Quando il piacere si nasconde dietro lo schermo, il disagio sessuale dei giovani italiani
Il panorama sessuale dei giovani italiani si sta configurando in modo preoccupante, con un mix di isolamento, disinformazione e una crescente dipendenza dalle soluzioni virtuali. Secondo i dati rivelati dalla Società Italiana di Andrologia (SIA), quasi il 50% dei ragazzi non è soddisfatto della propria vita sessuale, e un importante 30,1% ammette di fare uso quotidiano di chat erotiche o siti pornografici. Questi numeri, resi noti in occasione della prima Giornata Nazionale per la Salute dell’Uomo, non solo fotografano un malessere diffuso, ma raccontano una generazione che affronta il tema della sessualità in solitudine, spesso rifugiandosi nelle informazioni online anziché confrontarsi con professionisti.
Lo studio svela che la maggior parte dei giovani (73,4%) non ha mai fatto una visita da un andrologo, preferendo consultare “dottor Google” per risolvere eventuali problematiche sessuali. Ma la ricerca evidenzia un altro dato sconfortante: solo il 30% dei ragazzi affronta prontamente i problemi sessuali, mentre circa il 15% continua a cercare risposte nel mare magnum del web. Una situazione che ha radici profonde nella scarsa educazione sessuale e nella disinformazione sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Il risultato? Solo il 33% dei giovani maschi utilizza sempre il profilattico, e la maggior parte si affida a internet per raccogliere informazioni sulle MST, un fenomeno che contribuisce all’aumento di casi di infezioni come l’HPV, con implicazioni dirette anche sulla fertilità maschile.
La disinformazione sta lentamente ma inesorabilmente deteriorando la salute sessuale dei giovani, tanto che la fertilità maschile risulta compromessa rispetto ai coetanei degli anni ’90. Tommaso Cai, segretario della SIA, lancia un allarme: “Diventa imperativo riaprire il capitolo dell’educazione sessuale nei giovani maschi”, affinché possano avere gli strumenti giusti per tutelarsi e affrontare i problemi di salute sessuale con consapevolezza.
La disfunzione erettile tra i giovani
Non solo i giovani italiani sono più inclini a rifugiarsi nel virtuale per soddisfare i propri desideri, ma la loro salute sessuale sta anche subendo un lento declino, con problematiche sempre più diffuse come la disfunzione erettile. La SIA ha evidenziato che circa 3 milioni di uomini in Italia soffrono di disturbi legati all’erezione, una percentuale che sta crescendo a vista d’occhio. Tra i 40 e i 70 anni, uno su due presenta difficoltà di erezione lievi o gravi, un dato che fa riflettere sulla scarsa attenzione al tema della prevenzione e delle cure. La causa principale di questo aumento è la carenza di informazioni adeguate, che si traduce in una scarsa consapevolezza della problematica e in una prevenzione inefficace.
Nonostante la crescente diffusione della disfunzione erettile, molti uomini, anche giovani, preferiscono ignorare i sintomi piuttosto che affrontarli. Questo è dovuto anche al persistente stigma sociale che avvolge le problematiche sessuali, con molti giovani che non parlano con il medico né con i genitori dei disturbi che potrebbero riscontrare. Alessandro Palmieri, presidente della SIA, sottolinea come “un fattore determinante per la salute maschile sia la prevenzione”, un concetto che, purtroppo, sembra essere trascurato dalla maggior parte dei ragazzi. Eppure, la disfunzione erettile non è solo un problema legato all’età, ma può interessare anche i giovani, con circa il 30-40% degli adolescenti tra i 16 e i 18 anni che presenta una patologia andrologica.
Il ruolo della prevenzione e dell’informazione nella salute sessuale maschile
La sfida, dunque, non è solo medica ma anche educativa. La SIA ha avviato una campagna di sensibilizzazione per avvicinare i giovani alla prevenzione andrologica, con un focus particolare sulla fascia di età tra i 16 e i 35 anni. Questa iniziativa è supportata da partner istituzionali come l’Esercito Italiano, la Croce Rossa e il Corpo delle Infermiere Volontarie, con l’obiettivo di incentivare i giovani ad affrontare con maggiore serietà la propria salute sessuale.
