Siria, si chiude era Assad: l’ultimo dittatore sopravvissuto alla Primavera Araba
Per quasi 14 anni, e grazie all'aiuto decisivo di Russia, Iran e Hezbollah, Bashar era riuscito a resistere non senza enormi difficoltà
Il crollo in Siria del regime guidato per 24 anni da Bashar al-Assad, e prima ancora per quasi 30 anni dal padre Hafez, è l'ultimo colpa di coda della cosiddetta 'Primavera Araba', un movimento pro-democrazia che a partire dalla 'Rivoluzione dei gelsomini' in Tunisia alla fine del 2010 ha scardinato equilibri che sembravano inscalfibili nel grande Medio Oriente. Quelle sollevazioni popolari, su cui in alcuni casi si sono innestati altri tipi di dinamiche, hanno fatto prima vacillare e poi fatto franare autocrazie che sembravano poter durare in eterno. Dopo la Tunisia è stato il turno di Libia, Egitto, Yemen, Sudan e infine la Siria. L'effetto domino della 'Primavera Araba', sommato alle conseguenze dei fatti del 7 ottobre, ci consegnano oggi una regione completamente diversa.
L'ultimo a pagare dazio è stato Assad, l'unico tra i dittatori che sembrava essere riuscito a sopravvivere all'onda lunga delle rivolte, che nel suo Paese erano iniziate a Daraa nei primi mesi del 2011. Per quasi 14 anni, e grazie all'aiuto decisivo di Russia, Iran e Hezbollah, Bashar era riuscito a resistere non senza enormi difficoltà, riconquistando un Paese che nelle prime fasi della sollevazione era sembrato sul punto di sfuggirgli di mano. L'offensiva improvvisa e inaspettata delle fazioni guidate da Hayat Tahrir al-Sham ha messo a nudo la debolezza di un regime di carta che dopo la tregua del 2020 aveva ignorato ogni appello a varare riforme e fare concessioni all'opposizione. Il recente ritorno nella Lega araba da cui Damasco era stata bandita per anni era stato solo un'illusione.
I dittatori deposti
Il primo leader ad essere spazzato via dalla Primavera araba era stato il tunisino Zine El Abidine Ben Ali. Salito al potere il 7 novembre 1987 a seguito di un colpo di Stato incruento contro l'anziano Habib Bourguiba, aveva alimentato nella popolazione speranze di cambiamento che presto avevano lasciato il posto alla paura per un sistema di potere che si rivelò ancora più autoritario di quello del suo predecessore. Il clan Ben Ali mise le mani su tutta l'economia, prendendo il controllo di interi settori al punto che il Dipartimento di Stato americano lo paragonò a una mafia. Alla fine del 2010 scoppiarono proteste nell'entroterra che poi si allargarono alle principali città dell'est. Dopo una grande manifestazione a Tunisi il 14 gennaio 2011, Ben Ali lasciò il Paese, sperando di poter tornare al potere. Morì in esilio in Arabia Saudita nel settembre 2019.
Un mese dopo la fine dell'era Ben Ali, nella vicina Libia iniziava una guerra civile che nel giro di otto mesi chiuse 42 anni di dominio incontrastato di Muammar Gheddafi. L'autoproclamata 'guida' della rivoluzione, che nel settembre 1969 portò al rovesciamento del re Idris, fu il 'campione' dell'unità araba, ma alla fine degli anni Ottanta era stato accusato di essere coinvolto nell'attentato di Lockerbie e in quello al volo Uta 772, esploso sui cieli del Niger. La Libia venne sottoposta a embargo, ma forte di un potere economico che gli derivava dal controllo totale sulle risorse petrolifere del Paese, Gheddafi riuscì successivamente ad accreditarsi presso le principali cancellerie occidentali. A seguito di una sollevazione popolare, l'intervento della Nato fece pendere il conflitto dalla parte dell'opposizione. L'ex dittatore fu ucciso dai ribelli il 20 ottobre a Sirte in circostanze che rimangono ancora poco chiare.
