L’ascensore a Natale: un piccolo mondo sospeso, traboccante di emozioni
Non so se capita anche a voi, ma quando arriva dicembre, le luci scintillanti delle strade, i profumi dei dolci e quell’aria gelida, nitida, quasi pungente, sembrano amplificare ogni sensazione. Basta poco, persino il ronzio di un impianto di risalita, per sentirsi addosso un turbinio di sentimenti che vanno dalla pura gioia alla più intensa malinconia. E l’ascensore, sì, proprio l’ascensore, in questo periodo dell’anno si trasforma in una sorta di scatola magica capace di accogliere, amplificare, riflettere, deformare e riconsegnare emozioni pure. Una minuscola stanza che va su e giù, come un’altalena che danza nel cuore dei palazzi, soprattutto a Natale, quando l’atmosfera carica di significato può trasfigurare anche un banale percorso verticale in una piccola avventura umana.
Noi ci pensiamo spesso, sapete, guardando le commedie natalizie o i film ambientati durante le feste: quante volte il cinema ha scelto l’ascensore come palcoscenico di scene memorabili? Non è mai soltanto uno strumento di servizio. A volte, in quei pochi secondi di tragitto, si addensa un concentrato di paura, amore, ansia, stupore, gioco, desiderio, attesa. E tutto questo – strano a dirsi – riesce a condensarsi in uno spazio di pochi metri quadrati, perfetto per mettere a nudo l’umanità dei personaggi.
La paura di essere scoperti: un ascensore che nasconde segreti
Pensate a certe situazioni in cui l’imbarazzo si mescola al terrore puro di essere colti sul fatto, lì, in quello spazio neutro che non dà scampo. È il caso di “Merry Christmas”, uno di quei cinepanettoni italiani che tutti, volenti o nolenti, abbiamo incrociato in televisione almeno una volta. Christian De Sica – che di questi film è stato un volto iconico – interpreta un pilota d’aerei con una doppia vita: due famiglie, due donne inconsapevoli l’una dell’altra, due mondi paralleli che non dovrebbero mai incrociarsi.
Ma a Natale, si sa, tutto può succedere. E così l’ascensore di un aeroporto ad Amsterdam diventa la trappola perfetta. De Sica si ritrova in cabina con entrambe le mogli, giunte fin lì all’insaputa l’una dell’altra. Panico. In quei secondi che sembrano eterni, l’ascensore diventa un confessionale forzato, un ring senza vie d’uscita. È un attimo, eppure dentro quel minuscolo box verticale la tensione si taglia a fette, e noi, che osserviamo la scena attraverso la cinepresa, ci sentiamo morire dal ridere e dall’ansia. C’è qualcosa di grottesco e profondamente umano in tutto questo: quell’ascensore ci sta sbattendo in faccia la verità sulle nostre fragilità, sulle bugie, sui nodi che prima o poi vengono al pettine.
Se la paura e il segreto fanno da padroni in certe scene, in altri film l’ascensore diventa un altare del destino. Pensiamo a “Serendipity”, una storia d’amore che sembra sempre sul punto di compiersi e insieme di sfuggire tra le dita. Nel cuore di una New York natalizia, addobbata e sfavillante, John Cusack e Kate Beckinsale si promettono un incontro che dipende dalla fortuna e dall’allineamento imprevedibile degli eventi. Ci sono due ascensori, due direzioni, due pulsanti: se entrambi arriveranno allo stesso piano, allora quella storia merita di essere vissuta. Ma il tempo corre, le porte si aprono e si chiudono, e un bambino giocherellone si mette di mezzo, toccando tutti i pulsanti disponibili. Il risultato? John arriva in ritardo, non trova Kate, e il momento perfetto sfuma in un attimo. Eppure, il ricordo di quell’ascensore, di quella possibilità mancata, resta. La morale è chiara: per il cinema, l’ascensore a Natale non è solo un mezzo di trasporto, ma un detentore di chiavi per entrare nel regno dell’amore. A volte apre porte, a volte le chiude ma non lascia mai indifferenti.
