In 3 anni oltre 450 donne salvate da dispositivo anti-aggressione WinLet
Un traguardo importante per il braccialetto anti-aggressione ideato dalla società Security Watch
In meno di 3 anni sono più di 450 le donne soccorse mentre si trovavano in situazioni di pericolo, sia in casi di violenza domestica che di aggressioni avvenute in strada. Un traguardo eccezionale, soprattutto se si considera che è stato raggiunto in meno di tre anni. Lo rende noto WinLet, il dispositivo anti-aggressione nato da un’idea di Pier Carlo Montali, Ceo della startup milanese Security Watch.
Il sistema WinLet, che ha visto la luce a giugno 2021, ha riscontrando sin da subito un grande successo - informa una nota - Nel 2024, l’azienda ha registrato un incremento di oltre il 200% rispetto al 2023, dimostrando così la capacità di WinLet di raggiungere un pubblico sempre più ampio, che spazia dagli adulti ai giovani, dagli uomini alle donne, passando dalle aziende, che lo hanno scelto come regalo di Natale per i propri dipendenti. Le donne rappresentano comunque una netta maggioranza, l’82% della base utenti con età media intorno ai 42 anni, contro il 18% degli uomini, con un’età media inferiore ai 25 anni. Inoltre, la maggioranza degli acquirenti proviene dalle grandi città italiane, tra cui Milano, Roma, Bologna, Torino, Firenze, Napoli e Palermo. Il 64% degli abbonati si trova nel Nord Italia, il 21% nel Sud Italia e il 15% nel Centro Italia. Infine, è stato dimostrato che la maggior parte degli allarmi (il 73%) viene attivata dopo le 18.
I dati sono chiari: a sentirsi meno sicure sono le donne, soprattutto nelle ore serali e principalmente quelle che vivono in città di grandi dimensioni, collocate primariamente nel Nord Italia. Ma da quando possiedono WinLet, gli utilizzatori si sentono più al sicuro nel vivere la propria quotidianità: lo ha affermato l’87% degli utenti, mentre il 62% ha asserito di aver regalato il dispositivo anche a un amico o a un parente. Dopo meno di 3 anni WinLet è quindi riuscito a dimostrare il proprio valore, mettendo in luce non solo la necessità di sentirsi al sicuro nel vivere la propria vita quotidiana, ma anche l’importanza di diffondere la cultura della sicurezza all’interno della società, riuscendo non solo a evitare situazioni di emergenza ma anche a prevenirle.
Cronaca
‘Le avventure nel barattolo’, il racconto del cancro al...
Al festival ‘Eredità delle donne’ presentata iniziativa per affrontare l’esperienza di malattia metastatica in famiglia
Mettere in un barattolo dei bigliettini che saranno pescati per dare vita ai desideri in essi scritti. Inizia così ‘Le avventure nel barattolo’, la novella illustrata, edita da Gilead nella quale Enea e Sofia, insieme ai loro genitori, decidono che la malattia della mamma, il tumore al seno metastatico, non impedirà loro di vivere avventure bellissime e magiche. Il libro, presentato in anteprima a Firenze, in occasione del Festival ‘Eredità delle donne’ - iniziativa dedicata all’empowerment femminile che per la prima volta ha dedicato a questo tema con un talk - ha l’endorsement di Europa Donna Italia e il patrocinio della Società italiana di Psico-oncologia (Sipo) e sarà presto disponibile gratuitamente in versione digitale sul sito dedicato alla campagna Gilead (expose-mbc.com/).
Il racconto - spiega una nota - nasce dall’esperienza di Lauren Huffmaster, una mamma con tumore al seno metastatico, che affronta l’esperienza in linea con quanto affermava Marie Curie, tra le donne più celebri della storia e ispirazione per molte generazioni di donne: “Nella vita nulla va temuto bensì compreso”. Il tema su come comunicare il tumore al seno metastatico ai figli è molto attuale, meno dibattuto è cosa succede dopo, quando la notizia viene condivisa, come affrontare i momenti più complessi che le terapie comportano e come condividere stati d’animo che possono essere molto differenti nei figli in base all’età.
