Tumori, contro melanoma il virus dell’herpes modificato funziona: lo studio
Ascierto: "Si tratta di una nuova frontiera dell'immunoterapia"
L’iniezione nel melanoma di un virus dell’herpes simplex geneticamente modificato è in grado di eliminare le cellule cancerose sia direttamente, ma anche indirettamente rilasciando molecole che stimolano l’attività del sistema immunitario. È questo il meccanismo d'azione di Rp1, immunoterapia a base dei cosiddetti ‘virus oncolitici’ che, in combinazione con un farmaco immunoterapico (nivolumab), può ridare speranza a un terzo dei pazienti con una forma avanzata di melanoma e che non rispondono più all’immunoterapia standard. I risultati dello studio clinico di fase 2 Ignyte su questa cura hanno portato la Food and Drug Administration (Fda), l’agenzia americana che regolamenta i farmaci, a designare il trattamento come Breakthrough Therapy per il trattamento di pazienti adulti con melanoma avanzato precedentemente trattati con immunoterapia.
Una denominazione che ha l'obiettivo di accelerare lo sviluppo e la revisione di terapie per malattie gravi quando le prove cliniche preliminari indicano che queste possono fornire un miglioramento sostanziale rispetto a quelle esistenti. A presentare, per la prima volta in Italia, questa nuova frontiera dell'immunoterapia sono gli specialisti riuniti da oggi a Napoli, in occasione della XV edizione del Melanoma Bridge e della X edizione dell’Immunotherapy Bridge. "Sebbene le opzioni di trattamento per il melanoma avanzato siano migliorate, molti pazienti non traggono alcun beneficio dalle terapie attualmente approvate", spiega Paolo A. Ascierto, presidente della Fondazione Melanoma e del convegno, anche direttore dell’Unità di oncologia Melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell'Istituto Pascale di Napoli.
"In particolare, alcuni pazienti trattati con immunoterapia anti-Pd1 non rispondono dall'inizio a questa immunoterapia e altri rispondono inizialmente e poi sviluppano una resistenza. Per questi pazienti sono disponibili opzioni di trattamento limitate e questo rappresenta un chiaro bisogno medico insoddisfatto per i pazienti, a cui la terapia a base di virus oncolitici come Rp1 potrebbe rispondere".
Hsv 'armato' di due molecole che massimizzano la capacità di eliminare cellule
I virus oncolitici sono una forma di immunoterapia che utilizza virus per infettare e distruggere le cellule tumorali. Rp1, prodotto da un’azienda farmaceutica americana, la Replimune, è un trattamento che si basa su un ceppo del virus herpes simplex progettato e geneticamente ‘armato’ con due molecole (Galv-Gp R e Gm-Csf) che puntano a massimizzare la capacità di eliminare il tumore, l’immunogenicità della morte delle cellule tumorali e l’attivazione di una risposta immunitaria antitumorale sistemica.
"Nello studio Ignyte – prosegue Ascierto – la combinazione di Rp1 a nivolumab ha prodotto risposte durature e clinicamente significative con un profilo di sicurezza gestibile nei pazienti con melanoma avanzato che erano progrediti durante la precedente terapia anti-Pd-1".
Dei 140 pazienti coinvolti, infatti, i ricercatori hanno registrato un tasso di risposta globale superiore al 30% e un tasso di risposta completa del 15%. "Le attuali evidenze dimostrano che RP1 e nivolumab rappresentano una combinazione promettente che produce risposte oggettive in un terzo dei pazienti, con risposte durature, pari a quasi due anni. I dati indicano che si tratta di un trattamento sicuro e che la sopravvivenza è molto promettente. Tutto questo è stato considerato sufficientemente incoraggiante per avviare uno studio di fase 3, Ignyte-3: attualmente è in corso il reclutamento con l'obiettivo di valutare ulteriormente la combinazione di RP1 con nivolumab in pazienti con melanoma avanzato che è progredito dopo le terapia con anti–Pd-1 e anti–Ctla-4", conclude Ascierto.