Da panico a calma imperturbabile: il contrasto di “Natale in India”
Non possiamo ignorare il teatro dell’assurdo di “Natale in India”, uno dei tanti film che hanno associato la stagione delle feste alle coppie comiche del cinema italiano. Qui c’è di nuovo Christian De Sica, questa volta a fianco di Massimo Boldi. I due si trovano chiusi in ascensore all’interno di una clinica, un incontro fortuito e bizzarro che scatta per un guasto tecnico. L’ascensore diventa un nido di emozioni contrastanti: da una parte, l’ansia incontenibile di De Sica, dall’altra la tranquillità quasi zen di Boldi. Il cortocircuito è spassoso e allo stesso tempo, trasmette quel senso di instabilità emotiva tipico dei giorni di festa. Sarà che a Natale ci sentiamo tutti più vulnerabili? O forse l’ascensore, chiuso, limitato, ci obbliga a fare i conti con noi stessi e gli altri in un modo che raramente accade al di fuori di quelle pareti?
Non siamo noi i soli ad aver notato la forza narrativa degli ascensori durante le feste. Sergio Alvarez, Marketing Manager di KONE Italy & Iberica, ce lo ricorda con entusiasmo: “Non esiste periodo migliore del Natale per mettere in risalto gli ascensori con una chiave di lettura più leggera e simpatica”. La KONE, multinazionale specializzata nella realizzazione di impianti di elevazione intelligenti, sa bene quanto un ascensore non sia solo una macchina di design e ingegneria, ma un vero spazio sociale. A Natale, ci suggerisce Alvarez, l’atmosfera rende tutto più intenso, le luci e le decorazioni attorno si riflettono nelle superfici lucide della cabina, i cuori sono più aperti, più fragili. E il cinema, da grande cassa di risonanza delle emozioni umane, ha sfruttato questa miscela per regalarci momenti indelebili.
L’ascensore, il contenitore di tutti gli imbarazzi
Forse Fabrizio Caramagna ha ragione, quando dice che “L’ascensore è il contenitore di tutti gli imbarazzi”. Quante volte ci siamo trovati a fissare il pavimento, trattenendo il respiro, desiderando ardentemente che le porte si aprissero il prima possibile per fuggire via? Durante il periodo natalizio, tutto ciò diventa più acuto, più potente. Il cinema ha il merito di mostrarci come un banale viaggio da un piano all’altro possa trasformarsi in un microcosmo emotivo. E così ci ritroviamo a guardarci dentro, a chiederci: se capitasse a noi, come reagiremmo?
C’è poi chi, in ascensore, incontra la possibilità di riscrivere intere esistenze. In “Un Bacio Prima di Natale”, il protagonista Ethan Holt, stanco e annoiato dalla sua quotidianità, esprime un desiderio: cambiare, e cambiare davvero. Nella sua vita “originale”, si era ritrovato bloccato per ore in ascensore con una donna, Joyce, che sarebbe poi diventata sua moglie. Lui, però, chiede di arrivare al piano desiderato senza quel fastidioso intoppo. Ed ecco che la mattina del 1° dicembre si risveglia in una realtà parallela, dove fa carriera ed è vice presidente, ma non è sposato, non ha figli e non conosce davvero Joyce se non come rivale di lavoro. L’ascensore, in questo racconto, è l’incrocio tra due universi: uno fatto di vincoli, legami, piccoli contrattempi trasformati in amore e l’altro una landa sterile di successi materiali ma senza calore umano. Per tornare alla vita vera, Ethan dovrà riconquistare il cuore di Joyce entro Natale. L’ascensore, prima teatro del caso, diventa allora la soglia tra due mondi, e la morale è limpida come la neve: a volte restare bloccati in un luogo scomodo serve a trovare la persona giusta.
