanciare allarmi e a proporre soluzioni innovative per arginare una crisi che rischia di compromettere il futuro del Paese. A guidare questo movimento di sensibilizzazione è Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità, che nel corso del Tour della natalità a Roma (i prossimi a Palermo il 21 novembre e a Milano il 13 dicembre) ha rilanciato con forza il messaggio e l’urgenza di azioni concrete: “Crollo delle nascite? Siamo in una fase di terremoto. Non possiamo più permetterci una politica di frammentazione delle risorse. Serve un commissario straordinario per la natalità, e bisogna creare un’Agenzia dedicata con esperti capaci di elaborare proposte concrete per invertire la tendenza”.
Durante gli Stati Generali della Natalità a Roma, De Palo ha avanzato una proposta provocatoria ma significativa: nominare il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni come commissario straordinario per la natalità. L’idea nasce dalla consapevolezza che il problema è ormai troppo grande per essere affrontato con misure frammentarie.
Un problema sistemico che travolge l’Italia
La gravità della situazione è stata sottolineata anche dai dati presentati durante l’evento: il Lazio, così come il resto d’Italia, sta vivendo un calo delle nascite allarmante. Dal 2007 al 2023, i nuovi nati nella regione sono diminuiti del 35%, una percentuale che supera la già drammatica media nazionale del 34%, con la città metropolitana di Roma che registra un decremento del 36%. Un quadro preoccupante che trova riscontro nelle proiezioni demografiche dell’Istat per il 2050: il Lazio avrà 345.600 residenti in meno e un rapporto squilibrato tra over 65 e under 15 di 308 a 100.
Questi dati non sono solo numeri, ma fotografano un fenomeno che rischia di compromettere il tessuto sociale ed economico del Paese. L’invecchiamento progressivo della popolazione e il calo dei potenziali genitori alimentano una spirale negativa: meno giovani significa meno forza lavoro, meno innovazione e un sistema di welfare insostenibile. Come sottolinea De Palo, “lo squilibrio generazionale rischia di far crollare tutto, obbligando i nostri giovani ad andarsene”.
Un’Italia sempre più anziana e sempre meno ottimista
Secondo Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, il calo delle nascite non è solo una questione economica, ma riflette una profonda mancanza di speranza nel futuro. “I dati sul calo delle nascite nella nostra Regione, come nel resto d’Italia, mi preoccupano. Il trend è pericolosissimo”, sottolinea Rocca. “Ma non solo perché c’è una ragione economica dietro, soprattutto perché questo denota una mancanza di speranza sul futuro da parte dei giovani e delle giovani famiglie – prosegue-. Nel Lazio abbiamo strumenti modesti, con un sostegno alla natalità fragile fatta dalla precedentemente amministrazione, per dire che quanto questo non sia un tema di sinistra o destra. Noi abbiamo raddoppiato il fondo. Anche se ancora non basta. Proprio oggi approveremo il piano della procreazione medicalmente assistita. Mentre a gennaio sarà approvata la legge sulla famiglia”.
L’impegno delle amministrazioni locali: l’esempio di Roma
Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, intervenendo all’evento, ha illustrato le iniziative messe in campo dalla Capitale per sostenere la natalità. Tra queste, l’ampliamento della rete di asili nido, con tariffe abbattute fino alla gratuità per molte famiglie, e politiche per la casa che offrono contributi per l’affitto fino a 1.000 euro, reso possibile anche grazie alla Fondazione Roma
“Dobbiamo costruire un sistema che sostenga le famiglie e migliori la qualità del lavoro, soprattutto per i giovani”, ha affermato Gualtieri. “Nella fase del loro ingresso nel mercato del lavoro si trovano spesso ad essere sfruttati tra contratti precari e attività a cifre indecenti rendendo così impossibile formarsi una famiglia. Quindi, dobbiamo favorire la diffusione del lavoro di qualità, contrastare il precariato”. Il sindaco ha sottolineato l’importanza di estendere modelli di contrattazione virtuosi, come quelli introdotti per i lavori del Giubileo, anche al settore terziario.