Salute e Benessere
Ricerca: scoperto potenziale trattamento per autismo e...
Dai laboratori dell’Università di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia Irccs i ricercatori individuano meccanismo alla base comportamenti ripetitivi
Dai laboratori dell’Università di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia Irccs una nuova scoperta sui meccanismi alla base dei comportamenti ripetitivi autistici e sui bersagli molecolari utili per il loro trattamento farmacologico. Lo studio è stato ideato, diretto e condotto da Ada Ledonne, ricercatrice in Farmacologia presso l’Università di Roma Tor Vergata e la Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma ed è stato pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry.
Comportamenti ripetitivi, come movimenti stereotipati, manipolazione ripetitiva di oggetti e comportamenti autolesionistici, sono sintomi caratteristici dei disturbi dello spettro autistico, evidenti anche nella sindrome dell'X fragile, la principale causa monogenetica di autismo e disabilità intellettiva. I comportamenti ripetitivi autistici interferiscono con le normali attività quotidiane e possono essere anche dannosi per i pazienti. Ad oggi non ci sono farmaci approvati per il loro trattamento e questo dipende da una scarsa conoscenza dei meccanismi patologici cerebrali che li provocano.
Lo studio diretto Ledonne - riporta una nota - rivela che una disfunzione dei neuroni dopaminergici dell’area cerebrale denominata substantia nigra compacta è associata all’insorgenza dei comportamenti ripetitivi autistici di un modello murino di sindrome dell’X fragile; lo studio ha anche svelato il meccanismo molecolare alla base della disfunzione dei neuroni dopaminergici nigrali e identificato una nuova strategia farmacologica che è risultata efficace nel ridurre i comportamenti ripetitivi autistici in un modello animale.
"Abbiamo scoperto che i neuroni dopaminergici nigrali di topi modello di sindrome dell’X fragile sono iperattivi e tale disfunzione promuove l’insorgenza di comportamenti ripetitivi autistici - spiega Ledonne - L’iperattività dei neuroni dopaminergici nigrali, finora mai riscontrata nella sindrome dell’X fragile, è causata da un aumento dell’espressione dei recettori del glutammato mGluR1 e dei recettori ErbB4 e ErbB2, che mediano l’azione di fattori di crescita e differenziamento neuronale noti come Neureguline". Le Neureguline e i recettori ErbB4 e ErbB2 - riferisce la nota - sono essenziali per il corretto sviluppo del sistema nervoso centrale e per la regolazione delle funzioni cerebrali anche nel cervello adulto, in quanto modulano l’attività neuronale, la neurotrasmissione e la plasticità sinaptica. La disfunzione dei recettori ErbB non era stata finora riconosciuta come meccanismo patologico alla base dei comportamenti ripetitivi della sindrome dell’X fragile e dell’autismo.
L’equipe di ricerca ha sperimentato nel modello animale di sindrome dell’X fragile un approccio farmacologico innovativo utilizzando un inibitore dei recettori ErbB per attenuare la disfunzione dei neuroni dopaminergici e le alterazioni comportamentali autistiche. "I nostri risultati dimostrano – prosegue Ledonne - che l’inibizione dei recettori ErbB è una strategia farmacologica efficace nel recuperare le disfunzioni dei neuroni dopaminergici nigrali e ridurre i comportamentali ripetitivi autistici del modello murino di sindrome dell’X fragile. Pertanto, le nostre evidenze contribuiscono all’avanzamento della comprensione dei meccanismi molecolari alla base dei sintomi autistici e rappresentano una base solida per proporre valutazioni cliniche dell’efficacia dell’inibitore ErbB per il trattamento di comportamenti ripetitivi in pazienti con sindrome dell’X fragile e autismo".
Allo studio hanno anche contribuito Nicola Mercuri, ordinario di Neurologia all’Università di Roma Tor Vergata e responsabile del laboratorio neurologia sperimentale della Fondazione S. Lucia, Claudia Bagni, ordinaria di Biologia applicata presso l’Università di Roma Tor Vergata e l’Università di Losanna (Svizzera) e i loro gruppi di ricerca.
