“Bambini farfalla”, dall’Ospedale Bambino Gesù una nuova speranza di cura
L’epidermolisi bollosa (Eb) è una malattia genetica rara che colpisce prevalentemente i bambini fin dai primi giorni di vita. Nota come la condizione dei “bambini farfalla” per la fragilità estrema della loro pelle, simile alle ali di una farfalla, questa patologia ha un’incidenza globale di circa 1 caso ogni 17.000 neonati, coinvolgendo complessivamente 500.000 persone nel mondo. In Italia, secondo le stime, ne soffrono circa 1.500 persone, con un’incidenza di 1 caso ogni 82.000 nati.
May El Hachem, responsabile della Dermatologia all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, descrive la portata del problema: “L’epidermolisi bollosa è una malattia che condiziona profondamente la vita dei pazienti. Mentre la gestione multidisciplinare resta un’arma fondamentale, oggi la ricerca sta aprendo nuove strade di cura”.
Le diverse forme della epidermolisi bollosa
L’epidermolisi bollosa si manifesta in quattro varianti principali:
- Simplex, responsabile di oltre il 50% dei casi, con forme generalmente più lievi ma a volte complicate da problemi muscolari o cardiaci;
- Giunzionale, meno frequente (circa il 10% dei casi), con sottotipi che possono essere letali già nei primi mesi di vita;
- Distrofica, che causa cicatrici profonde, ulcere e limitazioni funzionali severe;
- Kindler, la forma più rara, associata a fotosensibilità e complicanze extracutanee.
Tra queste, la forma distrofica recessiva (Ebdr) è la più severa e invalidante. È causata dalla mutazione del gene COL7A1, responsabile della produzione del collagene VII, una proteina essenziale per la coesione tra derma ed epidermide. La malattia porta a lesioni dolorose, ulcere croniche e cicatrici che limitano gravemente la qualità e l’aspettativa di vita. La principale causa di morte per questi pazienti è rappresentata da tumori della pelle, come i carcinomi squamocellulari.
Nuove frontiere della ricerca al Bambino Gesù
Grazie a un finanziamento del Pnrr, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma ha avviato una sperimentazione per sviluppare una terapia genica rivoluzionaria. “Il nostro modello di cura non si limita al trattamento delle lesioni, ma mira a migliorare la qualità della vita di bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa”, sottolinea El Hachem. La sperimentazione, guidata da Franco Locatelli, responsabile di Oncoematologia e Terapie Geniche, mira a correggere il difetto genetico attraverso l’uso di cellule della pelle dei pazienti stessi.
La procedura prevede tre fasi principali, ovvero il prelievo di campioni di pelle dai pazienti; la modifica genetica delle cellule mediante l’utilizzo di vettori virali per correggere il gene COL7A1 e il trapianto del tessuto geneticamente corretto sui pazienti.
In questa fase iniziale, il Bambino Gesù sta selezionando circa 25 pazienti sulla base di criteri stringenti, tra cui l’assenza di tumori della pelle, autoanticorpi contro il collagene VII e la presenza di cellule staminali epidermiche.
Terapie già disponibili
In attesa di risultati dalla terapia genica, altre opzioni stanno già migliorando la gestione della malattia:
- Gel a base di corteccia di betulla, approvato dall’Aifa, accelera la guarigione delle ferite nei pazienti con Ebdr;
- Terapia genica topica, un gel contenente copie sane del gene COL7A1, già approvato dalla FDA e in corso di approvazione dall’EMA e dall’Aifa;
- Terapia cellulare con cellule mesenchimali ABCB5+, che ha dimostrato di ridurre l’infiammazione e migliorare la guarigione delle lesioni nei trial clinici di fase 1 e 2.
Un modello di assistenza integrato
Il Bambino Gesù è il centro di riferimento italiano con la casistica più ampia di pazienti affetti da epidermolisi bollosa (oltre 150). L’ospedale adotta un approccio multidisciplinare, coinvolgendo dermatologi, genetisti, nutrizionisti, chirurghi e psicologi per fornire una presa in carico globale. “Grazie ai progressi della ricerca scientifica, siamo in grado di mettere a disposizione nuove speranze di cura,” afferma El Hachem.