“La comunicazione della malattia in ambito familiare è un atto di grande coraggio e sensibilità, che non si esaurisce nel momento della notizia, ma si sviluppa e si rinnova ogni giorno, in ogni piccolo gesto e momento condiviso - afferma Dorella Scarponi, Segretario Generale di Sipo - Le avventure nel barattolo rappresenta una testimonianza autentica e preziosa su come sia possibile, persino nei momenti di maggiore difficoltà, coltivare la speranza e mantenere vivo uno spazio per la fantasia e la gioia con i propri figli. In questo cammino la psiconcologia può supportare le famiglie in percorsi di consapevolezza e accettazione, mostrando ai più piccoli che anche le sfide più complesse si possono affrontare insieme, passo dopo passo. Questa è una scelta che porta con sé una straordinaria eredità emotiva e, al contempo, un messaggio di forza rivolto a tutte le donne e a tutte le madri che ogni giorno combattono per sé stesse e per i propri figli”.
La donna, dal momento della diagnosi di evoluzione della malattia, amplifica i suoi pensieri e le sue preoccupazioni. I figli, che nella maggior parte dei casi, sono già a conoscenza del tumore al seno, devono compiere un passaggio molto delicato. Trovare dei codici di comunicazione efficaci che portino un nuovo equilibrio nella famiglia diventa fondamentale. “Parlare di tumore al seno metastatico in famiglia richiede delicatezza, ma anche coraggio e verità, elementi essenziali per costruire un nuovo equilibrio e comunicare speranza anche nei momenti difficili - osserva Rosanna D’Antona, presidente di Europa Donna Italia - Il nostro impegno come Europa Donna Italia è sostenere le pazienti affinché non siano sole nel loro percorso, affiancandole nel trovare strumenti e risorse per affrontare la realtà quotidiana con forza e dignità. Le avventure nel barattolo si inserisce in questo contesto: pagina dopo pagina, offre una narrazione quotidiana, delicata e piena di empatia, capace di parlare al cuore di adulti e bambini”.
La presentazione del libro in un’occasione come l’Eredità delle donne percorre in parte il messaggio di empowerment femminile. Il tumore al seno metastatico non è un tema di cui parlare solo in confini sanitari e dibattiti riguardanti la salute ma, anzi, si può portare all’attenzione del grande pubblico in occasione di discussioni più ampie, per dare voce a tutte le donne che vivono un’esperienza di malattia ma che non si identificano e non vogliono essere identificate in essa. “Scegliere di presentare ‘Le avventure nel barattolo’ al festival ‘Eredità delle donne’ è una decisione intenzionale - sottolinea Gemma Saccomanni, Sr. Director Public Affairs di Gilead Sciences Italia - Crediamo infatti che il racconto di una madre che affronta il tumore al seno, le sfide che la malattia porta con sé possano e debbano trovare spazio anche oltre i confini tradizionali della comunicazione sanitaria. Vogliamo offrire una piattaforma che mostri queste donne per quello che sono: forti, coraggiose, che costruiscono ogni giorno una vita fatta non solo di cura, ma anche di sogni e speranze per i propri figli”.
Cronaca
Giulia Cecchettin, pm: “Omicidio ultimo atto...
Il pm: "Turetta manipolava la vittima, non ha mai pensato davvero di suicidarsi". Assente in aula Gino Cecchettin
Condannare all’ergastolo Filippo Turetta. E’ la richiesta pronunciata dal pm di Venezia Andrea Petroni nella requisitoria contro l’ex fidanzato di Giulia Cecchettin. "Aveva tutte le possibilità e gli strumenti culturali per scegliere", ha detto prima dei pronunciare la richiesta: "Andava a scuola in quelle che frequentano anche i vostri figli, si stava per laureare. Turetta è a credito, non è tra chi non ha mai avuto una chance o ha conosciuto la sopraffazione”.
La requisitoria
L'omicidio di Giulia Cecchettin è l’ultimo atto del controllo esercitato sulla vittima dall’ex fidanzato. La manipolava e non ha mai pensato di suicidarsi, ha detto il pm nella sua requisitoria. Presente in aula, Filippo Turetta - imputato per omicidio volontario pluriaggravato, sequestro di persona e occultamento di cadavere dell’ex fidanzata - ha assistito alla requisitoria immobile, con la testa bassa. È la seconda volta, dopo l’interrogatorio della scorsa udienza, che l'imputato compare davanti alla corte d’Assise.
