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Chiama il figlio Lecco, ma in Italia potrebbe essere illegale: ecco perché

Di nomi strani ce ne sono tanti al Mondo, ma alcuni colpiscono per rarità e particolarità. È il caso di Lecco Lee Sice, il neonato di Marlee Sice, venuto al mondo nelle scorse settimane e che, portando il nome della città lombarda, è già divenuto un caso di cronaca rosa internazionale.

La giovane mamma di Geraldton, in Australia, ha dato alla luce il suo secondogenito chiamandolo Lecco, scelta condivisa dalla compagna Phoebe Wale: “Prende il nome dal bellissimo borgo d’Italia in cui ho vissuto, e dal mio meraviglioso papà”, ha scritto sul proprio profilo Instagram sotto il post che ritrae in foto il neonato. Lecco Lee Sice è nato alle 10.13 del 13 ottobre, pesa poco meno di quattro chili ed è già la mascotte dei lecchesi, che si sono congratulati in massa sui social.

Ma in Italia, siamo sicuri si possa chiamare il figlio proprio come si desidera? Scopriamolo insieme.

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Nomi vietati in Italia

Scegliere il nome per un neonato è spesso una fonte di grande gioia. Altre volte crea discussioni che portano a compromessi tra i genitori o le famiglie. La legge italiana, però, è chiara e offre ampia libertà ai genitori nella scelta del “prenome”. Il nostro ordinamento riconosce infatti un particolare valore al nome proprio di ciascuno, configurando un vero e proprio “diritto al nome” (composto da nome e cognome), dedicandogli ben quattro articoli del Codice Civile (artt. 6, 7, 8 e 9 c.c.). In particolare, il D.P.R. n. 396 del 2000, nel suo art. 34, stabilisce alcune limitazioni (o meglio, divieti) nella scelta del nome. Scopriamoli insieme.

Il caso di omonimia

L’articolo 34 vieta di imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi. La questione riguarda l’omonimia, di cui di casi al mondo ce ne sono già troppi, ed evitarli nella propria famiglia contribuisce ad una facilitazione legale e ad una maggiore identificazione personale.

Cognome-nome?

Se avessi intenzione di chiamare tuo figlio Berlusconi o Maradona, ad esempio, sarebbe vietato. Si parla di divieto di imporre il cognome ad un neonato.

Nomi ridicoli o vergognosi

Sei un appassionato di cartoni o manga e pensi di chiamare tuo figlio Pikachu? Potresti avere qualche problema, perché la definizione di “ridicolo” o “vergognoso” non ha limiti specifici e un nome non propriamente “normale” rischia di rientrare entro quelle sfumature di “ridicolo” o “vergognoso” vietate dalla legge: come potrebbe intendersi il nome di una città, presumibilmente.

Nomi stranieri

Anche sui nomi stranieri ci sono dei limiti. Quelli imposti dai genitori ai bambini aventi la cittadinanza italiana devono essere espressi in lettere dell’alfabeto italiano, con la estensione alle lettere: J, K, X, Y, W e, dove possibile, anche con i segni diacritici propri dell’alfabeto della lingua di origine del nome.

Genitori sconosciuti?

Infine, in caso in cui i genitori siano sconosciuti al bambino, non possono essere imposti nomi o cognomi che facciano intendere l’origine naturale, o cognomi di importanza storica o appartenenti a famiglie particolarmente conosciute nel luogo in cui l’atto di nascita è formato. E qui diciamo che “Esposito”, ad esempio, non sarebbe proprio indicato.

Sanzioni e modifiche alla legge

E ora ti starai chiedendo “Cosa succede se do a mio figlio un nome vietato dalla legge italiana?”. Se il dichiarante intende dare al bambino un nome in violazione del divieto stabilito nel comma 1 o in violazione delle indicazioni del comma 2, “l’ufficiale dello stato civile lo avverte del divieto, e, se il dichiarante persiste nella sua determinazione, riceve la dichiarazione, forma l’atto di nascita e, informandone il dichiarante, ne dà immediatamente notizia al procuratore della Repubblica ai fini del promovimento del giudizio di rettificazione”.