L’Unità di Dermatologia collabora con associazioni come Debra Italia e fa parte del network europeo Ern-Skin per le malattie rare della pelle. Inoltre, grazie al contributo di Debra, è stata allestita una stanza speciale per accogliere bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa in un ambiente confortevole e tecnologicamente avanzato.
Una speranza per il futuro
Le innovazioni in corso al Bambino Gesù rappresentano una luce di speranza per i “bambini farfalla” e le loro famiglie. Con un mix di trattamenti innovativi, assistenza personalizzata e avanzamenti scientifici, il sogno di una vita più serena per i pazienti con epidermolisi bollosa sembra sempre più vicino.
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È morto l’uomo più anziano del mondo all’età di 112 anni....
112 anni e 91 giorni: tanto è durata la vita di John Alfred Tinniswood, che per nove mesi è stato l’uomo più anziano del mondo prima di spirare lunedì scorso, “circondato dalla musica e dall’amore”, come hanno dichiarato i familiari.
Tinniswood è venuto a mancare in una casa di cura a Southport, a nord di Liverpool, dove era nato il 26 agosto 1912. Chi sarà ora il suo successore?
Il record di Tinniswood
Tinniswood è stato certificato dal Guinness dei primati come l’uomo più anziano del mondo a 111 anni nell’aprile 2024, quando è succeduto a Juan Vicente Pérez, del Venezuela, morto all’età di 114 anni.
John Alfred Tinniswood è nato pochi mesi dopo il tragico naufragio del Titanic (14 aprile 1912), ha vissuto le due guerra mondiali, prestando servizio nell’esercito britannico durante la Seconda guerra, ha visto lo sbarco sulla luna e ha resistito da centenario alla pandemia da Covid-19. A partire dal secolo di vita, l’uomo aveva ricevuto ad ogni compleanno un biglietto di auguri dalla Regina Elisabetta, nata 14 anni dopo di lui. Ora, questa tradizione veniva proseguita da Re Carlo III, che ha inviato l’ultima lettera lo scorso 26 agosto.
Nel 1942 Tinniswood aveva sposato Blodwen. Un amore durato 44 anni, fino alla morte di lei nel 1986, da cui è nata Susan. Oltre alla figlia, l’uomo lascia quattro nipoti e tre pronipoti.
Chi è l’uomo più anziano del mondo
Con la morte di John Alfred Tinniswood, quarto inglese più anziano della storia, l’uomo vivente più anziano del mondo diventa il brasiliano João Marinho Neto, nato il 5 ottobre 1912. La persona vivente più anziana al mondo resta la donna giapponese Tomiko Itooka di 116 anni.
È donna anche la persona più longeva di tutti i tempi di cui si ha traccia storica, la ultra centenaria francese Jeanne Calment, morta nel 1997 a 122 anni e 164 giorni. D’altronde, è risaputo che le donne vivono di più, anche se spesso vivono peggio.
I pochi consigli di Tinniswood per la longevità
Nonostante i 112 anni, John Alfred Tinniswood ha dato pochi consigli per la longevità, che dipende anche da cause genetiche. La sua esistenza, però, ci offre più spunti di quanto lui stesso pensasse.
“Se debbo proprio svelarvi un segreto, la moderazione è la chiave per una vita sana”, aveva dichiarato l’uomo più anziano del mondo, che non ha mai fumato e raramente ha bevuto alcool. Alla Bbc, Tinniswood ha dichiarato di aver avuto una vita “molto attiva” da giovane, arricchita da “molte passeggiate”. Dietro il suo record nessuna dieta particolare. Anzi, l’unico appuntamento fisso era mangiare fish and chips ogni venerdì, come da tradizione inglese.