Ma è evidente che non basta. La cultura del “tabù” attorno alla sessualità maschile, unita alla costante ricerca di soluzioni facili e veloci tramite internet, sta creando una generazione che affronta i problemi sessuali in modo superficiale, perdendo così importanti occasioni di cura e prevenzione.
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Che fine ha fatto la relazione annuale sull’aborto?
“Sono 46 anni che la relazione viene presentata: la relazione sull’attuazione della legge n.194 del 1978. E mai, in 46 anni, neanche negli anni ‘80 e ‘90 si è registrato ritardo simile. Cos’è successo per giustificare questo ritardo? Come è possibile che siamo nel 2024 e abbiamo i dati del 2021?”. A porre queste domande nelle aule parlamentari italiane è la deputata del Movimento 5 Stelle Gilda Sportiello. “C’è anche un rapporto Istat che riporta i dati del 2022, cosa che non fa il Governo. È un fatto tecnico o politico? L’Oms parla di aborto sicuro e tra gli ostacoli cita anche la mancanza di informazioni e non solo quelli che ci fate mancare voi non applicando la legge 194. Non ci dite che volete applicarla, perché altrimenti l’aborto farmacologico sarebbe garantito in tutte le Regioni in modo uguale”.
Le parole della deputata Sportiello sono diventate virali sui social e hanno attirato la curiosità di tutti quei cittadini interessati all’argomento. La Relazione annuale è un obbligo di legge e la scadenza per presentarla è il mese di febbraio. Non è la prima volta che c’è un ritardo, eppure siamo quasi alla fine dell’anno e dal ministero della Salute è arrivato solo un messaggio: “Sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza”.
La domanda che si pongono in tanti, oggi, è: che fine ha fatto la relazione annuale sull’aborto?
Relazione sull’aborto: “Una richiesta di legge”
Entro il mese di febbraio di oggi anno, la legge stabilisce che il Ministero della Salute debba presentare al Parlamento la “Relazione sull’attuazione della legge n.194 del 1978”. Legge che garantisce un aborto sicuro a tutte le donne e rappresenta una tutela sociale della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza. Ma della Relazione, fino ad oggi, neanche l’ombra.
I dati pubblicati negli scorsi anni sono spesso lacunosi e non offrono un quadro preciso e chiaro dell’effettiva attuazione della legge nel nostro Paese. Eppure, i 22 articoli che la compongono stabiliscono i modi, i tempi e i luoghi in cui si può ricorrere all’Ivg in Italia.
Per essere chiari: l’aborto è possibile entro i 90 giorni di gestazione per motivi di salute fisica o psichica, condizioni economiche, sociali o familiari, per previsioni di anomalie o malformazioni del concepito o per le circostanze in cui è avvenuto il concepimento. Dopo i 90 giorni l’Ivg è consentita solo nei casi in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna.
L’aborto deve essere, inoltre, praticato in una struttura sicura per la gestante. Bisogna quindi rivolgersi ad un medico che alla fine dell’incontro rilascia la copia di un documento che attesta lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta di aborto. Dopo sette giorni, si può accedere all’Ivg, salvo casi di necessità per salute.
La differenza tra aborto chirurgico e farmacologico
La deputata Sportiello, proseguendo nel suo intervento, ha denunciato la mancanza di informazioni di cui, secondo lei, soffrirebbe la maggioranza, sulla differenza tra aborto chirurgico e farmacologico. E bene, per aborto chirurgico si fa riferimento all’aspirazione del contenuto intrauterino, con anestesia locale o generale, a partire dalla quattordicesima settimana.