L’art. 35 del D.P.R. è stato modificato dall’art. 5 della L. n. 219/2012. La versione originale dell’art. 35 recitava: “Art. 35. – (Nome). – 1. Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere costituito da uno o più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre. 2. In quest’ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale di anagrafe”.

La versione aggiornata ora prescrive: “Art. 35. – (Nome). – 1. Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere costituito da un solo nome o da più nomi, anche separati, non superiori a tre. 2. Nel caso siano imposti due o più nomi separati da virgola, negli estratti e nei certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale di anagrafe deve essere riportato solo il primo dei nomi”.

Questo caso ha aperto la diatriba sui cosiddetti “nomi neutri” come Andrea, Sole o Celeste. La giurisprudenza prima ha rifiutato l’uso di nomi tradizionalmente maschili per bambine e viceversa, poi ha aperto alla possibilità di assegnarli insieme a un altro nome di chiara corrispondenza al sesso del nato, e ora sta iniziando ad accettare anche la nozione di “neutro”.

Altri limiti

In passato, ci sono state difficoltà interpretative sul numero di nomi da poter attribuire a un neonato, poiché il D.P.R. n. 396 utilizzava l’espressione tecnica “elementi onomastici”. La legge del 2012 ha chiarito che i genitori possono assegnare fino a tre nomi, separati da virgole, che compariranno solo negli estratti integrali di nascita e non nei documenti ufficiali come il codice fiscale o la carta d’identità.Ora è possibile dare più di un nome al proprio bambino senza complicazioni burocratiche: l’obbligo di utilizzare sempre tutti i propri nomi (massimo due) ricordava ai genitori la funzione sociale del nome come “carattere distintivo dell’identità personale”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Perché i papà italiani usano poco il congedo parentale

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Un papà dà il latte con il biberon al figlio neonato

Da un lato, c’è il congedo di paternità, un diritto che sta trovando sempre più spazio nella cultura del nostro paese. Dall’altro, il congedo parentale, ancora visto da molti papà come una sorta di terreno inesplorato. Mentre il 73% dei padri italiani fa uso del congedo di paternità, solo il 20,4% opta per il congedo parentale, ovvero quella possibilità di prendersi una pausa dal lavoro per occuparsi dei figli al di là dei primi giorni di vita. Perché questa grande differenza? E soprattutto, cosa pensano realmente i genitori italiani delle attuali misure a loro disposizione?

Secondo lo studio 4e-parent (Early-Equal-Engaged-Empathetic), un progetto europeo coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss), la maggior parte dei genitori sente che le politiche attuali non sono sufficienti. E c’è una consapevolezza crescente che un congedo di paternità più lungo e più retribuito sarebbe un passo importante per rendere la genitorialità davvero condivisa tra madri e padri. Per non parlare della necessità di estendere il congedo materno, che molte mamme considerano troppo breve, specialmente per continuare l’allattamento.

“Le famiglie, le madri e i padri hanno grande necessità di misure che consentano la condivisione del ruolo di cura e della gestione domestica”, afferma Angela Giusti, prima ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità e coordinatrice del progetto 4e-parent. Eppure, nonostante questa consapevolezza, l’Italia resta indietro rispetto ad altri paesi europei che hanno già allungato i congedi parentali, anche a favore dei padri, rendendo il congedo un diritto condiviso più equamente tra genitori. Un cambiamento che non riguarderebbe solo la genitorialità, ma l’intero assetto sociale, promuovendo una maggiore parità tra uomini e donne, sia nella sfera privata che professionale.

Congedo di paternità vs. congedo parentale

Il congedo di paternità e il congedo parentale sono due misure distinte, ma entrambe giocano un ruolo fondamentale nel supportare i padri nella gestione della genitorialità, sebbene con caratteristiche diverse.