L'allora vice presidente Hosni Mubarak prese il potere in Egitto dopo l'assassinio di Anwar Sadat durante una parata militare nel 1981. Per 30 anni guidò con il pugno di ferro il Paese e questo nonostante il boicottaggio arabo per il Trattato di pace con Israele del 1979, problemi economici ed attentati di matrice islamista. Anche Mubarak dovette fare i conti con le proteste della Primavera araba, in una fase in cui c'erano voci che stesse prendendo in considerazione l'idea di cedere il potere al figlio Alaa, sulla falsariga della dinastia Assad in Siria. Mubarak resistette alla rivolta poche settimane. Una volta capito di essere stato abbandonato dall'esercito, che lo aveva portato al potere, nel febbraio 2011 si dimise. Fu processato con l'accusa di aver causato la morte di dimostranti e incarcerato per poi finire assolto nel 2017. Morì nel febbraio 2020.
Ali Abdullah Saleh sosteneva che governare lo Yemen fosse come "danzare sulla testa dei serpenti" dal momento che il Paese della penisola arabica era un mosaico complesso e violento di interessi tribali. Il suo forte istinto politico, tuttavia, gli permise di restare in sella per 33 anni. Sopravvisse ai ribelli della setta zaidita, una minoranza dell'Islam sciita, che sarebbero diventati noti come Houthi dal nome del loro leader e anche a una guerra civile in seguito a un fallito tentativo di unificare il nord e il sud. Quando le proteste del 2011 raggiunsero lo Yemen, cedette con riluttanza il potere al suo numero due, Abd Rabbo Mansour Hadi. Saleh cercò comunque di resistere, arrivando persino ad allearsi con i suoi ex nemici, gli Houthi, che finirono per assassinarlo nel dicembre 2017 durante un tentativo di fuga dalla capitale Sana'a.
Omar al-Bashir prese il potere con un colpo di Stato sostenuto dagli islamisti in Sudan nel 1989, prima di essere rovesciato dall'esercito 30 anni dopo a seguito di proteste popolari. Fu incriminato nel 2009 e nel 2010 dalla Corte penale internazionale con l'accusa di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità per il conflitto nel Darfur, nel Sudan occidentale, dove scatenò la milizia janjaweed in risposta a una rivolta. Bashir fu trattenuto nella prigione di Kober, nell'area di Khartoum, ma in seguito venne trasferito in un ospedale militare nel nord, dove si troverebbe ancora sotto il controllo dell'esercito.
Cultura
Giovanna Canzi, insegnare a chi vive ‘lontano dalle...
Un libro per raccontare incontri nelle aule 'dietro le sbarre'
Ripartire da dove il filo si è spezzato: perché fornire una istruzione (non sempre ma spesso) aiuta a costruirsi un'altra vita. E' il senso della esperienza raccontata in "Lontano dalla vita degli altri" (marinonibooks, 72 pagine, 35 euro) di Giovanna Canzi, giornalista, editor, curatrice di mostre che a un certo punto della sua vita si ritrova a insegnare in un carcere lombardo, docente della Settima sezione, quella dei detenuti protetti, sex offender, ma non solo. E' un mondo a parte in un universo che è già per definizione "lontano dalla vita degli altri" (anche se gli 'altri' lo vorrebbero ancor più lontano e invisibile). D'altronde il carcere sorge vicino a una discarica: e forse non è un caso.
E' - inutile dirlo - una esperienza che non si può vivere con indifferenza, e Giovanna Canzi la affronta con una partecipazione che fa breccia fra i suoi allievi particolari. La formula scelta non è quella del racconto classico, ma di istantanee scattate - con occhio partecipe e mano leggera - agli studenti che partecipano alle lezioni, talora diffidenti, più spesso curiosi e 'affamati'. Sono ritratti (accompagnati dalle suggestive illustrazioni di Gabriella Giandelli, scarne, evocative, quasi monocromatiche, come in un 'mondo triste') nei quali è bandito ogni pietismo, figurarsi un qualsiasi giudizio morale: l'eco di quello che è successo 'prima' non risuona nelle aule, né nelle pagine del libro. Nell'universo parallelo e senza tempo del carcere si può insegnare utilmente solo se ci si astiene dai giudizi: le sentenze sono già state emesse, e non solo da un giudice. In diversi di questi ritratti è persino omesso il reato all'origine della condanna: è un'informazione superflua per questo tipo di letteratura. Proprio come gli orologi, che - come scopre subito - spesso sono rotti o fissati su orari sballati, perché in un certo senso in carcere il tempo non esiste.