Un Natale ingenuo e stupefatto: “Elf – Un elfo di nome Buddy”
Non è solo l’amore a scaldare l’atmosfera natalizia in ascensore, ma anche lo stupore di chi guarda il mondo con occhi da bambino. “Elf – Un elfo di nome Buddy” è l’esempio perfetto: Will Ferrell si cala nei panni di un elfo grande e grosso ma col cuore innocente, che sbarca a New York per conoscere il suo padre biologico. Lì, tra i grattacieli della Grande Mela, sale su un ascensore e… scopre che i pulsanti illuminati possono diventare come le lucine di un albero di Natale. Quella scena, tenera e buffa, condensa una sensazione di meraviglia difficile da scacciare. Ci ricorda che a Natale siamo tutti un po’ bambini e ogni singolo dettaglio può accendere qualcosa di magico dentro di noi.
L’amore che scatta tra due estranei: “A Christmas Kiss”
La passione che esplode all’improvviso è un altro filo conduttore in queste storie verticali. “A Christmas Kiss” ne fa un punto cardine: un ascensore diventa il luogo di un incontro fugace e inatteso, in cui un bacio rubato definisce il destino di una coppia. C’è tensione, c’è la sensazione che nulla sarebbe stato possibile senza quei pochi secondi di sospensione. A volte l’ascensore, soprattutto a Natale, simboleggia uno scarto improvviso dal nostro percorso lineare. È un luogo di transizione, certo, ma anche un portale che mette in contatto due esistenze. Quel bacio, incastonato in una manciata di secondi, diventa un seme che germoglierà fuori da quel minuscolo spazio.
Fuga e intraprendenza: “Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York”
Natale e ascensori possono anche voler dire avventura. Prendiamo un classico: “Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York”. Il piccolo Kevin, interpretato da Macaulay Culkin, ci aveva già abituati ai colpi di scena. Questa volta è solo, in un gigantesco hotel di lusso, inseguito dalla sicurezza. L’ascensore diventa la via di fuga perfetta: un improvviso rifugio verticale per scappare, per depistare chi lo bracca. È l’infanzia che trova sempre una strada originale per cavarsela, un po’ come ogni bambino che, a Natale, cerca un posto sicuro in cui ripararsi dal mondo degli adulti. Il cinema di quegli anni ci ha regalato l’immagine di Kevin che sfugge tra porte scorrevoli, sorprese inattese e scivolate rocambolesche. Anche questo è Natale: una corsa frenetica che culmina in uno spazio ristretto, come la cabina di un ascensore, da cui ripartire con un pizzico di leggerezza.
Il ruolo del cinema e la sua “stanza segreta”
Ci si potrebbe chiedere: perché il cinema è così affascinato dagli ascensori proprio a Natale? Forse perché nelle feste siamo più disponibili a credere alle coincidenze, ai miracoli, agli incontri fatali. Forse perché l’ascensore riduce le distanze: due persone che di solito non si parlerebbero mai, in quell’ambiente costretto, si vedono costrette a condividere un frammento d’intimità. E in una società in cui cerchiamo di tenere il resto del mondo a distanza, quell’improvvisa vicinanza può scatenare reazioni imprevedibili.
Di fronte a uno schermo, noi e voi, guardiamo quei personaggi e ridiamo, sospiriamo, ci agitiamo. Perché sappiamo bene che sotto sotto è un po’ anche la nostra vita: quanti ascensori abbiamo preso senza ricordare nulla? E quanti invece sono rimasti impressi nella memoria? Il cinema li carica di significato, li trasforma in metafore dell’esistenza, in simboli di un ascesa (o di una discesa) emotiva che trova nel Natale il suo momento culmine. Le storie che abbiamo passato in rassegna – dalla paura di “Merry Christmas” all’amore negato di “Serendipity”, dall’imbarazzo di “Natale in India” all’effetto sliding door di “Un Bacio Prima di Natale”, dallo stupore di “Elf” alla passione di “A Christmas Kiss”, fino all’astuzia del piccolo Kevin – ci mostrano tutte le sfumature di un luogo che, in fondo, potrebbe sembrare anonimo e freddo. Invece l’ascensore, soprattutto a Natale, è un crocevia di emozioni umane.