Assente Gino Cecchettin, per impegni con la fondazione che porta il nome della figlia morta: a rappresentare in aula la famiglia Cecchettin c’è lo zio e la nonna Carla Gatto.
“Il rapporto tra Giulia Cecchettin e l’imputato è caratterizzato da forte pressione, dal controllo sulla parte offesa, le frequentazioni, le amicizie, le uscite”: quanto accade l’11 dicembre del 2023 è “l'ultimo di quegli atti” di controllo. Per l'accusa, Turetta ha pianificato di uccidere.
Turetta quando ha ucciso Giulia Cecchettin non ha mai pensato davvero di suicidarsi, così come ha usato questa finta minaccia in altre occasioni per tenere a sé la ventiduenne, sostiene il pm secondo il quale il suicidio va letto “in chiave ricattatoria”, è uno strumento “dell’azione manipolatoria nei confronti di Giulia”.
Se l’imputato compila un diario dei problemi di coppia - che si riscontrano anche nelle chat chilometriche tra i due -, anche la vittima scrive un ‘memorandum’ per ricordarsi i difetti e continuare a restare lontana sentimentalmente da Turetta. “Ha idee strane su farsi giustizia da solo, i miei spazi non esistono, dice cattiverie pesanti e minacce quando litighiamo, mi controlla”.
“Ti farò pentire di tutto il male che mi stai facendo…”. È uno dei messaggi che Turetta ha inviato alla vittima letto in aula dal pm per dimostrare lo stalking esercitato dall’imputato alla sbarra per omicidio. “Se la mia vita finisce la tua non vale niente” è un altro messaggio scritto dallo studente che ne invia diverse decine al giorno.
Il lungo elenco riguarda gli studi - Turetta chiede a Cecchettin di rallentare negli studi - e la volontà che la fidanzata non dedichi tempo alle amiche. Quando sa che sta per uscire per andare a mangiare una pizza, Turetta scrive “non lo fare, è tantissimo, è il limite”. Un’ossessione che porta a crisi di ansia nella vittima.
"Giulia aggredita ripetutamente, 25 ferite da difesa"
Giulia Cecchettin è stata aggredita “ripetutamente” già dal parcheggio di Vigonovo e fino ai venti minuti dopo quando la sagoma della ventiduenne viene ripresa, a terra, nell’area industriale di Fossó, ha affermato ancora nella requisitoria Petroni aggiungendo che nel parcheggio “non c’è stato il tempo di una discussione, tutto è durato sei minuti: sono state trovate diverse macchie di sangue, la lama di un coltello senza impugnatura, il sangue è sicuramente della persona offesa. C’è un’aggressione dinamica, Giulia era cosciente e chiedeva aiuto”.
Giulia viene costretta a risalire in auto e prima di arrivare a Fossó “è stata colpita più volte: sanguina copiosamente come dimostrano le tracce di sangue nell’auto”. “L’aggressione nell’area industriale “dura pochissimo”, il video della telecamera di una ditta mostra soprattutto “la persona inerme in terra che significa che tutta una serie di lesioni, in particolare le 25 lesioni sulle mani, l’immobilizzazione e il silenziamento (uso di scotch, ndr) sono avvenute prima, non hanno ragione di essere dopo”.
“Non è in dubbio la colpevolezza dell’imputato, le prove sono talmente evidenti contro Turetta, c’è l’imbarazzo della scelta” degli elementi che lo rendono responsabile dell’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ha sottolineato il pm.
Quando dopo una settimana di fuga, Filippo Turetta viene fermato in Germania e confessa di aver ucciso l’ex fidanzata “non si sta costituendo, ma ha finito i soldi e si prepara all’arresto cancellando le prove sul suo cellulare”. Più che a quanto trovato in auto, il pubblico ministero pone l’attenzione sulle cose di cui si è disfatto l’imputato: “Non c’è il cellulare della vittima, non ci sono i vestiti insanguinati di Turetta” alcuni degli esempi citati dal pm in aula.