Da 'operatrice' sensibile e consapevole Giovanna Canzi si è immersa in questo compito con dedizione totale, ha curato progetti di reinserimento, ha ascoltato, guidato, promosso iniziative. Come una giardiniera devota, ha seminato e lasciato germogliare l'amore per parole che aiutassero a vivere e non a odiare. Poi l'esperienza è finita e come lei stessa ammette "lo strappo è stato doloroso". Ma è, come si capisce dal tono partecipe di questi ritratti, uno strappo mai definitivamente compiuto.
Esteri
Il segreto dell’Amerigo Vespucci? “La...
L'ambasciatore racconta all'Adnkronos il suo viaggio da Mumbai a Karachi a bordo dell'Amerigo Vespucci
L'ambasciatore Francesco Talò, già consigliere diplomatico del presidente del Consiglio, racconta all'Adnkronos il suo viaggio sull'Amerigo Vespucci da Mumbai a Karachi: "È stata una vera e propria nave scuola anche per me. Durante il viaggio, ho avuto modo di imparare moltissimo dal Comandante, il Capitano di Vascello Giuseppe Lai, e dai suoi ufficiali, con i quali ho conversato sulla loro vita, i Paesi visitati e sugli equilibri e squilibri del mondo che stanno attraversando navigando per gli oceani".
Aggiunge poi di aver “imparato anche dai circa 250 membri dell’equipaggio: dagli anziani, che mi hanno spiegato il funzionamento complesso di questo veliero a tre alberi, e dai giovani, entusiasti e sorridenti nel loro impegno quotidiano per mantenere la nave bella ed efficiente, due caratteristiche che si rafforzano a vicenda".
L'ambasciatore riflette su quanto appreso durante la navigazione: "Quello che ho compreso in pochi giorni di imbarco potrebbe essere considerato un piccolo corso per chiunque lavori in un’organizzazione che richiede lavoro di squadra, sia nell’amministrazione pubblica che nel settore privato. Lavorare in team, responsabilizzare e motivare, accrescere competenze e impegno, garantire il benessere psicofisico per raggiungere la massima efficienza. Sulla Vespucci, la formazione diventa un simbolo che combina entusiasmo per il mare, conoscenza di nuovi Paesi, disciplina, lavoro duro e sacrifici".
"Chi vede la bellezza della nave deve considerare anche questo: un marinaio può non riuscire a raggiungere un genitore morente", confida Talò all'Adnkronos. "È successo proprio al Comandante Lai, che nei pochi giorni di sosta in India ha preso tre voli per raggiungere la Sardegna, partecipare almeno ai funerali del padre e tornare a bordo in tempo per la partenza verso Karachi. È tornato al lavoro come prima, anzi più di prima, circondato dall’affetto dei suoi uomini. Questo fa parte della formazione di persone forti nella mente e nella determinazione, membri di una squadra e professionisti di alto livello".
Esempio come parte fondamentale della formazione
Talò sottolinea l’importanza dell’esempio come parte fondamentale della formazione: "La formazione si costruisce con l’esempio: quello del Comandante verso l’equipaggio, degli anziani verso i giovani e degli allievi ufficiali che dormono sulle amache e imparano a svolgere tutte le mansioni dei marinai che un giorno saranno ai loro ordini. Esempio e rispetto reciproco si alimentano l’uno con l’altro. È così che si forma una squadra, con grandi sacrifici e piccoli gesti come la pizza condivisa tra ufficiali e marinai dopo un turno notturno".