La crisi delle nascite non è solo un problema nazionale, ma coinvolge profondamente i territori. Come sottolineato da Barbara Funari, assessora alle Politiche Sociali e alla Salute di Roma Capitale, “le politiche per la famiglia possono essere decisive, ma devono essere integrate e coordinate su più livelli”. L’iniziativa Rome for Baby, che distribuisce card per sostenere le spese delle neo-famiglie, rappresenta un piccolo passo nella giusta direzione. Tuttavia, il quadro complessivo richiede un approccio ben più ambizioso.
Quali soluzioni per il futuro?
Il presidente De Palo ha enfatizzato la necessità di rendere le città “a misura di famiglia”, puntando sulla conciliazione tra lavoro e vita privata. Le esperienze locali come quella di Roma possono fungere da modello, ma senza un coordinamento nazionale il rischio è quello di ottenere risultati frammentari e disomogenei.
Se l’Italia vuole superare la crisi demografica, deve puntare su interventi strutturali e coordinati. Tra le soluzioni proposte durante l’evento spiccano:
- sostegno economico diretto alle famiglie: contributi per l’infanzia, agevolazioni fiscali per i genitori e incentivi per le coppie giovani;
- politiche per il lavoro femminile: garantire maggiore autonomia e indipendenza economica alle donne attraverso contratti stabili e servizi di conciliazione lavoro-famiglia;
- potenziamento del welfare locale: ampliare la rete di asili nido e introdurre politiche abitative che rendano gli affitti sostenibili per le famiglie;
- un’agenzia nazionale della natalità: un ente capace di coordinare politiche a lungo termine, indipendentemente dal colore politico del governo in carica.
Il Tour della Natalità dimostra come il tema non sia solo una questione nazionale, ma anche locale. “Le politiche familiari territoriali possono incidere profondamente”, ha affermato De Palo. A Roma, come a Palermo e Milano, le amministrazioni locali sono chiamate a favorire la conciliazione tra famiglia e lavoro, rendendo le città a misura di bambini. Eventi come quelli organizzati dalla Fondazione per la Natalità servono a sensibilizzare l’opinione pubblica e a mettere pressione sulle istituzioni affinché agiscano.
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Vite spezzate, Napoli teatro di violenza: l’analisi del...
Emanuele Tufano, Santo Romano e Arcangelo Correra avevano rispettivamente 15, 17 e 18 anni quando la violenza ne ha stroncato le giovani vite. Sono loro le ultime tre vittime di un fenomeno che ha sconvolto la città di Napoli e l’opinione pubblica nazionale.
Come da cliché, la colpa sarà addossata alla Camorra, quell’Anti-Stato che entra nelle case del Mezzogiorno per sopperire alla mancanza di servizi. Ma la verità è che il fenomeno della violenza giovanile è più grande, diffuso ormai in tutta Italia, e non riguarda più solo il crimine e neppure solo il Sud.
Le responsabilità, così come le opportunità per combatterlo, vanno ricercate nelle stesse famiglie e nelle stesse istituzioni contro le quali oggi puntiamo il dito.
Non ci si può girare più dall’altro lato e far finta di niente. Perché? “Siamo sul baratro di un’emergenza educativa che non sembra interessare né la politica e neanche l’opinione pubblica – ci spiega il pedagogista Daniele Novara -. Ragazzi e ragazze vagano nella solitudine di un mondo che non li aiuta a crescere, ma sembra, anzi, fare di tutto per portarli in situazioni insostenibili”.
Come evitarlo? “Dobbiamo lavorare sulla capacità dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, di affrontare le contrarietà, di vivere le frustrazioni, di accettare il conflitto come motivo di crescita, come occasione per conoscere altri punti di vista. Il conflitto non deve essere più vissuto come una minaccia”. Ma cosa c’è dietro questo fenomeno e dove lo Stato e le istituzioni possono (e devono) intervenire?