L’ascensore come specchio dell’anima natalizia
Alla fine, è questo che conta: capire che l’ascensore, tra luci sfavillanti e fiocchi di neve, diventa uno specchio dell’anima. Ci fa vedere ciò che tentiamo di nascondere, esalta i contrasti, rende possibile l’incontro e la fuga. A Natale, l’immaginario collettivo ci vuole tutti più vicini, più empatici, pronti a scambiare sguardi e parole. E l’ascensore, anche grazie al cinema che ne ha esaltato la potenza simbolica, diventa un teatro perfetto. C’è chi teme che le porte non si riaprano, chi spera che si fermino sul piano giusto, chi preme tutti i pulsanti per creare un albero di Natale luminoso. In quella manciata di secondi, chiusi tra quattro pareti, possiamo incontrare il nostro lato più autentico.
Non esiste tecnologia, per quanto avanzata, che possa sopprimere la natura profondamente umana di questo spazio in movimento. Sergio Alvarez di KONE lo ribadisce: a Natale l’ascensore si veste di nuovo significato. È un occhio di bue puntato sulle nostre emozioni più genuine. E noi, con voi, lo celebriamo, lo ricordiamo, lo osserviamo nel riflesso delle porte d’acciaio, convinti che, mentre lo guardiamo, sia lui a guardare dentro di noi.
Cultura
‘L’invidia del pene’, in un libro Marzia...
La conduttrice del programma di informazione 'Tg2 Italia Europa': "L'idea nasce dal fatto che ad un certo punto mi sono 'mascolinizzata' per essere più credibile nel lavoro, ma ho scoperto che è stato un grande errore"
"L'idea di scrivere questo libro nasce dal fatto che ad un certo punto della mia vita professionale, mi sono 'mascolinizzata' nei comportamenti, probabilmente per essere più credibile, più forte nel mondo del lavoro, e mi sono accorta che è stato un errore, un grande errore. Il valore di una donna, le caratteristiche femminili, dobbiamo esaltarle e mai nasconderle". 'Racconta così il suo libro 'L'invidia del pene' (Frascati & Serradifalco editori), la giornalista Marzia Roncacci - conduttrice del programma di informazione 'Tg2 Italia Europa', ogni mattina su Rai2 - che è partita proprio dalla teoria di Sigmund Freud (la percezione difettosa che la bambina possiede del proprio corpo, privato del genitale maschile) per chiedersi - raccontando la propria esperienza - se oggi questo concetto abbia ancora senso.
Il volume - da oggi, lunedì 16 dicembre in libreria - è una sorta di manifesto, che vuole rivolgersi alle nuove generazioni ma non solo, in cui il suo vissuto personale della giornalista, si intreccia con gli eventi storici e politici del '68. Dalla scoperta del nuovo vivere sociale, al bisogno di emancipazione privata e lavorativa, l'amore, il sesso, il matrimonio, tutto ciò viene narrato secondo la diretta prospettiva di una donna che ha saputo riconoscere il proprio valore estinguendo qualsiasi discrimine di genere.
"Non pensavo mai di scrivere un libro, quando però mi è stato proposto - riferisce Roncacci - portata a riflettere su questa opportunità, ho detto, dopo qualche mese, 'va bene si può fare, purché sia un testo con una finalità precisa per il lettore'. E così ho fatto. La mia vita è solo uno strumento per sviluppare tematiche importanti storiche, politiche, di costume".
Cultura
Terraincognita: Imago Visibilis et Invisibilis, l’arte di...
