Ilary Blasi denuncia Totti, quando si verifica l’abbandono di minore?
Ilary Blasi ha denunciato l’ex marito Francesco Totti per abbandono di minore nei confronti di Isabel (8 anni), terza e ultima figlia avuta dalla coppia. La denuncia presentata dalla showgirl contro l’ex calciatore della Roma è arrivata in un momento già teso per la coppia, impegnata in una causa di separazione presso il tribunale civile di Roma che deve esprimersi sulla questioni patrimoniali e sull’affidamento dei figli.
Ilary Blasi ha contestato all’ex marito di aver lasciato Isabel senza supervisione mentre l’affidamento spettava al papà. Secondo la showgirl, Totti avrebbe lasciato la figlia da sola in diverse occasioni, tra casa e hotel, mentre l’ex calciatore prendeva parte a eventi mondani. Uno degli episodi chiave riguarda una videochiamata tra la madre e la figlia, durante la quale, come riporta Il Messaggero, Ilary Blasi si sarebbe accorta che la bambina era senza la supervisione di un adulto. In quell’occasione, la donna avrebbe allertato la polizia, ma, secondo quanto riportati dai legali di Totti, nell’abitazione gli agenti avrebbero trovato una babysitter incaricata di occuparsi della minore. Un fatto che, se verificato, potrebbe rivelarsi cruciale per le indagini.
Blasi contro Totti: c’è stato abbandono di minore?
Le accuse di Ilary Blasi sono particolarmente rilevanti poiché il reato di abbandono di minore è procedibile d’ufficio. La legge riserva questo status a reati particolarmente delicati. In pratica, l’inchiesta della Procura contro Francesco Totti può procedere indipendentemente dalla volontà dell’ex moglie di proseguire o meno l’iter legale. Blasi avrebbe anche riferito di viaggi non notificati alla madre, come quello organizzato da Totti a New York durante il ponte dell’Immacolata del 2023. Quest’ultimo elemento entra nel fascicolo dell’indagine, che potrebbe intrecciarsi con la causa di separazione già in corso, dove la custodia dei figli rappresenta uno dei punti più delicati.
Il giudice che ha stabilito l’affidamento condiviso, con prevalenza presso l’abitazione della madre, ha indicato che la supervisione della figlia minore deve essere garantita, da Totti stesso o da altri adulti qualificati.
La vicenda, ancora in fase preliminare, sta già dividendo l’opinione pubblica. Da un lato, c’è chi ritiene che queste accuse siano un ulteriore elemento di scontro in una separazione resa già complessa da questioni economiche e personali. Dall’altro, il reato di abbandono di minore viene percepito come una questione troppo seria per essere strumentalizzata in un contesto di conflitto coniugale.
L’abbandono di minore secondo la legge italiana
In Italia, l’abbandono di minore è disciplinato dall’articolo 591 del Codice penale, che punisce chiunque abbandoni una persona minore di 14 anni o incapace di provvedere a sé stessa per età o condizioni fisiche e mentali, sottoponendola a un rischio concreto per la sua incolumità. La pena prevista va da sei mesi a cinque anni di reclusione. “Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.
La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato”.
Tre sono i requisiti fondamentali per configurare il reato:
- Età o condizione della persona abbandonata: deve trattarsi di un minore di 14 anni o di un soggetto non autosufficiente;
- Condotta attiva o omissiva: l’abbandono può consistere in un allontanamento fisico, ma anche nella mancata vigilanza;
- Rischio per l’incolumità: secondo giurisprudenza consolidata deve esserci anche un rischio concreto per la salute o la vita della persona abbandonata.
Per i minori di quattordici anni è prevista una presunzione assoluta di incapacità, mentre per gli altri soggetti la capacità deve essere accertata e provata.
Quando si verifica l’abbandono?
Il concetto di “abbandono” non si limita alla presenza fisica di un genitore. La giurisprudenza ha chiarito che anche situazioni di negligenza grave o di assenza di comunicazione tra i genitori affidatari possono rientrare nel reato. Ad esempio:
- Lasciare un minore solo in casa senza supervisione adeguata;
- Non garantire una figura adulta durante viaggi o spostamenti;
- Non informare l’altro genitore, quando previsto dall’affidamento condiviso, di spostamenti (come denunciato da Ilary Blasi in occasione del Ponte dell’Immacolata 2023) o cambiamenti significativi nella vita del minore.