Con il termine “farmacologico”, invece, si intende l’assunzione di mifepristone, la pillola nota con il nome RU486 e, a distanza di 48 ore, della prostaglandina. Il primo, il mifepristone “causa la cessazione della vitalità dell’embrione”, mentre l’assunzione del secondo farmaco “ne determina l’espulsione”. Questa procedura avviene entro nove settimane di età gestazionale presso le strutture ambulatoriali pubbliche collegate a ospedali, i consultori o in day hospital. In alcune Regioni italiane, dal 2025, sarà possibile assumere i farmaci direttamente dalla propria abitazione. A regolare queste norme è l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) che ha modificato le linee guida sull’impiego del medicinale nel 2020.
Negli anni il ricorso all’aborto farmacologico è aumentato, passando da essere usato nel 3,3% degli interventi nel 2010 al 45,3% nel 2021, data alla quale risalgono i dati più recenti in materia.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) afferma che il sostegno degli operatori sanitari può essere autogestito dalle donne direttamente dalle proprie abitazioni. E mentre in Regioni come l’Emilia-Romagna, questo sarà realtà dal prossimo gennaio, nelle Marche, l’aborto farmacologico è utilizzato solo nel 19,6% dei casi, a differenza di regioni come la Liguria, nella quale la percentuale, sempre secondo i dati della Relazione del 2021, la percentuale è pari al 72,5% dei casi.
La mancanza di applicazione della legge n.194 del 1978
Una delle principali motivazioni per le quali deputati dell’opposizione e associazioni o enti che si occupano della materia criticano la mancata applicazione della legge, si deve anche agli obiettori di coscienza e al fatto che il Governo non garantisce un numero sufficiente di non obiettori per ogni Regione, costringendo le donne a spostarsi di chilometri per raggiungere una struttura che garantisca il loro diritto.
Con il termine “obiettori di coscienza” ci si riferisce a quei medici o operatori sanitari che possono liberamente scegliere di non effettuare gli interventi chirurgici perché “in contrato con i propri valori personali”, al netto dei casi in cui la vita della donna possa essere messa a rischio. Come stabilisce l’articolo 9 della legge 194, però, “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti”. Alle Regioni, il compito di assicurare l’aborto, “anche attraverso la mobilità del personale”.
Nel 2021, la percentuale media nazionale di obiettori di coscienza superava il 63% tra i ginecologi, il 33% tra il personale non medico e il 40,5% tra gli anestesisti. La distribuzione sul territorio nazionale, però, cambia tra l’Italia meridionale (78,5 per cento), quella insulare (76,5 per cento), e centrale (63 per cento) o settentrionale (54,7 per cento). La Sicilia detiene il numero maggiore, con l’85%, segue l’Abruzzo con l’84% e la Puglia, con l’80,6 per cento. In contrato, la provincia autonoma di Trento ha solo il 17%, la Valle d’Aosta il 25% e l’Emilia-Romagna il 45%.
Il numero di aborti nel 2021 è stato pari a 63.653, un calo del 72,9% rispetto al 1982, quando furono 234mila.
Che fine ha fatto la Relazione sull’aborto e perché è importante?
Se l’anno scorso la relazione è stata pubblicata a metà settembre e nel 2022 a giugno, nel 2021 a fine luglio, nel 2020 ad agosto, quest’anno, non è ancora stata pervenuta, nonostante il vincolo di febbraio come data ultima per legge. Per fare chiarezza, però, anche la relazione del 2017 è stata diffusa con un ritardo di dieci mesi. La Relazione riguarda l’attuazione della legge e dei suoi effetti, come stabilito dall’articolo 16.
Il diritto ad essere informati, diritto sancito dalla stessa Costituzione, prevede con la legge sull’aborto che una donna possa essere in grado di conoscere il tasso di obiettori di coscienza nella propria Regione di residenza o domicilio; quali sono i tempi utili per accedere alla pratica, ad esempio o, ancora, in quali strutture è possibile svolgere l’aborto. La mancanza della Relazione, o le sue lacune, così come il fatto che si riferisca a due anni precedenti (quella sui dati del 2021 è stata pubblicata lo scorso anno), non la rende neanche così tanto attendibile.