L’uomo era convinto che non ci fosse nessun segreto particolare dietro il suo record, ribadendo di non essere diverso da qualsiasi altra persona. Tinniswood sosteneva che la sua longevità fosse “pura fortuna”: “O si vive a lungo o si vive per un breve periodo, non si può fare molto a riguardo. Prendo la mia età con filosofia, come qualsiasi altra cosa”, diceva.
Forse, proprio il suo modo di vivere, compresa la sua “pensione attiva”, è stato un elemento importante per arrivare a 112 anni e 91 giorni di vita.
Una persona grata e “calma di fronte a ogni crisi”
John Alfred Tinniswood, grande tifoso del Liverpool, ha vissuto la sua vita con passione. Era “intelligente, deciso, coraggioso, calmo di fronte a ogni crisi, talentuoso in matematica”, come ricordano i familiari. “A John piaceva sempre ringraziare” si legge ancora nel comunicato dei familiari che a nome suo ringraziano tutti coloro che si sono presi cura di lui nel corso degli anni “compresi gli operatori della casa di riposo Hollies, i suoi medici di base, gli infermieri, tutto il personale del servizio nazionale sanitario”.
Anche se l’uomo ha attribuito alla dea bendata la causa della sua longevità, ci sono altri elementi interessanti della sua esistenza, che potrebbero essere collegati alla longevità.
Il ruolo di una “pensione attiva”
L’uomo ha lavorato come contabile per le due società energetiche Shell e Bp prima di andare in pensione nel 1972, a 60 anni (un sogno per i lavoratori di oggi). Ricorda ancora la famiglia: “Ha avuto una pensione attiva”, dato che Tinniswood svolgeva attività di volontariato alla chiesa Blundellsands United Reform Church a Crosby.
Dall’altra parte del mondo, anche gli anziani dell’isola di Okinawa (dove si vive mediamente 13 anni in più rispetto al resto del mondo) vivono il periodo dell’anzianità in maniera attiva, rendendosi utili alla società.
L’esempio dell’isola giapponese ricorda quello di Tinniswood anche per l’attività fisica, che diversi studi correlano alla longevità: gli abitanti di Okinawa non lasciano passare un solo giorno senza fare una camminata nella natura o per le vie dei loro paesi. L’obbiettivo non è fare grandi sforzi fisici, bensì mantenere un’attività lenta ma costante, anche lavorando nei campi come fa gran parte degli ultraottantenni sull’isola. A differenza dell’(ex) uomo più anziano del mondo, gli abitanti di Okinawa seguono una dieta specifica, ricca di nutrienti e povera di carboidrati.
Per approfondire: L’elisir di Okinawa, dove si vive 13 anni in più e gli anziani sono una risorsa
Gioia, gratitudine, lunghe passeggiate, niente fumo, poco alcool e una vecchiaia attiva. Forse, alla base della longevità di John Alfred Tinniswood c’è stato qualcosa di più della semplice fortuna.
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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...
Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.
I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’
Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.
Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.
‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà
Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.
Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.
Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.
Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.
La bellezza è anche un privilegio economico e sociale
Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.
Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.
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Bologna, 12 brasiliani chiedono la cittadinanza perché...
12 brasiliani hanno chiesto al tribunale di Bologna la cittadinanza italiana. La parte anomala della vicenda è che la richiesta si basa su un’antenata in comune, nata a Marzabotto nel 1876.
Una richiesta formalmente legittima, ma di dubbia ragionevolezza giuridica, tanto che, con ordinanza, il tribunale di Bologna “ha sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina italiana in materia di cittadinanza, nella parte in cui prevede il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza alcun limite temporale”. Come spiegato dal presidente del tribunale Pasquale Liccardo, i giudici chiedono se sia legittimo riconoscere la cittadinanza anche se l’avo di riferimento sia nato molte generazioni prima (in questo caso quasi 150 anni fa) e i discendenti non abbiano alcun legame con la cultura, le tradizioni e la lingua italiana.