La legge italiana prevede strumenti di tutela per evitare che si arrivi a situazioni di abbandono. Tra questi, la decadenza dalla responsabilità genitoriale o l’affidamento dei minori ai servizi sociali in caso di condotta reiterata.
Dati sul fenomeno in Italia
Sebbene casi come quello di Totti e Blasi siano rari, episodi di abbandono o negligenza sono più frequenti di quanto si pensi. Secondo un rapporto di Save the Children del 2022, in Italia oltre il 10% dei minori vive situazioni di grave trascuratezza o assenza di supervisione, soprattutto nelle famiglie in difficoltà economica.
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Femminicidio, uccise 96 donne nel 2023. Valditara: “Mai...
I femminicidi stimati in Italia sono pari a circa l’82% del totale delle donne uccise. È quanto emerso dal report Istat “Le vittime di omicidio anno 2023” che ha preso in considerazione, in base al framework delle Nazioni Unite al quale l’Italia ha aderito, la definizione di femminicidio come l’omicidio che riguarda l’uccisione di una donna in quanto donna.
Dalle informazioni al momento disponibili (relazione tra vittima e autore, movente, ambito dell’omicidio) è stata elaborata una stima del fenomeno che, per molti, smentirebbe le parole del ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara.
All’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin alla Camera dei deputati, in un videomessaggio, il ministro aveva citato il fenomeno dell’immigrazione illegale tra le cause della violenza sessuale: “È legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Parole che hanno creato polemica in quanto, sempre secondo il report Istat, il 94,3% delle donne italiane uccide per motivi sentimentali è vittima di italiani. Scopriamo, quindi, la dimensione del fenomeno in Italia e come il ministro ha chiarito il fraintendimento che si è generato in seguito alle sue parole.
Femminicidi e omicidi in Italia
Secondo quanto emerso dal report, “sono 63 le donne uccise nell’ambito della coppia, dal partner o ex partner; sono 31 le donne uccise da un altro parente; due le donne uccise da un conoscente con movente passionale. In totale si tratta di 96 femminicidi presunti su 117 omicidi con una vittima donna. Nel 2019, erano 101 su 111, nel 2020 erano 106 su 116, nel 2021 104 su 119, nel 2022 105 femminicidi presunti su 126 omicidi”.
“Tra le restanti 21 vittime donne: quattro sono state uccise per rapine, una per follia, tre per interessi economici o debiti, sei per futili motivi, liti o rancori da conoscenti e sconosciuti, una per motivi legati agli stupefacenti ed una per regolamento di conti nell’ambito mafioso, mentre per cinque non è stato stabilito il movente e di queste tre non hanno un autore identificato – si osserva nel report dell’Istat – Di questi 21 casi, 15 omicidi sono stati perpetrati da uomini, uno da una donna conoscente e per quattro non si conosce il sesso dell’autore, in quanto si tratta di casi di omicidio non risolti”.
“Sono i partner a compiere omicidi”
Per le donne si conferma un quadro stabile in cui le morti violente avvengono soprattutto nell’ambito della coppia. Nel 2023 è pari allo 0,21 per 100mila donne il tasso delle donne uccise da un partner o un ex partner – sia esso un coniuge, un convivente o un fidanzato o un amante – del tutto simile a quello del 2022 (0,20). Mentre per gli uomini, lo stesso tasso è pari a 0,02 per 100mila uomini”.
“In particolare – continua il report Istat – sono i partner con cui la donna ha una relazione al momento della morte (coniugi, conviventi, fidanzati) a compiere il maggior numero degli omicidi nella coppia (il 41%), mentre sono il 12,8% gli ex partner (ex coniugi, ex conviventi, ex fidanzati). Il rischio di essere uccise da un partner non si differenzia a seconda delle età (a partire dai 18 anni)”. “Sessantuno sono i partner maschi (96,8%) delle 63 donne uccise nell’ambito della coppia, mentre i sei uomini vittime di partner sono stati uccisi tutti da donne”, continua il report.