“Favorire attività di gruppo”: sì, ma dove?
La scuola, secondo il pedagogista Novara, “dovrebbe urgentemente sviluppare il metodo della discussione, abbandonato da decenni. Dovrebbe favorire le attività di gruppo, sollecitare il confronto anche divergente tra alunni. Questo sosterrebbe davvero l’educazione alla comprensione reciproca. L’antidoto – conclude il pedagogista – alla violenza è imparare l’arte del vivere con se stessi e con gli altri”.
Si parla, quindi, della necessità di “attività di gruppo” e “confronto tra coetanei” che però viene a mancare quando mancano spazi di ritrovo, di aggregazione e di sviluppo del pensiero sociale e critico di un adolescente. A Napoli, infatti, ci sono solo 3,6 biblioteche per 1.000 abitanti minori. Molte scuole faticano a restare aperte a causa dei tagli ai personali. E, per una panoramica più ampia, meno della metà delle scuole italiane (46,4%) ha una palestra, con una percentuale che varia dal 41,5% per le scuole primarie al 53,2% per quelle secondarie di primo grado.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha firmato proprio oggi due decreti che mettono in campo un piano di 335 milioni di euro destinati al miglioramento delle palestre scolastiche. La maggior parte delle risorse, oltre il 72%, sarà destinata proprio al Mezzogiorno, con “l’obiettivo di rafforzare le infrastrutture sportive nelle scuole e garantire pari opportunità formative a tutti gli studenti”, si legge in una nota.
Abbandono scolastico
Secondo il ministro, inoltre, “le attività sportive non solo migliorano la salute e il benessere dei nostri giovani, ma contribuiscono in modo significativo all’inclusione sociale e alla lotta contro l’abbandono scolastico”.
Abbandono scolastico, però, che in Campania è più profondo che altrove. Il 21,7% dei giovani lascia la scuola precocemente. Il 30% è Neet, cioè non studia, non si forma e non cerca occupazione. A Napoli, la disoccupazione giovanile è al 31,39%. E a questi numeri si aggiunge l’aumento dei minori con armi che nel 2023 è stato pari ad un sequestro di 206 armi da fuoco, ben 51 in più rispetto all’anno precedente.
“Sempre più soli”, tra affettività e salute mentale
“Troviamo sempre più adolescenti isolati, ritirati nella realtà virtuale – ha poi spiegato il pedagogista -, e fin dall’infanzia abituati non a giocare con gli altri ma a giocare con un videoschermo. Sia chiaro, qui non si tratta di punire o di colpevolizzare comportamenti inammissibili, fatto salvo le leggi vigenti che vanno rispettate, ma di pensare a programmi di prevenzione educativa centrati sull’apprendimento delle buone pratiche relazionai, sociali, di autostima reciproca”.
L’abbandono alla realtà virtuale, per il pedagogista, così come per il Governo nazionale e per la maggior parte dei Paesi europei, ma non solo, si può ridurre con il divieto dell’uso degli smartphone tra i 14 e i 16 anni. Realtà come l’Australia o l’Italia stessa stanno varando provvedimenti per limitarne l’uso, almeno nelle scuole. Seppur utile, però, provvedimenti di questo tipo non sembrano sufficienti.
La violenza giovanile dilaga aldilà dell’online. Basti pensare che “Toccare o baciare una persona senza il suo consenso” è normale per un adolescente su cinque; così come Raccontare ad amici e amiche dettagli intimi del o della partner senza il consenso, va bene un adolescente su quattro.