Sant’Agata de’ Goti, quel gioiello antico dove ogni angolo sembra raccontare storie sussurrate dal tempo, sta per diventare il palcoscenico di un evento che potrebbe davvero farci vibrare dentro. Si intitola “Terraincognita: Imago Visibilis et Invisibilis” ed è l’ultima magia di Ugo Levita. Un artista, sì, ma anche un visionario – uno di quelli che non smette mai di sorprenderti, di scuoterti, di farti pensare. Dal 22 dicembre 2024 al 1 febbraio 2025, il Museo MILA – un luogo che già di suo sa di bellezza e mistero – ospiterà questa mostra che promette di essere molto più di un semplice evento artistico. Sarà un viaggio. Un’esperienza. Un qualcosa che ti rimane addosso.
Un viaggio tra visibile e invisibile
Ma che vuol dire davvero vedere? E quando è che smettiamo di vedere per davvero? È qui che Ugo Levita ci prende per mano, senza dire nulla, solo con i suoi quadri. E si comincia a camminare in un territorio strano, che non è fatto di strade o paesaggi, ma di emozioni, paure, sogni. “Terraincognita” è una parola antica: sa di mappe e di misteri ma qui non c’entra con luoghi da esplorare col corpo. Qui si parla di quei posti nascosti dentro di noi, quelli che magari non vogliamo neanche vedere. Levita ci invita a fermarci, a guardare in quei punti bui, nei ricordi che fanno male o che ci fanno sorridere e lo fa con quadri che sembrano vivi. Non hanno regole, non li puoi spiegare. Li senti e basta.
Ogni quadro di Levita è come una porta spalancata verso l’ignoto. Ti trovi lì davanti, incerto e senti che per attraversarla devi abbandonare tutte le tue certezze, quella sicurezza che ti sei costruito per non guardare oltre. Ma è proprio questo che fa l’arte di Levita: ti mette a nudo, ti sfida. E lo fa con una semplicità disarmante, come un colpo di vento che porta via tutto, lasciandoti solo con la tua vulnerabilità. Erich Fromm diceva che la creatività richiede coraggio – ed è vero. Levita questo coraggio ce l’ha dentro ogni pennellata, ogni colore, ogni ombra che sembra parlare al tuo io più nascosto. E ti ci ritrovi, che lo voglia o no.
L’arte di Ugo Levita: un’esperienza multisensoriale
Non aspettatevi una mostra tradizionale. Levita è stato definito “pittore di altari laici” e le sue opere rispecchiano questa definizione con una forza dirompente. Ogni quadro è una narrazione, un intrico di simboli e gestualità che catturano lo sguardo e invitano alla contemplazione. Qui, il sacro e il profano si intrecciano in un equilibrio instabile ma magnetico.
“Terraincognita” è la sua quarta personale in Campania nel 2024, dopo “Ondaperpetua”, “Mythos” e “Intermundia” e conferma ancora una volta il talento di Levita nel trasformare l’arte in un viaggio interiore. Come spiega Ferdinando Creta, curatore della mostra, ogni opera è pensata per dialogare sia con chi la osserva che con gli spazi che la ospitano. Il Museo MILA, con la sua architettura che spazia dal romanico al barocco, diventa così parte integrante dell’esposizione.
“Terraincognita”: tra sogno e realtà
Il titolo stesso della mostra è una dichiarazione d’intenti. “Imago Visibilis et Invisibilis” suggerisce che ogni immagine ha più strati, più dimensioni. Alcune si colgono immediatamente, altre emergono con il tempo e con uno sguardo più attento. Per Levita, l’arte è un mezzo per interrogarsi sulla realtà stessa: “E se fosse proprio quello che consideriamo reale la vera illusione?”, sembra chiederci l’artista.