“Le donne italiane vengono uccise dai partner, attuali o precedenti, nel 51,5% dei casi, le straniere nel 68,7% – prosegue – Risulta lievemente in diminuzione il tasso delle donne uccise da parenti (0,10 nel 2023; 0,14 nel 2022). Le donne uccise da altri familiari (31) sono state uccise da uomini nell’83,8% (26 casi) e da donne in cinque casi. Sono 40 gli uomini uccisi dai parenti, 37 dei quali sono stati assassinati da altri uomini”.
La polemica
I dati Istat riportano anche la nazionalità d’origine degli assassini e arrivano in seguito alle polemiche nate dalle parole del ministro Valditara che – nel videomessaggio – ha dichiarato che tra le cause della violenza contro le donne ci sarebbe anche l’immigrazione illegale. Un’affermazione, questa, che ha destato qualche perplessità nell’opinione pubblica, anche alla luce di quel “94,3% delle donne italiane è vittima di italiani” riportato dall’Istituto di ricerca.
Il messaggio è stato espresso nel giorno dell’anniversario della morte di Giulia Cecchettin, studentessa 22enne uccisa dal fidanzato, alla presentazione da parte del padre Gino della fondazione inaugurata negli scorsi giorni e che si propone l’obiettivo di sensibilizzare e tutelare le donne vittime di violenza.
La ragazza, un anno fa, è stata assassinata dal compagno “bianco perbene”, come lo ha definito la sorella, secondo la quale, come Giulia, sono tante le donne uccise da partner o ex partner e non di nazionalità straniera. Inoltre, lo stesso padre della giovane vittima ha ribadito che la violenza è violenza indipendentemente dalla provenienza dell’assassino.
A creare la polemica che divampa sui social, però, sono stati due principali fattori:
- Il fatto che il ministro abbia detto che il concetto di “patriarcato” si è ormai estinto nonostante persistano fenomeni di maschilismo. Nel suo intervento, Valditara aveva dichiarato che “la visione ideologica vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Ma come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza”. Per alcuni “Cassare a ideologico il femminismo vs il patriarcato è stato un atto sminuente (si legge sui social)” che affievolirebbe le cause culturali che persistono dietro la violenza di genere.
- Il fatto che il ministro, dicendo che tra le cause della violenza contro le donne c’è anche l’immigrazione illegale, avrebbe spostato il focus dell’attenzione su uno dei temi maggiormente trattati in campagna elettorale dell’attuale governo: le politiche migratorie. Per molti, si è trattato di un atto di “propaganda politica non supportato dai dati”.
La risposta di Valditara
Il ministro si è difeso dalle accuse, oggi al Salone dello studente a Roma, sostenendo di non aver mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati: “Non ho mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati, ma che in Italia c’è un aumento preoccupante delle violenze sessuali a cui contribuisce anche, ed è importante l’anche, la marginalità e la devianza conseguenti a un’immigrazione irregolare”.
“Le violenze sessuali sono un altro fenomeno molto triste – ha aggiunto Valditara -. I dati Istat e del ministero dell’Interno sono purtroppo inequivocabili e mi dispiace che qualcuno li abbia alterati o non li abbia conosciuti. Non ho detto che l’immigrato è causa di questo”.
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Lavoro, Papa: “I papà non hanno tempo per giocare con figli”
“Il lavoro diventa più stressante. Domando sempre ai genitori giovani, soprattutto ai papà, tu giochi con tuo figlio?‘”. La risposta è: “Ma quando io esco da casa lui dorme e quando torno lui sta dormendo”. L’ha affermato Papa Francesco, in un videomessaggio diffuso in occasione dell’assemblea di Confesercenti negli scorsi giorni. “Il papà è fuori di casa per il lavoro, tutta una giornata, e questo non è giusto. Ma deve lavorare per dare da mangiare alla famiglia e paga la famiglia, sempre per la mancanza del papà”, sottolinea.