Educazione affettiva
E se per le palestre, dopo le mense, arrivano fondi e progetti, ancora poco si sa di quella “Educazione all’affettività” promessa nelle scuole italiane. “L’educazione al rispetto verso le donne – ha dichiarato Valditara negli scorsi giorni al Corriere del Veneto – deve permeare l’intera attività didattica, non limitarsi alle 33 ore annuali di educazione civica previste per legge, anche attraverso laboratori”. Un timido rimando a quel progetto che risale all’anno scorso, ma del quale al momento, se non la proposta dello psichiatra Paolo Crepet come papabile coordinatore, non c’è altro.
La figura dello psicologo nelle scuole
Negli ultimi anni, inoltre, la questione del benessere psicologico nelle scuole italiane è diventata una priorità. Le proposte di legge A.C. 247 e A.C. 520, che puntano a introdurre la figura dello psicologo scolastico, riflettono la crescente consapevolezza dell’importanza di un supporto psicologico per studenti, docenti e famiglie.
Entrambe le proposte condividono obiettivi simili, come contrastare fenomeni di bullismo, ansia, stress e difficoltà relazionali, ma differiscono nelle modalità operative e nella copertura finanziaria. La A.C. 247 prevede che lo psicologo scolastico lavori sotto la direzione del dirigente scolastico, con un ruolo subordinato rispetto alla figura dirigenziale. Questo solleva preoccupazioni riguardo alla sua indipendenza professionale. Così come, la copertura finanziaria è incerta, con fondi che provengono da risorse destinate a interventi straordinari.
La A.C. 520, invece, punta a una gestione più flessibile, con criteri stabiliti dal Ministero dell’Istruzione e della Salute per selezionare gli psicologi scolastici. In questo caso, il professionista avrebbe un ruolo attivo nella comunità scolastica, partecipando ai consigli di classe e lavorando a stretto contatto con docenti e famiglie. L’approccio è preventivo e integrato, mirando a migliorare il benessere di tutti i membri della scuola.
Entrambe le proposte, però, hanno sollevato dubbi sulla copertura finanziaria. Se la prima prevedeva un impegno di 30 milioni di euro nel 2023, con un aumento a 60 milioni nel 2024, provenienti da un fondo utilizzato per emergenze straordinarie, ci si è interrogati sulla sostenibilità a lungo termine. La seconda prevede un impegno di 40 milioni annui, ma anche qui è mancata chiarezza su come garantire queste risorse nel tempo.
Il futuro dei giovani?
Dove è mancata la presenza dello Stato, si è insinuato l’Anti-Stato a prendersi “cura” di loro. Gli ha creato opportunità di lavoro, seppur criminali. Gli ha fornito famiglia e assistenza a chi non ne ha mai avuta una. E infine, ha alimentato scenari di violenza nel silenzio di chi la dà ormai per scontata.
Alcuni di questi sono stati costretti a scegliere il “male minore”. Gli altri combattono con la mancanza di opportunità e alternative. E a noi resta solo una domanda: “Cosa stiamo facendo per evitare che nel loro futuro ci sia tutta questa violenza?”
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Avere nipoti fa bene alla salute. Lo studio
Avere un nipote sembra essere una vera e propria “cura” contro la solitudine, soprattutto per gli anziani. Secondo un recente sondaggio dell’Università del Michigan, ben il 72% dei nonni afferma di sentirsi raramente isolato, un dato che supera di dieci punti percentuali quello delle persone senza nipoti.
Ma non si tratta solo di compagnia: i nonni sembrano godere anche di una salute mentale migliore rispetto a chi non ha nipoti, con solo il 9% che ha segnalato un umore negativo.
Un rapporto forte con i nipoti, dunque, non solo arricchisce la vita, ma fa anche bene alla mente e al cuore: i risultati dal National Poll on Healthy Aging.
Meno solitudine, più connessione sociale
Secondo il sondaggio, il 72% degli adulti anziani con nipoti dichiara di sentirsi raramente isolato, rispetto al 62% di coloro che non hanno nipoti. Un altro dato significativo riguarda la salute mentale: solo il 9% dei nonni riporta uno stato di salute mentale “scadente”, rispetto al 13% di chi non ha nipoti.