Se questa relazione è di competenza del Ministero della Salute, a quello della Giustizia spetta la relazione sulle violazioni della legge n.194 del 1978 e le richieste rivolte al giudice tutelare in caso di minorenni. Quest’ultima è arrivata il 4 aprile 2024, quando Carlo Nordio, ministro della Giustizia, ha trasmesso al Parlamento i dati relativi a questa fattispecie, riferiti al 2023. Questa seconda relazione, però, fornisce solo una panoramica parziale dell’andamento dell’aborto nel Paese. Il numero delle richieste al giudice tutelare, tra il 2021 e il 2023, sono aumentate rispettivamente da 348 nel 2021 a 394 nel 2022, fino alle 415 domande nel 2023.
La risposta dal Governo
In merito al ritardo sulla presentazione della ‘Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194’ “sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza” prevista dalla normativa. Questo perché “la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati analitici sulle interruzioni volontarie di gravidanza di tutte le Regioni e province autonome, determina un procedimento comprensibilmente lungo e delicato, che impegna a fondo l’insieme del Sistema di sorveglianza, dalle strutture periferiche a quelle centrali”. Lo ha detto il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, rispondendo nell’Aula della Camera.
“La trasmissione dei dati relativi al 2023 – ha continuato Gemmato – da parte delle Regioni e delle province autonome all’Istituto superiore di sanità e all’Istat è, infatti, ancora in corso. Una volta completata la trasmissione dei dati, gli organi centrali devono procedere alla necessaria verifica della qualità dei dati e alla integrazione delle informazioni mancanti tramite i dati provenienti dalle Schede di dimissione ospedaliera”.
Il lavoro del Terzo settore
Una panoramica sulla clandestinità alla quale molte donne ancora ricorrono è stata fornita dal Terzo Rapporto sui costi dell’aborto e i suoi effetti sulla salute delle donne, elaborato dall’Osservatorio Permanente sull’Aborto, che ha aggiornato i dati fino al 2022. Dal rapporto è emerso che il costo complessivo dell’aborto legale fino al 2022 è stato di circa 7,3 miliardi di euro, con un costo annuale di 56 milioni di euro, a cui si aggiungono 15,7 milioni per l’uso della pillola post-coitale.
Così come, il crescente uso dell’aborto farmacologico, che, “sebbene riduca il costo per singolo aborto, comporta maggiori complicazioni rispetto a quello chirurgico”. Il rapporto include inoltre una rassegna di studi che confermano un possibile legame tra aborto e cancro al seno, e confuta l’idea che l’obiezione di coscienza ostacoli il diritto all’aborto, analizzando in particolare la Regione Marche.
Infine, il rapporto sostiene che la legalizzazione dell’aborto nel 1978 non ha ridotto la mortalità femminile legata agli aborti clandestini, contrariamente a quanto previsto, e non ha eliminato l’aborto clandestino, mantenendo aperta una questione di giustizia sociale.
Dall’altro lato, invece, c’è l’Associazione Luca Coscioni che ha chiesto “Dati aperti” al Ministero della Salute: “Ci servono i dati aperti e per ogni struttura ospedaliera. Solo se i dati sono aperti sono utili e ci offrono informazione e conoscenza. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta. I dati chiusi del ministero sono una fotografia sfocata. Ecco perché abbiamo mandato una richiesta di accesso civico generalizzato alle singole ASL e ai presidi ospedalieri chiedendo i numeri specifici per struttura. Chiedendo di aprire i dati, quei dati che dovrebbero essere già aperti”.
In merito alla richiesta di “rendere disponibili i dati sull’ interruzione volontaria di gravidanza in formato aperto” Gemmato ha fatto presente la necessità di rispettare le normative in materia di protezione dei dati personali. “In ossequio a queste disposizioni il ministero della Salute, nella Relazione al Parlamento, riporta i dati richiesti solo in forma aggregata per Regione e non per singolo presidio ospedaliero”.