“L’importante è lavorare per creare un ambiente sempre più umano”. “Conosco tante imprese che sono brave, che fanno un lavoro di vicinanza a ognuno degli operai. L’operaio, l’impiegato il caposezione, prima di tutto è un uomo o una donna che ha una famiglia. Dobbiamo custodire l’umanità di questo uomo e questa donna”, ha proseguito il Papa. ‘”In alcuni Paesi dell’Oriente c’è un lavoro schiavo, perché c’è una cultura del lavoro” e la persona “non ha tempo per stare in famiglia, hanno perso il senso della famiglia”.
Le parole di Papa Francesco accendono un campanello d’allarme su una situazione che ha raggiunto un grado di percezione maggiore tra le persone, soprattutto tra quelli che il Santo Padre ha definito “i giovani papà”, ma più in generale i neogenitori lavoratori. Il problema è la “conciliazione”, termine con il quale si usa definire il punto d’equilibrio tra vita privata e lavoro, sempre più spostato sull’asse della professione. Ma qualcosa sta cambiando: scopriamo perché.
Lavoro e vita privata: il ruolo del corporate wellbeing
Negli ultimi anni è aumentato l’interesse da parte dei datori di lavoro nei confronti del “corporate wellbeing (o benessere aziendale)” si riferisce all’insieme delle strategie, attività e soluzioni che un’organizzazione mette in atto per promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale dei suoi dipendenti.
Riduzione dello stress e prevenzione del burnout hanno attivato in grandi aziende programmi di benessere che aiutano a gestire vita privata e lavoro, migliorando la salute mentale e fisica dei dipendenti. In molti casi si è registrato un aumento della produttività, con dipendenti più felici e sani che tendono a essere più produttivi e impegnati nel loro lavoro.
Queste strategie hanno attratto nuovi talenti, specialmente tra le generazioni più giovani.
Investire nel corporate wellbeing non solo migliora la qualità della vita dei dipendenti, ma porta anche benefici tangibili all’azienda in termini di produttività e competitività.
Secondo lo studio “Produttività e benessere organizzativo: le imprese di fronte alle nuove sfide del mercato del lavoro” realizzato da The European House – Ambrosetti e Jointly, prima B Corp in Italia nel settore del Corporate Wellbeing, i benefici che questo tipo di pratiche sono in grado di portare alla sostenibilità e alla crescita delle aziende sono soprattutto legati all’incremento dei livelli di engagement e produttività e all’abbattimento dei “costi del non fare”.
In particolare, dalle analisi svolte e approfondendo anche alcune esperienze virtuose a livello settoriale (ad esempio l’industria farmaceutica in Italia, dove ricorso al welfare, parità di genere e tassi di inclusione sono superiori agli altri settori economici), si è rilevato che l’adozione di strategie di corporate wellbeing può portare a un incremento del 20% di produttività rispetto alla media delle aziende che non le adottano, con un valore aggiunto per addetto pari a quasi 60mila euro, a fronte di una media attuale di 50mila euro.
Allo stesso tempo, l’implementazione di strategie per il benessere organizzativo in azienda è in grado di fornire una risposta efficace anche a fenomeni sempre più attuali come il crescente malessere dei lavoratori italiani. Il 46% infatti dichiara di sentirsi molto stressato sul luogo di lavoro, mentre solo il 5% si sente pienamente ingaggiato dalla propria azienda. Più di un dipendente su 3 (36%) dichiara di voler lasciare il proprio lavoro entro un anno. Tra le motivazioni principali di chi lascia, la scarsa attenzione dell’impresa verso la salute mentale – che viene considerata inadeguata dal 98% di chi decide di andarsene – la carenza di flessibilità e il work-life balance, considerati insufficienti da 9 su 10.
Neomamme (e neopapà) a rischio
Quando si parla di genitorialità, inoltre, c’è da evidenziare come siano sempre più spesso le mamme lavoratrici a lasciare il lavoro nei primi tre anni di vita del neonato. Secondo il report Save the Children ‘Le Equilibriste – La maternità in Italia 2024’, una donna su cinque lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio e il 63% delle neomamme ha indicato come causa delle dimissioni la fatica nel tenere insieme l’impiego e il lavoro di cura dei figli, contro il 7,1% dei neopapà.