Questo suggerisce che l’interazione regolare con i nipoti possa avere un impatto positivo sul benessere psicologico degli anziani.
Kate Bauer, ricercatrice e professoressa associata di Scienze Nutrizionali alla School of Public Health dell’Università del Michigan, ha sottolineato che per molte persone anziane diventare nonni rappresenta una tappa importante della vita. “I nostri risultati dimostrano che ci sono molteplici aspetti positivi nel ruolo di nonno, alcuni dei quali potrebbero non essere ampiamente riconosciuti,” ha commentato.
Attualmente, secondo le stime di Ipsos, in Italia ci sono 12 milioni di nonni.
Il legame intergenerazionale e il ruolo della famiglia
Un altro aspetto interessante emerso dallo studio riguarda il tempo che i nonni trascorrono con i nipoti. Quasi la metà degli intervistati (49%) afferma di occuparsi dei propri nipoti almeno una volta ogni pochi mesi.
Un altro 18% li vede quotidianamente o quasi, mentre il 23% li vede una volta a settimana, e il 23% li incontra una o due volte al mese. Il 36%, infine, li vede ogni pochi mesi o meno.
Uno degli ambiti in cui il legame tra nonni e nipoti si esprime maggiormente è quello della cucina: circa il 61% dei nonni ha condiviso almeno un pasto con i propri nipoti nell’ultimo mese, e il 47% ha preparato o comprato cibo per loro. Il 36% dei nonni ha cucinato insieme ai propri nipoti, un momento che, oltre a favorire il legame affettivo, diventa anche un’opportunità per trasmettere tradizioni familiari, ricette e conoscenze culinarie.
“Il mangiare e, soprattutto, il cucinare insieme è un’opportunità per gli anziani di creare legami sociali e culturali, come tramandare conoscenze e ricette”, ha spiegato Bauer. “Data la frequenza con cui i nonni interagiscono con i nipoti attorno al cibo, è importante che trasmettano messaggi positivi e sani riguardo alla nutrizione e all’immagine corporea.”
Il valore della frequenza degli incontri
Il sondaggio ha anche evidenziato che i nonni che vedono i loro nipoti più frequentemente sono meno propensi a sentirsi soli o a sperimentare una mancanza di compagnia. Ad esempio, il 78% dei nonni che vedono i nipoti quasi tutti i giorni o ogni giorno afferma di sentirsi raramente isolato, rispetto al 65% di coloro che li vedono ogni pochi mesi o meno. Inoltre, il 70% di coloro che hanno incontri frequenti con i nipoti dichiara di non sentirsi mai soli, contro il 57% di quelli che li vedono sporadicamente.
Secondo il dottor Jeffrey Kullgren, direttore del sondaggio e professore associato di medicina interna all’Università del Michigan, i medici dovrebbero considerare la possibilità di chiedere ai loro pazienti anziani se sono coinvolti nella vita dei propri nipoti. “Potrebbero incoraggiare una maggiore partecipazione di coloro che stanno affrontando solitudine o depressione, anche se vivono lontano e devono connettersi virtualmente quando non possono essere insieme fisicamente,” ha suggerito Kullgren.
Il sondaggio dell’Università del Michigan evidenzia come il ruolo di nonno possa avere effetti benefici a livello sociale, psicologico e anche fisico. I nonni, grazie alla relazione con i nipoti, non solo combattono la solitudine, ma si mantengono attivi, trasmettono esperienze di vita e, soprattutto, contribuiscono a creare una rete di sostegno che arricchisce la vita di tutti i membri della famiglia.
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Che fine ha fatto la relazione annuale sull’aborto?