Ogni tela di Levita è un piccolo universo. Ti ci perdi, ti ci immergi e all’improvviso ti accorgi che stai guardando qualcosa che non è fatto per essere spiegato. È come un sogno, uno di quelli che non capisci fino in fondo, ma ti rimane addosso tutto il giorno. Ci trovi simboli antichi, cose che sembrano uscire da un passato remoto e poi all’improvviso ti parlano del presente, di te. Sono storie intrecciate, emozioni crude, visioni che oscillano tra il mito e la vita di tutti i giorni. E mentre le guardi, senti che qualcosa dentro di te cambia, si muove, risuona. È un’arte che non ti lascia in pace, che ti costringe a sentire.
Un luogo d’arte e di spirito
Il Museo MILA è quasi un attore che si muove in scena insieme alle opere di Ugo Levita. Pensateci: siamo a Sant’Agata de’ Goti, un luogo che sembra sospeso nel tempo, dove ogni vicolo e ogni pietra trasmettono qualcosa di unico, qualcosa che parla direttamente al cuore. Questo museo itinerante, dedicato ai luoghi Alfonsiani, è impregnato di storia, di spiritualità, di un’introspezione che ti accoglie e ti abbraccia appena entri.
Le sale non si limitano a ospitare i lavori di Levita: creano un dialogo, uno scambio profondo. Qui le opere non restano mute ma interagiscono con le pareti antiche, con le luci soffuse, con i dettagli architettonici che spaziano dal romanico al barocco. Ogni angolo diventa parte dell’esperienza. Possiamo definire questo museo un amplificatore, un luogo che arricchisce ogni pennellata, ogni simbolo dipinto da Levita. In qualche modo, sembra che l’arte e lo spazio si completino, si potenzino a vicenda, fino a rendere tutto questo qualcosa di straordinario e irripetibile.
L’evento: un invito aperto a tutti
Il vernissage di “Terraincognita” è fissato per domenica 22 dicembre alle 12:00, un momento che promette di essere qualcosa di più di una semplice inaugurazione. Sarà un ritrovo, un abbraccio collettivo attorno a quell’energia speciale che solo l’arte sa creare. E la cosa bella? Chiunque può esserci. L’ingresso è libero, perché l’arte, quella vera, non dovrebbe avere barriere.
E c’è di più. Durante la mostra, ci saranno momenti pensati per coinvolgere tutti, dal più piccolo al più grande. Laboratori dove i bambini potranno giocare con i colori, visite guidate che ti accompagnano in un viaggio dentro le opere e spazi dove fermarti a riflettere, a chiederti cosa ti sta dicendo quell’immagine, quel simbolo. La mostra sarà visitabile fino a sabato primo febbraio ad ingresso libero nei seguenti giorni:
✨ Venerdì dalle ore 16:00 alle 20:00
✨ Sabato dalle ore 15:30 alle 20:00
✨ Domenica dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:30 alle 20:00
Gli altri giorni? Martedì, mercoledì, giovedì: qui le cose si fanno ancora più interessanti. Si accede con una visita guidata, mica un’esperienza qualsiasi. Bisogna prenotare il biglietto, certo… ma ne vale la pena. Ti portano attraverso la mostra, ma non è finita lì. Ti immergi nell’itinerario completo dei luoghi Alfonsiani del Museo MILA. Ogni angolo, ogni dettaglio, diventa parte di un racconto che ti lascia qualcosa addosso, qualcosa che difficilmente dimenticherai. Insomma, è un viaggio nell’arte, nella storia e forse anche un po’ dentro di te.
Perché visitare “Terraincognita”
Viviamo in un mondo frenetico, dove il rumore di fondo spesso ci impedisce di fermarci a riflettere. La mostra di Levita è una rara occasione per fare proprio questo: fermarsi, osservare, lasciarsi toccare. È un viaggio che non richiede bagagli, solo apertura mentale e curiosità.
Come dice Vittorio Sgarbi, “forse lo scopo maggiore delle opere di Levita è insinuare in noi un dubbio supremo”. E allora perché non accettare questa sfida? Perché non lasciarsi stupire e, magari, trasformare?