Il corpo di Giulia Cecchettin, coperto da sacchi neri, e abbandonato vicino al Lago di Barcis è stato “trovato in una nicchia, non so come l’abbia trovata l’imputato di notte. Se quella settimana avesse nevicato noi il corpo lo staremmo ancora cercando”., ha sottolineato quindi.
Cronaca
Incendio devastante a Roma Est: Paura e famiglie evacuate...
Una notte infernale a Roma Est, ancora una volta. Ancora un capannone abbandonato, ancora quelle maledette fiamme che spaccano il buio e riempiono l’aria di paura, di incertezza, di domande senza risposta. Questa volta è toccato alla Rustica, un quartiere che già conosce troppo bene il significato di degrado e abbandono. Era la notte tra il 24 e il 25 novembre, quando quel capannone industriale dismesso – 6.000 metri quadrati di niente e di troppo – ha preso fuoco. Le fiamme erano alte, altissime, si vedevano da chilometri di distanza, un bagliore che urlava “pericolo” a chiunque lo guardasse. Dentro c’era di tutto: plastica, pneumatici, vernici. Cose che, quando prendono fuoco, si trasformano in un inferno vero. E così è stato. Un inferno.
I vigili del fuoco sono arrivati subito, senza perdere un attimo, con otto squadre e sei autobotti, pronti a combattere contro quelle fiamme infernali. Hanno lottato per ore, tutta la notte, senza sosta, cercando di domare quel mostro impazzito. Non è stato facile, per niente. L’area era enorme, e quei materiali – così maledettamente infiammabili – sembravano non voler smettere di alimentare le fiamme, come se avessero una volontà propria. Dal rogo si è alzata una colonna di fumo nero, denso, pesante, che ha invaso ogni angolo dell’aria, preoccupando tutti. Sul posto sono arrivati anche i tecnici dell’ARPA Lazio, per monitorare la qualità dell’aria. Perché, diciamocelo, quell’incendio ha liberato sostanze nell’atmosfera che certo non fanno bene e questo lo sappiamo tutti.
Ma c’è di più. Quel capannone, anche se dismesso, non era affatto vuoto. Dentro c’erano decine di famiglie. Persone che cercavano un rifugio, un riparo, un posto dove stare. E invece, all’improvviso, si sono ritrovate a dover lasciare tutto, a scappare via, con il cuore in gola, nella fretta più totale. Immaginate la paura. Non solo per loro ma anche per chi viveva lì vicino, attorno a quel capannone. La paura è stata reale, intensa. Sui social sono apparsi messaggi, tanti messaggi di residenti. C’era chi lamentava l’odore acre del fumo, chi non riusciva a dormire, chi aveva paura per la propria salute. Fortunatamente, al momento non ci sono vittime. Ma quella tensione, quel senso di inquietudine, lo si sente ancora, pesante, nell’aria.
Le cause? Ancora non si sa con certezza cosa abbia scatenato tutto questo caos. Forse un fuoco acceso all’interno del capannone, magari solo per scaldarsi un po’ in una notte gelida. Gli inquirenti sono all’opera, esaminano ogni dettaglio, cercano indizi, cercano di capire se ci siano responsabilità, se qualcuno abbia colpa. E noi? Noi restiamo qui, ad aspettare risposte.
E qui torniamo a un problema che, purtroppo, non è affatto nuovo. Solo qualche mese fa, il 26 giugno, un altro capannone industriale abbandonato era finito in fiamme a San Basilio. Ancora una volta, un edificio dimenticato, pieno di materiali infiammabili, lasciati lì senza controllo, senza nessuno che se ne occupasse. Ancora una volta, fiamme altissime, paura, disperazione. Ma cosa stiamo facendo davvero per evitare che succeda ancora? Le autorità hanno avviato indagini, hanno fatto sopralluoghi ma serve di più, molto di più. Serve un piano serio per questi luoghi abbandonati, serve impedire che diventino bombe pronte a esplodere, rifugi precari che possono trasformarsi in trappole mortali.
Intanto, le raccomandazioni per i residenti sono chiare: fare attenzione alla qualità dell’aria, seguire le indicazioni ufficiali. Ma, diciamocelo, quanto ancora dovremo convivere con questi rischi? Quanto ancora dovremo aspettare prima che qualcosa cambi davvero?