“Sono 46 anni che la relazione viene presentata: la relazione sull’attuazione della legge n.194 del 1978. E mai, in 46 anni, neanche negli anni ‘80 e ‘90 si è registrato ritardo simile. Cos’è successo per giustificare questo ritardo? Come è possibile che siamo nel 2024 e abbiamo i dati del 2021?”. A porre queste domande nelle aule parlamentari italiane è la deputata del Movimento 5 Stelle Gilda Sportiello. “C’è anche un rapporto Istat che riporta i dati del 2022, cosa che non fa il Governo. È un fatto tecnico o politico? L’Oms parla di aborto sicuro e tra gli ostacoli cita anche la mancanza di informazioni e non solo quelli che ci fate mancare voi non applicando la legge 194. Non ci dite che volete applicarla, perché altrimenti l’aborto farmacologico sarebbe garantito in tutte le Regioni in modo uguale”.
Le parole della deputata Sportiello sono diventate virali sui social e hanno attirato la curiosità di tutti quei cittadini interessati all’argomento. La Relazione annuale è un obbligo di legge e la scadenza per presentarla è il mese di febbraio. Non è la prima volta che c’è un ritardo, eppure siamo quasi alla fine dell’anno e dal ministero della Salute è arrivato solo un messaggio: “Sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza”.
La domanda che si pongono in tanti, oggi, è: che fine ha fatto la relazione annuale sull’aborto?
Relazione sull’aborto: “Una richiesta di legge”
Entro il mese di febbraio di oggi anno, la legge stabilisce che il Ministero della Salute debba presentare al Parlamento la “Relazione sull’attuazione della legge n.194 del 1978”. Legge che garantisce un aborto sicuro a tutte le donne e rappresenta una tutela sociale della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza. Ma della Relazione, fino ad oggi, neanche l’ombra.
I dati pubblicati negli scorsi anni sono spesso lacunosi e non offrono un quadro preciso e chiaro dell’effettiva attuazione della legge nel nostro Paese. Eppure, i 22 articoli che la compongono stabiliscono i modi, i tempi e i luoghi in cui si può ricorrere all’Ivg in Italia.
Per essere chiari: l’aborto è possibile entro i 90 giorni di gestazione per motivi di salute fisica o psichica, condizioni economiche, sociali o familiari, per previsioni di anomalie o malformazioni del concepito o per le circostanze in cui è avvenuto il concepimento. Dopo i 90 giorni l’Ivg è consentita solo nei casi in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna.
L’aborto deve essere, inoltre, praticato in una struttura sicura per la gestante. Bisogna quindi rivolgersi ad un medico che alla fine dell’incontro rilascia la copia di un documento che attesta lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta di aborto. Dopo sette giorni, si può accedere all’Ivg, salvo casi di necessità per salute.
La differenza tra aborto chirurgico e farmacologico
La deputata Sportiello, proseguendo nel suo intervento, ha denunciato la mancanza di informazioni di cui, secondo lei, soffrirebbe la maggioranza, sulla differenza tra aborto chirurgico e farmacologico. E bene, per aborto chirurgico si fa riferimento all’aspirazione del contenuto intrauterino, con anestesia locale o generale, a partire dalla quattordicesima settimana.
Con il termine “farmacologico”, invece, si intende l’assunzione di mifepristone, la pillola nota con il nome RU486 e, a distanza di 48 ore, della prostaglandina. Il primo, il mifepristone “causa la cessazione della vitalità dell’embrione”, mentre l’assunzione del secondo farmaco “ne determina l’espulsione”. Questa procedura avviene entro nove settimane di età gestazionale presso le strutture ambulatoriali pubbliche collegate a ospedali, i consultori o in day hospital. In alcune Regioni italiane, dal 2025, sarà possibile assumere i farmaci direttamente dalla propria abitazione. A regolare queste norme è l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) che ha modificato le linee guida sull’impiego del medicinale nel 2020.