Informazioni utili
Il Museo MILA si trova nel cuore di Sant’Agata de’ Goti ed è facilmente raggiungibile. Per maggiori dettagli sul percorso, è possibile consultare questo link. Per scoprire di più su Ugo Levita e sulle sue opere, visitate il suo sito web (www.ugolevita.it) o seguitelo sui social (@ugolevitaofficial).
Non lasciatevi sfuggire questa opportunità unica di esplorare l’arte come non l’avete mai vista. “Terraincognita” vi aspetta per un viaggio indimenticabile tra visibile e invisibile.
Cultura
‘Visioni sul set’, gli scatti di Giovanni...
Il regista e documentarista: "Il cinema non è sogno solo per chi lo guarda, ma talvolta anche per chi lo fa", le foto esposte nella libreria Spazio Sette dal 17 dicembre al 16 febbraio
'Visioni di un aiuto operatore. Fotografie di set tra gli anni '80 e '90' di Giovanni Piperno': questo il titolo della mostra, in programma a Roma, dal 17 dicembre al 16 febbraio 2025, presso la libreria Spazio Sette (Via dei Barbieri 7). Gli scatti di Piperno - colti tra il 1987 e il 1997, quando il regista e documentarista era aiuto operatore in produzioni italiane, internazionali e in pubblicità - catturano momenti di vita sui set cinematografici ma soprattutto restituiscono l'umanità di chi il cinema lo fa. Trentacinque fotografie in bianco e nero, realizzate e stampate dall’autore in quel decennio, dove appaiono tra gli altri, Ben Kingsley, Monica Bellucci, Elliot Gould, Nanni Moretti, Liza Minelli, Ornella Muti, Massimo Troisi. Ma anche tanti uomini e donne che il cinema lo fanno dietro la macchina da presa.
"Ho cercato di cogliere quei momenti di sospensione - spiega Piperno all'Adnkronos - che talvolta accadono nel frenetico lavoro della troupe: i momenti di attesa della luce giusta, delle decisioni del regista, degli effetti speciali, attori all’ultima rifinitura di trucco, il lavoro difficile con gli animali...Se già un set cinematografico ha qualcosa di surreale sempre - sottolinea - nei dieci anni che l’ho frequentato mi sono accorto che c’erano dei momenti visivamente onirici e ho cercato di catturarli. Il cinema insomma non è sogno solo per chi lo guarda, ma talvolta anche per chi lo fa", conclude il regista.
Dopo aver studiato fotografia, nel 1986, all’istituto Europeo di Design e con il fotografo americano della Magnum Leonard Freed, Giovanni Piperno sognava di diventare un fotografo di reportage. Ebbe però l’occasione di conoscere il grande direttore della fotografia Giuseppe Rotunno (che negli anni ha lavorato tra gli altri con Visconti, Fellini, Pietrangeli, De Sica, Monicelli, Houston, Fosse, Nichols, Pollack…) che lo convinse ad entrare nella sua squadra. Comincia così la professione - più tecnica che creativa - di aiuto ed assistente operatore, ma per esprimere la sua passione per il reportage per dieci anni scatta fotografie in bianco e nero sui set dove lavora. Oltre a Rotunno, ha collaborato come aiuto ed assistente operatore con diversi direttori della fotografia, quali Dante Spinotti, Giuseppe Lanci, Franco Lecca, John Seale, Janusz Kaminski e Roger Deakins. Tra il 1987 e il 1997 ha lavorato sui set del cinema d’autore come su quelli di genere, della televisione e delle pubblicità, con i registi: Gianfranco Albano, Giacomo Battiato, Terry Gilliam, Marco Tullio Giordana, Riccardo Milani, Nanni Moretti, Martin Scorsese, Michele Soavi, Monica Vitti, ma anche con un outsider come Nico Cirasola. Fotografando sempre il cinema dal punto di vista di chi lo fa, quando si giravano ancora i film con la pellicola.