L'ambasciatore ricorda come l’importanza della formazione nelle Forze Armate sia un valore riconosciuto a tutti i livelli: "Del resto, la cerimonia di giuramento degli allievi dell’Accademia Navale a bordo della Nave Trieste, con la partecipazione del Presidente della Repubblica, testimonia quanto sia centrale. Lo stesso vale per l’apertura dell’anno accademico del Centro Alti Studi per la Difesa (Casd), alla presenza del Ministro Crosetto e della Professoressa Severino, Presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione". Talò aggiunge con un sorriso: "In quell’occasione, il Ministro ha citato ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’: ‘Devi correre più che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte, devi correre almeno il doppio!’ È una frase che sintetizza bene la necessità di innovare costantemente, una lezione che vale anche per la Vespucci e per tutte le amministrazioni dello Stato".
Il capitale umano
Ma al centro della formazione, sottolinea l’ambasciatore, c’è sempre il capitale umano: "Lai è un mentore per il suo equipaggio, come Velasco lo era per la sua squadra. Lo vedo mentre gira per la nave: operativo, ascolta, decide con rapidità e chiarezza. Eppure, trova sempre il tempo per qualche parola ai ragazzi, con naturalezza, comprendendo l’approccio giusto per ciascuno. In una squadra, ognuno ha un compito e ognuno è diverso".
La cinghia di trasmissione tra il Comandante e tutti i servizi della nave è il suo vice, il Capitano di Fregata Tommaso Faraldo. "È un veterano del Vespucci, con cinque anni di servizio come Comandante in Seconda. Mi racconta che questo ruolo rappresenta per lui ‘il coronamento di un sogno partito vent’anni fa dai banchi di un istituto nautico’. Ma nonostante l’esperienza, vuole sempre di più da sé stesso, convinto che il segreto sia valorizzare le competenze di ciascun membro dell’equipaggio in un contesto così complesso".
Durante la navigazione tra India e Pakistan, l’ambasciatore Talò ha voluto dare anche il proprio contributo alla formazione: "In due conferenze, ho riflettuto insieme all’equipaggio sul contesto storico che stiamo vivendo, sull’importanza della visione marittima dell’Indo-Mediterraneo e sul potenziale dell’economia blu, con reti di connettività come il corridoio Imec, che collega Mumbai all’Europa attraverso il Mediterraneo e Trieste. La vita a bordo è scandita da lavoro incessante: "In spazi ristretti, 250 persone sanno esattamente cosa fare. C’è chi lucida gli ottoni, chi traccia la rotta, chi si arrampica come un alpinista sulle cime di fibre naturali. È un piccolo villaggio che vive in alto mare, tra un porto e l’altro, garantendo benessere psicofisico e sicurezza per affrontare lunghe navigazioni”. "La campagna del Vespucci non è solo un giro del mondo, ma un modo per proiettare l’Italia nel mondo. È uno strumento di soft power che racconta il nostro Paese all’estero e porta il mondo all’Italia. Chiunque abbia la fortuna di vivere questa esperienza, come me, ne esce cambiato: il Vespucci è carico di storia, ma ci parla di futuro. Perché nessuna organizzazione può sopravvivere senza innovazione e formazione, valori esistenziali anche per la sicurezza nazionale", conclude.
Salute e Benessere
“Farmaco contro il cancro inaccessibile, mio padre in...
La figlia di un chirurgo del Policlinico Umberto I colpito da cancro alla prostata lancia raccolta fondi
"Due anni fa, a mio padre è stato diagnosticato un cancro alla prostata metastatico. Dopo cicli di chemioterapia, radioterapia e un intervento chirurgico, la malattia è progredita in modo aggressivo. L'ultima speranza per fermarne l'evoluzione risiede nella terapia radiometabolica con Lutezio-177 Psma, un farmaco approvato dall'Ue, dall'Aifa e dall'Ema. Tuttavia, in Italia questo farmaco, sebbene approvato, rimane di fatto inaccessibile per molti pazienti". A lanciare l'appello è Alessandra Marenga per il padre Giuseppe, "un medico chirurgo d'urgenza del Policlinico Umberto I (Roma) e docente universitario dell'Università La Sapienza". La volontà è "portare alla ribalta una questione che riguarda non solo la nostra famiglia, ma anche tanti altri malati oncologici in Italia".