Negli anni il ricorso all’aborto farmacologico è aumentato, passando da essere usato nel 3,3% degli interventi nel 2010 al 45,3% nel 2021, data alla quale risalgono i dati più recenti in materia.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) afferma che il sostegno degli operatori sanitari può essere autogestito dalle donne direttamente dalle proprie abitazioni. E mentre in Regioni come l’Emilia-Romagna, questo sarà realtà dal prossimo gennaio, nelle Marche, l’aborto farmacologico è utilizzato solo nel 19,6% dei casi, a differenza di regioni come la Liguria, nella quale la percentuale, sempre secondo i dati della Relazione del 2021, la percentuale è pari al 72,5% dei casi.
La mancanza di applicazione della legge n.194 del 1978
Una delle principali motivazioni per le quali deputati dell’opposizione e associazioni o enti che si occupano della materia criticano la mancata applicazione della legge, si deve anche agli obiettori di coscienza e al fatto che il Governo non garantisce un numero sufficiente di non obiettori per ogni Regione, costringendo le donne a spostarsi di chilometri per raggiungere una struttura che garantisca il loro diritto.
Con il termine “obiettori di coscienza” ci si riferisce a quei medici o operatori sanitari che possono liberamente scegliere di non effettuare gli interventi chirurgici perché “in contrato con i propri valori personali”, al netto dei casi in cui la vita della donna possa essere messa a rischio. Come stabilisce l’articolo 9 della legge 194, però, “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti”. Alle Regioni, il compito di assicurare l’aborto, “anche attraverso la mobilità del personale”.
Nel 2021, la percentuale media nazionale di obiettori di coscienza superava il 63% tra i ginecologi, il 33% tra il personale non medico e il 40,5% tra gli anestesisti. La distribuzione sul territorio nazionale, però, cambia tra l’Italia meridionale (78,5 per cento), quella insulare (76,5 per cento), e centrale (63 per cento) o settentrionale (54,7 per cento). La Sicilia detiene il numero maggiore, con l’85%, segue l’Abruzzo con l’84% e la Puglia, con l’80,6 per cento. In contrato, la provincia autonoma di Trento ha solo il 17%, la Valle d’Aosta il 25% e l’Emilia-Romagna il 45%.
Il numero di aborti nel 2021 è stato pari a 63.653, un calo del 72,9% rispetto al 1982, quando furono 234mila.
Che fine ha fatto la Relazione sull’aborto e perché è importante?
Se l’anno scorso la relazione è stata pubblicata a metà settembre e nel 2022 a giugno, nel 2021 a fine luglio, nel 2020 ad agosto, quest’anno, non è ancora stata pervenuta, nonostante il vincolo di febbraio come data ultima per legge. Per fare chiarezza, però, anche la relazione del 2017 è stata diffusa con un ritardo di dieci mesi. La Relazione riguarda l’attuazione della legge e dei suoi effetti, come stabilito dall’articolo 16.
Il diritto ad essere informati, diritto sancito dalla stessa Costituzione, prevede con la legge sull’aborto che una donna possa essere in grado di conoscere il tasso di obiettori di coscienza nella propria Regione di residenza o domicilio; quali sono i tempi utili per accedere alla pratica, ad esempio o, ancora, in quali strutture è possibile svolgere l’aborto. La mancanza della Relazione, o le sue lacune, così come il fatto che si riferisca a due anni precedenti (quella sui dati del 2021 è stata pubblicata lo scorso anno), non la rende neanche così tanto attendibile.
Se questa relazione è di competenza del Ministero della Salute, a quello della Giustizia spetta la relazione sulle violazioni della legge n.194 del 1978 e le richieste rivolte al giudice tutelare in caso di minorenni. Quest’ultima è arrivata il 4 aprile 2024, quando Carlo Nordio, ministro della Giustizia, ha trasmesso al Parlamento i dati relativi a questa fattispecie, riferiti al 2023. Questa seconda relazione, però, fornisce solo una panoramica parziale dell’andamento dell’aborto nel Paese. Il numero delle richieste al giudice tutelare, tra il 2021 e il 2023, sono aumentate rispettivamente da 348 nel 2021 a 394 nel 2022, fino alle 415 domande nel 2023.