L’ordinanza del tribunale di Bologna
A firmare l’atto è stato il giudice Marco Gattuso, lo stesso che un mese fa aveva sollevato alla Corte di Giustizia Ue il rinvio pregiudiziale del decreto Paesi sicuri, attirandosi le critiche dell’esecutivo. In questo caso, Gattuso spiega che “la cittadinanza identifica l’elemento costitutivo del popolo, cui la Carta costituzionale riconosce la sovranità”, “il criterio che consente di distinguere il ‘popolo’ rispetto agli altri popoli”.
Da qui la questione di costituzionalità sullo ius sanguinis, che si applica senza alcun limite temporale purché la trasmissione di cittadinanza non sia mai stata interrotta con un atto formale di rinuncia. Il tribunale chiede alla Consulta di verificare se “tale disciplina sia o meno in contrasto con le nozioni di popolo e di cittadinanza richiamati nella Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia anche nell’ambito dell’Unione europea”, sottolineando implicitamente l’illogicità del meccanismo.
I 12 brasiliani, spiega ancora il tribunale di Bologna “chiedono l’accertamento della cittadinanza italiana per la sola presenza di un’antenata italiana, fra le decine di loro antenati non italiani, nata nel 1876 e partita da giovane dal nostro Paese”.
Il confronto con gli altri Paesi e il rischio di un precedente
Recentemente, il dibattito politico si è acceso sul tema della cittadinanza tra ius scholae, ius soli e ius sanguinis. Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato agevolmente le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.
Intanto, tranne rare eccezioni, vige uno ius sanguinis particolare: “l’ordinamento italiano è uno dei pochissimi al mondo a riconoscere lo ius sanguinis senza prevedere alcun limite”, scrive ancora il tribunale di Bologna nell’ordinanza spedita a Roma. I giudici si rivolgono alla Consulta non solo in merito alla richiesta dei 12 brasiliani, ma anche considerando che l’Italia “presenta all’estero, secondo le stime più accreditate, diverse decine di milioni di discendenti da un antenato italiano”. Un precedente in tal senso potrebbe generare un effetto a cascata nonostante la dubbia ragionevolezza giuridica del meccanismo.
Seguendo una interpretazione restrittiva della legge, i richiedenti possono diventare italiani pur non avendo mai visto l’Italia se non in video o in foto. Nel frattempo, milioni di immigrati nati e cresciuti in Italia non riescono ad ottenere la cittadinanza perché, tranne in rare eccezioni, non vige lo ius soli, né lo ius scholae o lo ius culturae.
L’analogia con il “caso veneto”
La questione sollevata dal tribunale di Bologna ricorda il “caso veneto”, dove 92mila bambini e ragazzi, figli di genitori stranieri, vivono e studiano senza avere la cittadinanza, mentre 300mila oriundi nati all’estero, con un trisavolo veneto, riescono a ottenerla. Il fenomeno pone interrogativi sul senso di appartenenza e cittadinanza nel nostro Paese, ma anche sui criteri con cui vengono stabiliti i diritti civili.
Il Veneto è una delle regioni italiane più colpite da questa dinamica, a causa del suo passato di forte emigrazione verso le Americhe tra Ottocento e Novecento. Molti discendenti di emigranti veneti, principalmente in Brasile e Argentina, richiedono la cittadinanza italiana grazie alla legge sullo ius sanguinis. Salvatore Laganà, presidente del Tribunale di Venezia, ha confermato che il 43% delle richieste per discendenza in tutta Italia proviene proprio dal Veneto. Dal trasferimento della competenza nel 2022, il Tribunale ha gestito oltre 23mila pratiche, con ancora 18mila richieste pendenti.
La regione oggi si trova a gestire migliaia di richieste di cittadinanza, un compito che grava pesantemente sui piccoli Comuni. Il paradosso demografico è evidente: in un territorio in cui nascono sempre meno bambini – circa 30mila all’anno – il numero di nuovi cittadini per discendenza supera di gran lunga quello delle nuove nascite.
Per approfondire: Alcuni comuni veneti hanno più richieste di cittadinanza che nuovi nati