Ma l’associazione ha lanciato una petizione: “A 45 anni dall’approvazione della legge 194 ancora non conosciamo lo stato della sua applicazione. Il governo non fornisce dati aperti, utili e aggiornati. L’ultima relazione del Ministro della Salute riguarda il 2021. Oggi non sappiamo come e dove si possa abortire nelle singole Regioni italiane. I metodi contraccettivi non sono conosciuti e accessibili come in altri Paesi europei. Firma per la pubblicazione di dati aperti sull’applicazione della legge sulla interruzione volontaria della gravidanza e per rendere gratuiti tutti i metodi contraccettivi”.
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Giornata Mondiale della Prematurità, le storie dei “bimbi...
In Italia, circa 24 mila neonati, pari al 6,3% delle nascite, arrivano al mondo prematuramente, con il 7,5% di questi bimbi nati prima delle 28 settimane. L’allarme sulla prematurità non riguarda soltanto le delicate condizioni cliniche dei neonati nelle prime settimane di vita, ma si estende alle conseguenze di lungo periodo che molti di loro possono affrontare. Il tema diventa particolarmente rilevante in occasione della Giornata Mondiale della Prematurità, il 17 novembre, che porta all’attenzione del pubblico e della comunità medica l’impatto della nascita pretermine sulla salute individuale e sul sistema sanitario. La complessità della gestione dei neonati prematuri, evidenziata dai dati del Network Italiano Neonatologia SIN Rapporto 2023, impone una riflessione sugli interventi sanitari e di supporto psicologico che possono mitigare i rischi e promuovere un futuro migliore per questi bambini.
Sfide e progressi della neonatologia
Gli sviluppi della neonatologia hanno permesso negli ultimi decenni un miglioramento della sopravvivenza dei neonati estremamente pretermine. Tuttavia, come sottolinea il presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN), Luigi Orfeo, tali progressi non sono ancora sufficienti a risolvere le difficoltà legate alla prematurità. Orfeo e altri esperti neonatologi hanno ribadito l’urgenza di aumentare la consapevolezza e migliorare l’assistenza a lungo termine, sottolineando l’importanza di programmi di medicina di transizione e follow-up che accompagnino il bambino fino all’età adulta.
I progressi della medicina hanno incrementato le possibilità di sopravvivenza per questi bambini, ma non hanno eliminato i rischi associati alla nascita prematura, che influenzano il loro sviluppo fino all’età adulta.
Le sfide dei prematuri
Il respiro è il primo dei tanti ostacoli che un neonato estremamente pretermine si trova ad affrontare. Sebbene i progressi nella cura neonatale abbiano contribuito a salvare vite, le complicanze respiratorie restano rilevanti. I neonati pretermine sono a rischio di displasia broncopolmonare (BPD), una condizione che interessa il 44,6% dei nati con meno di 28 settimane, con conseguenze che vanno da infezioni respiratorie severe all’ostruzione delle vie aeree, spesso fino all’età adulta. Questa ridotta funzionalità respiratoria può generare difficoltà quotidiane, come una maggiore vulnerabilità a infezioni e un’affaticabilità precoce, influenzando così la qualità della vita di questi individui. Secondo gli esperti, la comunità scientifica sta esplorando nuove strade preventive, tra cui le vescicole extracellulari e l’Insulin-like growth factor-1 (IGF-1), che mirano a stimolare lo sviluppo polmonare dei neonati.
Le sfide però non si fermano ai problemi respiratori. I neonati estremamente pretermine presentano un rischio elevato di sviluppare insufficienza cardiaca e cardiopatia ischemica già in giovane età adulta. Uno studio svedese ha evidenziato un legame diretto tra la nascita pretermine e il rischio di patologie cardiovascolari, anche a causa di quadri complessi come la sindrome metabolica, frequente in questa popolazione. Tuttavia, la gestione di tali complicazioni non è sempre ottimale, perché spesso si tende a trattare questi adulti ex-prematuri come pazienti asmatici, senza tenere conto della specificità dei loro problemi respiratori. La SIN avverte che è necessaria una maggiore cautela nella diagnosi di asma in pazienti nati molto pretermine, poiché la loro ostruzione bronchiale non segue le caratteristiche dell’asma tradizionale.