La risposta dal Governo
In merito al ritardo sulla presentazione della ‘Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194’ “sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza” prevista dalla normativa. Questo perché “la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati analitici sulle interruzioni volontarie di gravidanza di tutte le Regioni e province autonome, determina un procedimento comprensibilmente lungo e delicato, che impegna a fondo l’insieme del Sistema di sorveglianza, dalle strutture periferiche a quelle centrali”. Lo ha detto il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, rispondendo nell’Aula della Camera.
“La trasmissione dei dati relativi al 2023 – ha continuato Gemmato – da parte delle Regioni e delle province autonome all’Istituto superiore di sanità e all’Istat è, infatti, ancora in corso. Una volta completata la trasmissione dei dati, gli organi centrali devono procedere alla necessaria verifica della qualità dei dati e alla integrazione delle informazioni mancanti tramite i dati provenienti dalle Schede di dimissione ospedaliera”.
Il lavoro del Terzo settore
Una panoramica sulla clandestinità alla quale molte donne ancora ricorrono è stata fornita dal Terzo Rapporto sui costi dell’aborto e i suoi effetti sulla salute delle donne, elaborato dall’Osservatorio Permanente sull’Aborto, che ha aggiornato i dati fino al 2022. Dal rapporto è emerso che il costo complessivo dell’aborto legale fino al 2022 è stato di circa 7,3 miliardi di euro, con un costo annuale di 56 milioni di euro, a cui si aggiungono 15,7 milioni per l’uso della pillola post-coitale.
Così come, il crescente uso dell’aborto farmacologico, che, “sebbene riduca il costo per singolo aborto, comporta maggiori complicazioni rispetto a quello chirurgico”. Il rapporto include inoltre una rassegna di studi che confermano un possibile legame tra aborto e cancro al seno, e confuta l’idea che l’obiezione di coscienza ostacoli il diritto all’aborto, analizzando in particolare la Regione Marche.
Infine, il rapporto sostiene che la legalizzazione dell’aborto nel 1978 non ha ridotto la mortalità femminile legata agli aborti clandestini, contrariamente a quanto previsto, e non ha eliminato l’aborto clandestino, mantenendo aperta una questione di giustizia sociale.
Dall’altro lato, invece, c’è l’Associazione Luca Coscioni che ha chiesto “Dati aperti” al Ministero della Salute: “Ci servono i dati aperti e per ogni struttura ospedaliera. Solo se i dati sono aperti sono utili e ci offrono informazione e conoscenza. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta. I dati chiusi del ministero sono una fotografia sfocata. Ecco perché abbiamo mandato una richiesta di accesso civico generalizzato alle singole ASL e ai presidi ospedalieri chiedendo i numeri specifici per struttura. Chiedendo di aprire i dati, quei dati che dovrebbero essere già aperti”.
In merito alla richiesta di “rendere disponibili i dati sull’ interruzione volontaria di gravidanza in formato aperto” Gemmato ha fatto presente la necessità di rispettare le normative in materia di protezione dei dati personali. “In ossequio a queste disposizioni il ministero della Salute, nella Relazione al Parlamento, riporta i dati richiesti solo in forma aggregata per Regione e non per singolo presidio ospedaliero”.
Ma l’associazione ha lanciato una petizione: “A 45 anni dall’approvazione della legge 194 ancora non conosciamo lo stato della sua applicazione. Il governo non fornisce dati aperti, utili e aggiornati. L’ultima relazione del Ministro della Salute riguarda il 2021. Oggi non sappiamo come e dove si possa abortire nelle singole Regioni italiane. I metodi contraccettivi non sono conosciuti e accessibili come in altri Paesi europei. Firma per la pubblicazione di dati aperti sull’applicazione della legge sulla interruzione volontaria della gravidanza e per rendere gratuiti tutti i metodi contraccettivi”.