Se da un lato le donne sono costrette a sacrificare più spesso degli uomini la carriera per la famiglia, dall’altro avviene il contrario. Una proposta dell’Inps di riservare l’indennità maggiorata all’80% ai padri, nelle scorse settimane, aveva proprio lo scopo di ridurre questo squilibrio. La Manovra finanziaria 2024 ha mirato allo stesso obiettivo, cambiando le norme sul congedo parentale. L’indennità del secondo mese è stata portata dal 30% al 60%, che è diventata 80% solo per il 2024.
L’adozione di strategie di corporate wellbeing da parte delle aziende può rappresentare una soluzione efficace. Investire nel benessere dei dipendenti non solo migliora la loro qualità della vita, ma porta anche benefici tangibili in termini di produttività e competitività aziendale. È quindi fondamentale che le imprese continuino a sviluppare e implementare politiche di benessere organizzativo, per creare un ambiente di lavoro più umano e sostenibile, capace di rispondere alle esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie.
Ma l’impegno delle aziende non basta. Anche il pubblico ha un ruolo cruciale nel promuovere la conciliazione tra lavoro e vita privata. Politiche pubbliche mirate, come l’estensione dei congedi parentali retribuiti, incentivi fiscali per le aziende che adottano misure di benessere organizzativo e la promozione di orari di lavoro flessibili, possono fare la differenza. Inoltre, investimenti in servizi di supporto alla famiglia, come asili nido accessibili e di qualità, sono essenziali per alleviare il carico sui genitori lavoratori. Un approccio integrato tra pubblico e privato può quindi contribuire a creare un ambiente più favorevole per i lavoratori, migliorando il benessere generale della società.
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Come stanno i bambini italiani?
Oggi, 20 novembre, si celebra la Giornata Mondiale del Bambino e dell’Adolescente, una ricorrenza che ricorda l’adozione della Convenzione ONU sui diritti del bambino, avvenuta il 20 novembre 1989. In Italia, come nel resto del mondo, questa giornata dovrebbe essere un’occasione di riflessione e impegno sui diritti e sul benessere delle giovani generazioni. Tuttavia, i dati che emergono non sono confortanti. Se da un lato l’Italia vanta un sistema sanitario pediatrico tra i più avanzati al mondo, dall’altro deve affrontare sfide imponenti legate alla povertà, alle disuguaglianze regionali e sociali, che minano la salute e il futuro dei suoi bambini.
Quest’anno, in concomitanza con la Giornata del Bambino, si apre a Firenze il 79° Congresso della Società Italiana di Pediatria (SIP). Il congresso, che riunisce esperti e professionisti della salute, offre uno spunto importante per analizzare lo stato di salute e di benessere dei bambini italiani, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche sociale ed educativo. Il tema della povertà, in particolare, assume un ruolo centrale nelle discussioni: la povertà in Italia non è solo economica, ma si estende a livelli alimentari, sanitari, educativi e persino energetici, con gravi conseguenze sullo sviluppo fisico e psicologico delle nuove generazioni.
Povertà assoluta e povertà relativa
Secondo i dati ISTAT aggiornati al 2023, più di 1 milione e 295 mila bambini in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta, pari al 13,8% dei minori. La povertà assoluta si definisce come l’incapacità di soddisfare i bisogni primari per una vita dignitosa, tra cui cibo, abbigliamento e alloggio. Una condizione che, in un Paese come l’Italia, dovrebbe essere impensabile, ma che oggi è purtroppo una realtà. Le differenze territoriali sono un ulteriore aggravante: al Nord, infatti, il tasso di povertà assoluta è del 12,9%, mentre al Sud si alza al 15,5%.
Il divario geografico tra Nord e Sud non è una novità, ma è diventato ormai un segnale preoccupante che allarga il gap tra le regioni italiane, soprattutto per quanto riguarda l’accesso a servizi sociali e sanitari. In particolare, i bambini nati in famiglie di immigrati vivono in condizioni di estrema difficoltà, con il tasso di povertà assoluta che arriva al 35,1% nei nuclei familiari composti esclusivamente da stranieri, contro il 6,3% delle famiglie italiane.