Oltre al cuore e ai polmoni, la prematurità colpisce in modo significativo anche il neurosviluppo, ponendo questi bambini a rischio di disturbi che spaziano dalla disabilità cognitiva ai disturbi dell’attenzione, fino all’autismo. In Italia, circa il 6,3% dei bambini nasce prematuro, con conseguenze che, come indicato dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Sinpia), interessano in maniera frequente il neurosviluppo. In assenza di lesioni cerebrali visibili, il sistema nervoso dei neonati pretermine si sviluppa in un ambiente anomalo, che rende complesso il processo di maturazione cerebrale. Si stima che circa un bambino pretermine su due possa sviluppare disturbi legati a ritardi cognitivi, problemi comportamentali o difficoltà di regolazione emotiva, con effetti significativi sul lungo termine.
Elisa Fazzi, presidente della Sinpia, ha evidenziato che, nonostante l’aumento delle possibilità di sopravvivenza, le problematiche neurosviluppo non diminuiscono: se oggi risultano meno frequenti le gravi disabilità motorie e cognitive, si riscontra invece un aumento di difficoltà legate a coordinazione motoria, apprendimento, attenzione ed emotività. Il cervello dei neonati pretermine, grazie alla sua plasticità, è influenzato da esperienze e relazioni precoci; tuttavia, per ridurre i rischi, è fondamentale il supporto di un team di professionisti, neuropsichiatri infantili inclusi, che possa seguire il bambino e la famiglia nel lungo percorso di crescita. Gli esperti ritengono essenziale il monitoraggio continuo, con programmi di follow-up che possano aiutare a individuare tempestivamente eventuali difficoltà e intervenire in modo mirato.
La prematurità in Italia e il valore della sorveglianza nazionale
La percentuale dei neonati che nasce pretermine in Italia, seppure inferiore alla media mondiale, rappresenta un fenomeno di rilevante impatto demografico e sanitario. La Giornata Mondiale della Prematurità è un’occasione per riflettere sulle difficoltà che affrontano i “bimbi piuma”, come sono chiamati i neonati estremamente fragili, e per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle esigenze di questa fascia di popolazione.
L’Istituto Superiore di Sanità ha lanciato, dal 2017, la necessità di una sorveglianza nazionale delle morti perinatali, con l’obiettivo di monitorare e prevenire i decessi evitabili che si verificano in utero o nelle prime settimane di vita. Grazie a un progetto pilota, denominato SPItOSS, in tre regioni italiane, Lombardia, Toscana e Sicilia, il sistema ha identificato criticità cliniche e organizzative, permettendo la definizione di interventi mirati. I risultati ottenuti finora indicano che la prematurità è tra le principali cause di mortalità perinatale, e l’ISS raccomanda di estendere la sorveglianza a livello nazionale per migliorare l’assistenza e ridurre i decessi evitabili, stimati in circa il 15,7% dei casi analizzati.
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In aumento i casi di pertosse in Europa e in Italia, a...
Suscita preoccupazione tra esperti e autorità sanitarie l’aumento dei casi di pertosse in Europa. Secondo i dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control, nel 2023 e fino ad aprile 2024 sono stati registrati quasi 60mila casi in Europa, con un incremento di oltre dieci volte rispetto agli anni precedenti, segnando una vera e propria emergenza sanitaria.
In Italia, la situazione non è meno allarmante: tra gennaio e maggio 2024 sono stati registrati 110 casi di pertosse, con un preoccupante aumento dei ricoveri in terapia intensiva, soprattutto per neonati e lattanti. La Società Italiana di Pediatria ha rilevato più di 15 ricoveri di neonati in condizioni critiche, con la morte di tre bambini, l’ultimo dei quali all’ospedale di Padova, dove un neonato di 34 giorni non è riuscito a superare la malattia.