Il congedo di paternità obbligatorio è un diritto riconosciuto ai padri lavoratori, che prevede un periodo di 10 giorni di astensione dal lavoro, da fruire tra due mesi prima e cinque mesi dopo la data presunta del parto. In caso di nascite multiple, il periodo viene esteso a 20 giorni. Durante questo congedo, il padre riceve un’indennità pari al 100% della sua retribuzione. Si applica sia ai lavoratori dipendenti, sia nel caso di adozioni o affidamenti, ma le condizioni possono variare per i liberi professionisti o i lavoratori autonomi, che possono usufruirne solo in casi particolari (come il decesso della madre o l’affidamento esclusivo al padre).

Il congedo parentale, invece, è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro che i genitori possono scegliere di utilizzare per occuparsi dei figli fino a 12 anni di età. Se usato dal padre, prende il nome di congedo di paternità facoltativo. La durata di questo congedo può arrivare fino a dieci mesi, con la possibilità di estenderlo a undici mesi in particolari circostanze. Il padre ha diritto a tre mesi non trasferibili alla madre e a un ulteriore periodo di tre mesi, che possono essere utilizzati alternativamente con la madre. A livello economico, durante il congedo parentale l’indennità è pari al 30% della retribuzione media giornaliera, ma esistono incentivi che prevedono un aumento dell’indennità al 80% per i primi due mesi di congedo, fruibili entro il sesto anno di vita del bambino.

La paternità accudente

Il concetto di paternità accudente è uno degli aspetti fondamentali del progetto 4e-parent. Si tratta di un’idea che mira a rendere il padre protagonista nella cura quotidiana dei figli, un ruolo che per troppo tempo è stato esclusivo delle madri. La questione fondamentale riguarda la percezione di “spazio” che il congedo parentale offre. Il padre è spinto a tornare presto al lavoro, non tanto per necessità economiche, ma per un retaggio culturale che lo considera meno coinvolto nella cura dei figli rispetto alla madre. Qui entrano in gioco i numeri: il 69% delle madri e il 72% dei padri ritengono che il congedo di paternità dovrebbe essere più lungo, mentre la maggior parte di entrambi i genitori (91% delle madri e 89% dei padri) considera insufficiente la durata del congedo attuale.

La consapevolezza è quindi chiara: per rendere la genitorialità equamente condivisa, è necessario cambiare le politiche attuali, non solo allungando i congedi, ma anche migliorandone la retribuzione. Se il padre non si sentisse sufficientemente supportato economicamente, potrebbe decidere di rinunciare alla possibilità di rimanere a casa per prendersi cura dei figli, portando con sé il senso di “dovere” di tornare al lavoro per motivi legati al reddito. Un passo importante, quindi, sarebbe proprio quello di aumentare la retribuzione dei congedi di paternità per invogliare un numero maggiore di padri a prendersi tempo per crescere i figli, invece di lasciare questo compito principalmente alle madri.

Nel privato solo il 45% dei padri usa il congedo di paternità

Il tema della conciliazione famiglia-lavoro è strettamente legato a quello del congedo di paternità e parentale. Secondo un altro studio del progetto 4e-parent, realizzato su 1023 dipendenti di aziende private del Nord Italia, solo il 45% dei padri ha usufruito del congedo di paternità. Il 53% dei padri che non lo ha fatto ha dichiarato che la presenza della partner a casa è stata un motivo per non approfittare del congedo, mentre il 33% non sapeva nemmeno di poterlo utilizzare e il 14% temeva di avere problemi sul posto di lavoro. In altre parole, il contesto lavorativo gioca un ruolo cruciale nella decisione di usufruire o meno dei congedi.