“Ogni bambino dovrebbe avere la possibilità di crescere e svilupparsi in maniera ottimale, essere curato nel migliore dei modi quando si ammala, essere educato in modo da poter sviluppare tutte le sue potenziali risorse intellettuali e conoscitive. Ma la povertà, nelle sue diverse forme, ostacola il raggiungimento di questo diritto” denuncia Mario De Curtis, presidente del Comitato per la bioetica della Società Italiana di Pediatria, che sottolinea come la povertà nelle sue diverse forme rappresenti un ostacolo significativo al pieno sviluppo dei bambini. De Curtis evidenzia come la povertà alimentare, sanitaria, educativa, energetica e la povertà ereditaria siano tutte concausa di un ambiente di crescita che non offre pari opportunità a tutti i bambini. La crescita fisica, psichica e intellettuale di un bambino dipende anche dalle condizioni materiali e sociali in cui si trova a vivere.
Povertà alimentare
La povertà alimentare è uno degli aspetti più drammatici di questo scenario. I dati parlano chiaro: oltre 7 bambini su 100 di età inferiore a 16 anni nel Mezzogiorno soffrono di deprivazione alimentare. Questi bambini non hanno accesso a una dieta equilibrata e nutriente, e questo ha gravi ripercussioni sul loro sviluppo fisico e cognitivo. La povertà alimentare non significa solo non poter mangiare a sufficienza, ma anche non poter acquistare cibi sani, come frutta e verdura, per cui il rischio di malnutrizione aumenta significativamente.
Nel 2021, la povertà alimentare ha colpito il 5,9% dei minori sotto i 16 anni in Italia, con una percentuale che sale al 7,6% nel Sud. La situazione è destinata a peggiorare, come dimostra l’aumento delle attività delle associazioni benefiche che distribuiscono alimenti alle famiglie in difficoltà. La Fondazione Banco Alimentare Onlus, ad esempio, nel 2023 ha distribuito oltre 110 mila tonnellate di cibo, supportando più di 1,7 milioni di persone, di cui circa 330 mila bambini sotto i 14 anni.
Povertà educativa
Accanto alla povertà alimentare, c’è la povertà educativa, un fenomeno che impedisce a molti bambini di accedere a una formazione adeguata e di sviluppare il proprio potenziale. Se Maria Montessori affermava che un bambino senza istruzione è “un cittadino dimenticato”, oggi la povertà educativa riguarda milioni di bambini, soprattutto nel Sud Italia, dove la disponibilità di asili nido è insufficiente. Nel 2022, l’obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Barcellona di garantire un posto in asilo nido al 33% dei bambini sotto i 3 anni in ogni Paese membro dell’UE non è stato raggiunto da molte regioni italiane, in particolare quelle meridionali.
De Curtis denuncia che alcune regioni, come Sicilia e Campania, sono ancora lontane dal raggiungere una copertura del 45% dei bambini, obiettivo fissato dalla Commissione Europea per il 2030. Il tasso di abbandono scolastico in Italia resta uno dei più alti dell’Unione Europea, con un 11,5% di abbandoni rispetto alla media europea del 9,6%. La povertà educativa non è solo una questione di accesso all’istruzione, ma anche di qualità e opportunità di apprendimento.
Povertà sanitaria
Un’altra forma di povertà che colpisce i bambini italiani è la povertà sanitaria, una condizione che dipende in larga parte dalla regione in cui si vive. I dati sulla mortalità infantile in Italia rivelano un divario significativo tra il Nord e il Sud del Paese. Nel 2020, il tasso di mortalità infantile è stato di 2,51 per mille nati vivi, ma il dato nasconde una grave disuguaglianza. Nei bambini nati al Sud, infatti, il tasso di mortalità infantile è stato superiore del 70% rispetto a quelli nati al Nord. Se il Mezzogiorno avesse avuto gli stessi tassi di mortalità infantile del Nord, nel 2020 sarebbero sopravvissuti 155 bambini in più.
La disuguaglianza nell’accesso alle cure è ancora più marcata per le famiglie con bambini stranieri, che affrontano ulteriori difficoltà nel garantire ai propri figli l’assistenza sanitaria necessaria. La cosiddetta migrazione sanitaria è una realtà sempre più diffusa, con molte famiglie che sono costrette a trasferirsi da una regione all’altra per trovare cure migliori, ma questo porta con sé enormi costi economici e sociali.