Un fenomeno in crescita che preoccupa pediatri ed esperti
La situazione è critica, come confermato dalla Società Italiana di Pediatria, che ha evidenziato l’intensificarsi dei casi di pertosse, specialmente tra neonati e lattanti non vaccinati sotto i 4 mesi di età. L’incremento dei ricoveri per pertosse è stato pari all’800% rispetto ai due anni precedenti, una cifra che evidenzia un allarmante ritorno alla ribalta di una malattia che, grazie alla vaccinazione, si pensava ormai sotto controllo. Secondo Alfredo Guarino, coordinatore della rete clinica Inf-Act, l’infezione ha colpito soprattutto neonati da madri non vaccinate, con circa il 95% delle madri di questi bambini che non aveva ricevuto alcuna forma di protezione preventiva, e l’80% che non era nemmeno a conoscenza della possibilità di vaccinazione prenatale.
Il problema non è solo di tipo medico, ma anche culturale. I pediatri del Bambino Gesù di Roma, con l’approssimarsi della stagione invernale, consigliano a partire dai sei mesi di età le vaccinazioni contro influenza, pertosse e Covid-19. È un intervento che potrebbe fare la differenza, ma il sistema di prevenzione sembra essersi inceppato. A Padova, la morte di un bambino a causa della pertosse ha gettato ombre su come vengono gestite le informazioni e le pratiche vaccinali.
Un allarme che rimanda ai tempi bui delle malattie prevenibili
Le parole di Massimo Andreoni, professore emerito di Malattie Infettive all’Università di Roma Tor Vergata, sono fortemente cariche di preoccupazione: “Con tre neonati morti per pertosse in Italia stiamo tornando al Medioevo. Assurdo e vergognoso che ciò accada ancora nel 2024″. La pertosse, infatti, è una malattia prevenibile grazie alla vaccinazione in gravidanza, un intervento che permette al neonato di nascere già protetto. Nonostante la vaccinazione abbia quasi annullato la mortalità infantile per questa malattia in passato, l’assenza di protezione in gravidanza sta tornando a costare vite umane. Andreoni denuncia un grande problema di sanità pubblica, l’esitazione vaccinale, che sta guadagnando terreno in molte famiglie. “Dobbiamo tornare a fare formazione ed educazione perché è inaccettabile che ci siano delle morti oggi per una malattia assolutamente prevenibile”.
L’infettivologo Matteo Bassetti, direttore delle Malattie Infettive dell’ospedale Policlinico San Martino di Genova, sottolinea che “un neonato che muore di pertosse nel 2024 è una cosa inaccettabile”. La sua analisi va al cuore della questione: “Il sistema di prevenzione ha fallito, ma ha fallito la società”. Bassetti solleva domande cruciali riguardo alla protezione della madre durante la gravidanza e al possibile fallimento dell’informazione sui vaccini. La morte di un neonato di soli 24 giorni a Padova, come evidenziato anche da Bassetti, è un caso emblematico di un errore che non dovrebbe accadere, dato che esiste una protezione efficace.
La crescente minaccia delle infezioni respiratorie e del virus sinciziale
Oltre alla pertosse, la stagione invernale porta con sé un altro gruppo di malattie respiratorie che colpiscono principalmente i neonati e i bambini piccoli. Il virus respiratorio sinciziale (Rsv), noto per causare brochioliti, è uno dei maggiori responsabili delle ospedalizzazioni nei più piccoli, con circa quindici decessi ogni anno in Italia. Per questo motivo, i pediatri e gli esperti di malattie infettive consigliano di proteggere i neonati con anticorpi monoclonali, che possono prevenire le complicanze più gravi della malattia. La combinazione di vaccino per le madri in gravidanza e anticorpo monoclonale per i neonati è vista come una strategia complementare che, se applicata correttamente, potrebbe limitare i danni.
Fabio Midulla, responsabile della Pediatria d’urgenza del Policlinico Umberto I di Roma, ha messo in evidenza come la situazione sta evolvendo con l’arrivo delle temperature più rigide, con un trend crescente di infezioni respiratorie e polmoniti da Mycoplasma pneumoniae. Fortunatamente, sebbene le infezioni possano coinvolgere i polmoni, la malattia non si presenta nella forma grave in tutti i casi. Tuttavia, l’incremento degli accessi al pronto soccorso e la resistenza ai trattamenti antibiotici comuni sono fattori che destano preoccupazione.