Le aziende e i datori di lavoro hanno una grande responsabilità nel promuovere una cultura che favorisca la conciliazione tra vita familiare e lavorativa. Da un lato, le politiche aziendali più flessibili, come orari di lavoro ridotti o smart working, potrebbero incoraggiare i padri a prendersi più tempo con i figli. Dall’altro, la percezione di dover mettere il lavoro sempre al primo posto, che ancora persiste in molte realtà aziendali, penalizza in particolare le madri, che nel 49,8% dei casi dichiarano che le loro prestazioni lavorative sono influenzate negativamente dalla necessità di occuparsi dei figli. La stessa difficoltà, sebbene in misura minore, viene riscontrata anche dai padri, ma la frustrazione è generalmente maggiore per le madri, che spesso si trovano a dover fare i conti con aspettative lavorative che non si conciliano facilmente con le necessità familiari.

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È morto l’uomo più anziano del mondo all’età di 112 anni....

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Tinniswood Uomo Più Anziano Guinness World Record

112 anni e 91 giorni: tanto è durata la vita di John Alfred Tinniswood, che per nove mesi è stato l’uomo più anziano del mondo prima di spirare lunedì scorso, “circondato dalla musica e dall’amore”, come hanno dichiarato i familiari.

Tinniswood è venuto a mancare in una casa di cura a Southport, a nord di Liverpool, dove era nato il 26 agosto 1912. Chi sarà ora il suo successore?

Il record di Tinniswood

Tinniswood è stato certificato dal Guinness dei primati come l’uomo più anziano del mondo a 111 anni nell’aprile 2024, quando è succeduto a Juan Vicente Pérez, del Venezuela, morto all’età di 114 anni.

John Alfred Tinniswood è nato pochi mesi dopo il tragico naufragio del Titanic (14 aprile 1912), ha vissuto le due guerra mondiali, prestando servizio nell’esercito britannico durante la Seconda guerra, ha visto lo sbarco sulla luna e ha resistito da centenario alla pandemia da Covid-19. A partire dal secolo di vita, l’uomo aveva ricevuto ad ogni compleanno un biglietto di auguri dalla Regina Elisabetta, nata 14 anni dopo di lui. Ora, questa tradizione veniva proseguita da Re Carlo III, che ha inviato l’ultima lettera lo scorso 26 agosto.

Nel 1942 Tinniswood aveva sposato Blodwen. Un amore durato 44 anni, fino alla morte di lei nel 1986, da cui è nata Susan. Oltre alla figlia, l’uomo lascia quattro nipoti e tre pronipoti.

Chi è l’uomo più anziano del mondo

Con la morte di John Alfred Tinniswood, quarto inglese più anziano della storia, l’uomo vivente più anziano del mondo diventa il brasiliano João Marinho Neto, nato il 5 ottobre 1912. La persona vivente più anziana al mondo resta la donna giapponese Tomiko Itooka di 116 anni.

È donna anche la persona più longeva di tutti i tempi di cui si ha traccia storica, la ultra centenaria francese Jeanne Calment, morta nel 1997 a 122 anni e 164 giorni. D’altronde, è risaputo che le donne vivono di più, anche se spesso vivono peggio.

I pochi consigli di Tinniswood per la longevità

Nonostante i 112 anni, John Alfred Tinniswood ha dato pochi consigli per la longevità, che dipende anche da cause genetiche. La sua esistenza, però, ci offre più spunti di quanto lui stesso pensasse.

“Se debbo proprio svelarvi un segreto, la moderazione è la chiave per una vita sana”, aveva dichiarato l’uomo più anziano del mondo, che non ha mai fumato e raramente ha bevuto alcool. Alla Bbc, Tinniswood ha dichiarato di aver avuto una vita “molto attiva” da giovane, arricchita da “molte passeggiate”. Dietro il suo record nessuna dieta particolare. Anzi, l’unico appuntamento fisso era mangiare fish and chips ogni venerdì, come da tradizione inglese.