"Il trattamento in Italia - ricostruisce la figlia - è disponibile solo attraverso o trial clinici (gratuiti, sperimentazioni su un farmaco non sperimentale) oppure con costi proibitivi che devono essere anticipati interamente (oltre 130.000 euro per sei sedute), e nel contempo i tempi di attesa per l'approvvigionamento del farmaco da parte degli ospedali possono arrivare a 4-5 settimane, un lasso di tempo insostenibile per pazienti nelle condizioni critiche di mio padre", precisa Alessandra. Pertanto "abbiamo deciso di avviare la terapia in Austria, a Innsbruck, dove i costi sono più bassi (15.000 euro per seduta) e il trattamento verrà iniziato con urgenza il 16 dicembre. Per coprire le spese, abbiamo aperto un crowdfunding" su GoFundMe.
"Tuttavia - osserva Marenga - questa situazione mette in evidenza delle problematiche più ampie: il paradosso di un farmaco approvato che rimane 'sperimentale' in Italia; l'onere economico e burocratico che grava sulle famiglie, anche per diritti sanciti dall'Unione europea, come l'assistenza sanitaria transfrontaliera; le tempistiche incompatibili con le esigenze dei malati oncologici in stato avanzato. La nostra famiglia ha esaurito i risparmi e si trova a fronteggiare non solo la malattia, ma anche un sistema che rende difficile accedere all'unica terapia salvavita che rimane".
"Il caso di mio padre - continua la figlia - è emblematico: un uomo che ha dedicato la sua vita alla sanità pubblica, sostenendo il diritto universale alla cura, oggi si vede costretto a chiedere aiuto per accedere a un trattamento che gli spetterebbe di diritto".
"Il fatto che mio padre Giuseppe non possa richiedere l'anticipo del Tfs perché l'Inps ha esaurito i fondi, e che la famiglia debba restare senza reddito per almeno 55 giorni tra il termine del lavoro e il primo percepimento della pensione, evidenzia le criticità del sistema che quindi priva Giuseppe di accedere all'unica e ultima terapia di cui necessita", rimarca Alessandra Marenga. E poi "il fatto che i tempi burocratici di richiesta dell'assistenza transfrontaliera siano lunghi, per i quali Giuseppe intanto deve cominciare la terapia con le sue risorse. Sono tutti problemi di enorme portata". Problemi che la figlia solleva, non solo per suo padre.
La nota dei deputati M5S
"Sta suscitando una certa apprensione l'appello lanciato dalla figlia di Giuseppe Marenga, docente universitario dell'Università Sapienza e medico del Policlinico Umberto I di Roma, che ha aperto un crowdfunding per sostenere le cure del padre, malato di cancro alla prostata metastatico", scrivono in una nota i deputati del Movimento 5 Stelle Andrea Quartini e Gaetano Amato. "L'ultima speranza per fermare l'evoluzione della malattia risiede nella terapia radiometabolica con Lutezio-177 Psma, un farmaco approvato dall'Ue, dall'Ema e dall'Aifa, ma che in Italia attende ancora il completamento dell'iter del costo e rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale, diventando di fatto inaccessibile per molti pazienti. Il trattamento è disponibile con certezza solo affrontando costi proibitivi, pari a oltre 130mila euro per sei sedute, che devono essere anticipati interamente", affermano.
"E allo stesso tempo, l'attesa per l'approvvigionamento del farmaco da parte degli ospedali possono arrivare a 4-5 settimane. Un tempo insostenibile per i pazienti, che a volte, come nel caso del professor Marenga, si vedono costretti a recarsi all'estero con molta fretta, non riuscendo quindi nemmeno a ottenere il riconoscimento dell'assistenza sanitaria transfrontaliera, che consentirebbe un supporto finanziario dell'Asl sui viaggi e sui costi delle terapie - rimarcano i deputati M5S - Abbiamo presentato un'interpellanza al ministro della Salute Schillaci per spingerlo a intervenire sul caso del professor Marenga e di tutti gli altri cittadini italiani che si trovano nella sua situazione, potenziando l'accessibilità alla terapia necessaria, accelerando i tempi del riconoscimento dell'assistenza sanitaria transfrontaliera e valutando se in questo genere di casi sia possibile garantire le necessarie cure con oneri a carico dei bilanci delle Regioni".