Salute e Benessere
Malattie rare: Drago (UniCt): “Un Manifesto per...
"L’infezione si può prevenire oltre che curare con nuovi farmaci"
"Il Manifesto sociale è un documento che è stato messo a punto per sensibilizzare gli stakeholders della sanità italiana che orbitano intorno all'oftalmologia, in particolare le malattie rare in oftalmologia, perché si possa prendere coscienza di una malattia, la cheratite da acanthamoeba, malattia ultra rara che fino a oggi non ha avuto la possibilità di essere trattata, farmacologicamente, in maniera efficace e che può, se non trattata adeguatamente, portare anche alla cecità". Lo ha detto Filippo Drago, professore ordinario di Farmacologia clinica presso l'Università degli Studi di Catania, questa mattina all’Adnkronos Salute, in occasione del Dialogue Meeting su 'Conoscere e riconoscere la cheratite da Acanthamoeba', promosso dalla rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief, a Roma.
"Lo scopo di questo Manifesto - continua Drago - è quello di sensibilizzare l'opinione pubblica, in particolare gli operatori sanitari, ma anche i cittadini, perché la malattia si può prevenire, non solo curare con questa nuova medicina, la polihexanide", formulazione 0.08% "che è stata messa a punto da un'azienda farmaceutica italiana. La prevenzione è anche l'obiettivo di questo Manifesto: diffondere la modalità con cui possiamo prevenire la malattia".
L’infezione è ultra rara, "risponde al criterio di prevalenza che è stato stabilito dall'Agenzia europea per i farmaci per le malattie ultra rare, cioè meno di un soggetto ogni 10 mila abitanti, quindi pochissimi individui in Italia - chiarisce Drago - La necessità è quella di conoscere la malattia dal punto di vista clinico", ma soprattutto "prevenirla semplicemente con una serie di atteggiamenti di igiene nei confronti delle lenti a contatto, che vengono utilizzate ormai da moltissime persone, soprattutto giovani, perché - conclude - queste sono la modalità con cui l'infezione si manifesta".
Salute e Benessere
Malattie rare, oculista Rama: “Sintomi aspecifici per...
"Sospettare l’infezione in chi porta lenti a contatto in maniera scorretta e terapia con farmaco già approvato da Ema"
"Sono pochi i campanelli d'allarme. All'inizio questa infezione" degli occhi "dà pochi segni aspecifici. Secondo me, le persone che utilizzano lenti a contatto in maniera scorretta" nel momento in cui hanno anche "problemi piccoli andrebbero viste dall'oculista e, nel sospetto di acanthamoeba, vanno fatti gli accertamenti: la microscopia confocale e il prelievo per esami microbiologici". Lo ha detto Paolo Rama, oculista, professore e consulente al Policlinico San Matteo di Pavia, all’Adnkronos Salute, oggi a Roma, partecipando al Dialogue Meeting su 'Conoscere e riconoscere la cheratite da acanthamoeba'.
Nelle prime fasi di infezione, "l'efficacia del trattamento è altissima - avverte Rama - se si aspetta quando il parassita si approfondisce nella cornea, il trattamento diventa molto più problematico". Trattandosi di un’infezione rara, la sfida per gli oculisti è di "conoscerla, sospettarla e sapere dove inviare per la conferma della diagnosi che è solo strumentale. Non si può fare diagnosi clinica, ci sono esami specifici - rimarca il professore - La microscopia confocale in vivo, uno strumento che consente di evidenziare le cisti nella cornea, e il prelievo per esami microbiologici, culturali specifici".
La terapia "si basa su due antisettici che sono la clorexidina e Phmb, polihexanide, formulazione 0.08%". "Il Phmb è stato approvato dall'Agenzia europea (Ema). Adesso aspettiamo l'approvazione di Aifa", l’Agenzia italiana del farmaco. "Speriamo - conclude - che arrivi in commercio presto".