L’uomo era convinto che non ci fosse nessun segreto particolare dietro il suo record, ribadendo di non essere diverso da qualsiasi altra persona. Tinniswood sosteneva che la sua longevità fosse “pura fortuna”: “O si vive a lungo o si vive per un breve periodo, non si può fare molto a riguardo. Prendo la mia età con filosofia, come qualsiasi altra cosa”, diceva.

Forse, proprio il suo modo di vivere, compresa la sua “pensione attiva”, è stato un elemento importante per arrivare a 112 anni e 91 giorni di vita.

Una persona grata e “calma di fronte a ogni crisi”

John Alfred Tinniswood, grande tifoso del Liverpool, ha vissuto la sua vita con passione. Era “intelligente, deciso, coraggioso, calmo di fronte a ogni crisi, talentuoso in matematica”, come ricordano i familiari. “A John piaceva sempre ringraziare” si legge ancora nel comunicato dei familiari che a nome suo ringraziano tutti coloro che si sono presi cura di lui nel corso degli anni “compresi gli operatori della casa di riposo Hollies, i suoi medici di base, gli infermieri, tutto il personale del servizio nazionale sanitario”.

Anche se l’uomo ha attribuito alla dea bendata la causa della sua longevità, ci sono altri elementi interessanti della sua esistenza, che potrebbero essere collegati alla longevità.

Il ruolo di una “pensione attiva”

L’uomo ha lavorato come contabile per le due società energetiche Shell e Bp prima di andare in pensione nel 1972, a 60 anni (un sogno per i lavoratori di oggi). Ricorda ancora la famiglia: “Ha avuto una pensione attiva”, dato che Tinniswood svolgeva attività di volontariato alla chiesa Blundellsands United Reform Church a Crosby.

Dall’altra parte del mondo, anche gli anziani dell’isola di Okinawa (dove si vive mediamente 13 anni in più rispetto al resto del mondo) vivono il periodo dell’anzianità in maniera attiva, rendendosi utili alla società.

L’esempio dell’isola giapponese ricorda quello di Tinniswood anche per l’attività fisica, che diversi studi correlano alla longevità: gli abitanti di Okinawa non lasciano passare un solo giorno senza fare una camminata nella natura o per le vie dei loro paesi. L’obbiettivo non è fare grandi sforzi fisici, bensì mantenere un’attività lenta ma costante, anche lavorando nei campi come fa gran parte degli ultraottantenni sull’isola. A differenza dell’(ex) uomo più anziano del mondo, gli abitanti di Okinawa seguono una dieta specifica, ricca di nutrienti e povera di carboidrati.

Per approfondire: L’elisir di Okinawa, dove si vive 13 anni in più e gli anziani sono una risorsa

Gioia, gratitudine, lunghe passeggiate, niente fumo, poco alcool e una vecchiaia attiva. Forse, alla base della longevità di John Alfred Tinniswood c’è stato qualcosa di più della semplice fortuna.

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“Bambini farfalla”, dall’Ospedale Bambino Gesù una nuova...

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Bambini Farfalla Cura

L’epidermolisi bollosa (Eb) è una malattia genetica rara che colpisce prevalentemente i bambini fin dai primi giorni di vita. Nota come la condizione dei “bambini farfalla” per la fragilità estrema della loro pelle, simile alle ali di una farfalla, questa patologia ha un’incidenza globale di circa 1 caso ogni 17.000 neonati, coinvolgendo complessivamente 500.000 persone nel mondo. In Italia, secondo le stime, ne soffrono circa 1.500 persone, con un’incidenza di 1 caso ogni 82.000 nati.

May El Hachem, responsabile della Dermatologia all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, descrive la portata del problema: “L’epidermolisi bollosa è una malattia che condiziona profondamente la vita dei pazienti. Mentre la gestione multidisciplinare resta un’arma fondamentale, oggi la ricerca sta aprendo nuove strade di cura”.