Povertà energetica
Una forma di povertà che non è sempre visibile, ma che ha gravi impatti sul benessere dei bambini, è la povertà energetica. Secondo un rapporto di Save the Children, circa 1 bambino su 10 di età inferiore a 5 anni ha vissuto in case non adeguatamente riscaldate durante l’inverno del 2023. Le case fredde sono solo uno dei segni tangibili di una condizione di povertà che compromette il diritto a un ambiente sano e protetto. Anche in questo caso, il divario tra Nord e Sud si fa sentire, con il 16% dei bambini nel Sud Italia che vive in una condizione di povertà energetica.
L’impatto della povertà sulla salute
Come sottolineato dalla Società Italiana di Pediatria, la povertà ha un impatto diretto sulla salute psico-fisica dei bambini. I bambini che vivono in condizioni di povertà sono più vulnerabili a malattie croniche, a disturbi psicologici come ansia e depressione, e a difficoltà comportamentali. Il legame tra povertà e malattia è ormai un dato scientifico consolidato: l’incapacità di accedere a cure adeguate, a un’alimentazione sana e a un ambiente stimolante per lo sviluppo psicologico può compromettere il benessere dei bambini, accelerando il processo di invecchiamento biologico e aumentando il rischio di malattie dell’età adulta. Secondo un recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità, la povertà è associata a un rischio maggiore di obesità infantile, un problema che sta diventando sempre più comune anche in Italia.
Annamaria Staiano, presidente della Sip, sottolinea l’allarmante aumento dei disturbi psicologici tra i giovani, soprattutto a partire dalla pandemia. Un adolescente su quattro, secondo la letteratura internazionale, mostra sintomi di depressione e uno su cinque soffre di disturbi d’ansia. Una condizione che comporta vulnerabilità, con effetti devastanti che si ripercuotono sulla qualità della vita e sulle relazioni sociali. Drammatici segnali di questo disagio sono emersi anche dai più recenti episodi di violenza giovanile, spesso legati a dinamiche di esclusione sociale e assenza di supporto familiare. L’isolamento sociale, noto come hikikomori, coinvolge oggi oltre 60mila adolescenti italiani, mentre l’abuso di alcol tra i minorenni si fa sempre più diffuso, favorito dalla disponibilità di bevande a basso costo.
In questo contesto, la Società Italiana di Pediatria invita le istituzioni a compiere un salto di qualità nel garantire il benessere dei bambini italiani. Oltre alla necessità di affrontare le disuguaglianze territoriali e sociali, la SIP propone soluzioni concrete, tra cui l’estensione dell’assistenza pediatrica fino ai 18 anni, la creazione di reti pediatriche più forti e il rafforzamento dell’educazione sanitaria nelle scuole per sensibilizzare i più giovani sui temi della salute e prevenzione.
La SIP propone anche la creazione di Case di Comunità nelle quali siano presenti pediatri specialisti in grado di garantire l’accesso alle cure per tutti i bambini, indipendentemente dalla loro provenienza geografica o socio-economica. Inoltre, è essenziale promuovere politiche che favoriscano l’accesso universale all’istruzione e ai servizi sanitari, affinché ogni bambino possa svilupparsi nel miglior modo possibile, senza essere ostacolato dalla condizione sociale o economica in cui è nato.
“In inglese – riprende Staiano – esiste un termine, ‘flourishing’, che significa fiorire: è uno stato di benessere che va oltre la semplice felicità, abbracciando la capacità di prosperare anche in condizioni difficili. Questo stato è correlato al benessere della famiglia, all’instaurarsi di relazioni familiari sane e quindi, alla crescita del bambino in un ambiente sano. Affinché i bambini italiani possano davvero ‘fiorire’, è fondamentale proteggerli da disuguaglianze e offrire alle loro famiglie il supporto necessario per una crescita serena e in salute. Solo costruendo una società che metta ‘il bambino al centro’ – conclude la presidente della Sip – potremo garantire a ogni giovane la possibilità di crescere in un ambiente che rispetti i loro diritti fondamentali”.