Le diverse forme della epidermolisi bollosa

L’epidermolisi bollosa si manifesta in quattro varianti principali:

  • Simplex, responsabile di oltre il 50% dei casi, con forme generalmente più lievi ma a volte complicate da problemi muscolari o cardiaci;
  • Giunzionale, meno frequente (circa il 10% dei casi), con sottotipi che possono essere letali già nei primi mesi di vita;
  • Distrofica, che causa cicatrici profonde, ulcere e limitazioni funzionali severe;
  • Kindler, la forma più rara, associata a fotosensibilità e complicanze extracutanee.

Tra queste, la forma distrofica recessiva (Ebdr) è la più severa e invalidante. È causata dalla mutazione del gene COL7A1, responsabile della produzione del collagene VII, una proteina essenziale per la coesione tra derma ed epidermide. La malattia porta a lesioni dolorose, ulcere croniche e cicatrici che limitano gravemente la qualità e l’aspettativa di vita. La principale causa di morte per questi pazienti è rappresentata da tumori della pelle, come i carcinomi squamocellulari.

Nuove frontiere della ricerca al Bambino Gesù

Grazie a un finanziamento del Pnrr, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma ha avviato una sperimentazione per sviluppare una terapia genica rivoluzionaria. “Il nostro modello di cura non si limita al trattamento delle lesioni, ma mira a migliorare la qualità della vita di bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa”, sottolinea El Hachem. La sperimentazione, guidata da Franco Locatelli, responsabile di Oncoematologia e Terapie Geniche, mira a correggere il difetto genetico attraverso l’uso di cellule della pelle dei pazienti stessi.

La procedura prevede tre fasi principali, ovvero il prelievo di campioni di pelle dai pazienti; la modifica genetica delle cellule mediante l’utilizzo di vettori virali per correggere il gene COL7A1 e il trapianto del tessuto geneticamente corretto sui pazienti.

In questa fase iniziale, il Bambino Gesù sta selezionando circa 25 pazienti sulla base di criteri stringenti, tra cui l’assenza di tumori della pelle, autoanticorpi contro il collagene VII e la presenza di cellule staminali epidermiche.

Terapie già disponibili

In attesa di risultati dalla terapia genica, altre opzioni stanno già migliorando la gestione della malattia:

  • Gel a base di corteccia di betulla, approvato dall’Aifa, accelera la guarigione delle ferite nei pazienti con Ebdr;
  • Terapia genica topica, un gel contenente copie sane del gene COL7A1, già approvato dalla FDA e in corso di approvazione dall’EMA e dall’Aifa;
  • Terapia cellulare con cellule mesenchimali ABCB5+, che ha dimostrato di ridurre l’infiammazione e migliorare la guarigione delle lesioni nei trial clinici di fase 1 e 2.

Un modello di assistenza integrato

Il Bambino Gesù è il centro di riferimento italiano con la casistica più ampia di pazienti affetti da epidermolisi bollosa (oltre 150). L’ospedale adotta un approccio multidisciplinare, coinvolgendo dermatologi, genetisti, nutrizionisti, chirurghi e psicologi per fornire una presa in carico globale. “Grazie ai progressi della ricerca scientifica, siamo in grado di mettere a disposizione nuove speranze di cura,” afferma El Hachem.

L’Unità di Dermatologia collabora con associazioni come Debra Italia e fa parte del network europeo Ern-Skin per le malattie rare della pelle. Inoltre, grazie al contributo di Debra, è stata allestita una stanza speciale per accogliere bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa in un ambiente confortevole e tecnologicamente avanzato.

Una speranza per il futuro

Le innovazioni in corso al Bambino Gesù rappresentano una luce di speranza per i “bambini farfalla” e le loro famiglie. Con un mix di trattamenti innovativi, assistenza personalizzata e avanzamenti scientifici, il sogno di una vita più serena per i pazienti con epidermolisi bollosa sembra sempre più vicino.

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