Gaza, nessuna svolta nei colloqui Israele-Hamas: stallo in attesa di Trump?
Gli ostacoli, gli interrogativi, nodi irrisolti e i punti tornati sul tavolo delle trattative
E' passato più di un anno dall'inizio dei negoziati per arrivare a un accordo che porti a un cessate il fuoco tra Israele e Hamas e alla liberazione degli ostaggi trattenuti nella Striscia di Gaza. Nelle ultime ore non sono arrivate notizie di progressi verso un'intesa, rileva il Washington Post dopo giorni di segnali che lasciavano intendere si fosse a un passo dalla tregua, e il giornale evidenzia come il direttore della Cia, William Burns, abbia lasciato Doha dopo una giornata di lavori e non sia più in Medio Oriente. E' invece rimasta, aggiunge il Post citando un funzionario Usa, una delegazione statunitense.
Israele e Hamas aspetteranno Trump?
"L'Amminsistrazione Biden ha imparato a moderare l'ottimismo", scrive il Post. Israele e Hamas, così come i mediatori americani, egiziani e qatarini a Doha, "vogliono preparare il terreno per Donald Trump", che tornerà il 20 gennaio alla Casa Bianca, ipotizza un componente di una missione diplomatica nella regione. "Sanno che se non arriveranno a un accordo non sarà una cosa positiva per nessuno, israeliani compresi - afferma la fonte -. Penso che questo abbia portato una serie di sviluppi. Il punto è se aspetteranno o meno Trump".
Ostacoli e interrogativi
"Sembra ci siano alcuni ostacoli", ha detto un ex funzionario egiziano. Le differenze tra le parti riguardano quanti e quali degli ostaggi verranno rilasciati da Hamas nella prima fase di attuazione dell'accordo, proposto per sei settimane e in tre fasi, nonché il numero e le identità dei detenuti palestinesi che dovrebbero essere rilasciati dalle carceri israeliane. Non mancano divergenze sulla presenza e sulla permanenza di truppe israeliane a Gaza in caso di accordo per un cessate il fuoco temporaneo.
Israele si è rifiutato di impegnarsi a porre definitivamente fine al conflitto e vuole poter effettuare nuove operazioni militari dopo la prima fase in caso ritenga necessarie ulteriori azioni contro Hamas. C'è poi il nodo dei circa due milioni di palestinesi sfollati a causa dell'offensiva israeliana a Gaza, scattata in risposta all'attacco del 7 ottobre 2023 in Israele. E riguarda in particolare le persone del nord per le quali non è chiaro quando potranno tornare nelle proprie case. Per Israele non sarà possibile fino alla conclusione delle operazioni militari contro Hamas.
Restano interrogativi su chi gestirà gli ingressi a Gaza, ora controllati da Israele, e su chi dovrà assicurare la distribuzione di quello che l'accordo prevede come un flusso "massiccio" di aiuti umanitari. C'è anche il dilemma del governo di Gaza nel dopo-guerra. L'Amministrazione Biden ha insistito su un governo affidato all'Autorità palestinese, che amministra la Cisgiordania, mentre in più occasioni Netanyahu ha respinto una simile ipotesi.
"Non mi fido delle intenzioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu e delle intenzioni di Hamas", ha detto in un'intervista Mahmoud Habbash, consigliere del leader dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, che ha partecipato ai recenti colloqui al Cairo. "Le persone muoiono ogni giorno - ha denunciato - Netanyahu vuole un accordo che gli guarantisca di rimanere al potere e Hamas vuole un'intesa che gli assicuri lo stesso. Il prezzo, e le vittime, sono le persone".
Entrambe le parti avrebbero fatto concessioni significative negli ultimi mesi, anche il via libera da parte di Israele al parziale ritiro delle truppe dal Corridoio Philadelphi, tra la Striscia di Gaza e l'Egitto. Ma continuano a scambiarsi accuse sulla prosecuzione del conflitto.
I nodi tornati sul tavolo delle trattative
Sul tavolo sarebbero tornati i nodi che riguardano il rilascio graduale di ostaggi da parte di Hamas e di detenuti palestinesi da parte di Israele, con Hamas che insiste per la scarcerazione di Marwan Barghouti, a cui Israele è contrario. Hamas ha continuato a chiedere l'attuazione dei termini della proposta di cessate il fuoco presentata a maggio dal presidente americano Joe Biden. E, osserva il Post, mentre la proposta originale prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dalle aree abitate nella prima fase dell'accordo e il ritiro completo di Israele nella seconda, da allora Israele ha costruito infrastrutture militari che indicano una "lunga permanenza".
Israele "assumerà il controllo della sicurezza a Gaza, una volta distrutta la forza militare e a livello amministrativo di Hamas". E Blinken ha osservato che è nell' interesse di Israele" trovare una via d'uscita perché "l'alternativa è un'occupazione permanente di Gaza, che rifiutiamo".
Esteri
Siria, Israele e Turchia nel dopo-Assad: rischio di uno...
Gestire questa rivalità diventerà probabilmente una delle priorità dell'Amministrazione Trump
Alleati degli Stati Uniti e principali beneficiari, a livello strategico, della fine dell'era Assad in Siria, Turchia e Israele sono in rotta di collisione. In Siria e non solo, scrive il Wall Street Journal dei due Paesi che hanno una storia di relazioni difficili e a dir poco tese. Gestire questa rivalità diventerà probabilmente, secondo il giornale, una delle priorità dell'Amministrazione Trump, che si insedierà tra un mese. "I funzionari turchi vogliono che la nuova Siria sia un successo in modo che la Turchia possa controllarla e pensano che gli israeliani potrebbero semplicemente rovinare tutto", è l'opinione di Gönül Tol, direttore del programma Turchia del Middle East Institute.
Molti nella leadership israeliana non sono convinti delle garanzie offerte da Ahmed al-Sharaa (Abu Mohammed al Jawlani) e i funzionari israeliani si sono detti allarmati dal fatto che un nuovo asse di islamisti sunniti, guidato dalla Turchia, possa diventare nel tempo un pericolo grave quanto l'"asse della resistenza" sciita guidato dall'Iran, soprattutto alla luce del sostegno pubblico da parte del leader turco Recep Tayyip Erodgan a nemici giurati di Israele, come Hamas. Lo stesso Erdogan che non ha esitato a definire il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il "macellaio di Gaza". Mentre negli ultimi giorni la Turchia ha più volte chiesto a Israele di ritirare le truppe dalle aree siriane nella zona delle Alture del Golan e ha accusato Israele di sabotare la transizione nel dopo-Assad.
Mentre prende forma la Siria del dopo-Assad, osserva il Wsj, la Turchia emerge come potenza di gran lunga dominante a Damasco, portando Erdogan "più vicino che mai" al coronamento della sua ambizione di una sfera di influenza che si estende fino a Libia e Somalia. "Le relazioni con la Turchia sono sicuramente in un brutto momento, ma c'è sempre la possibilità di un ulteriore deterioramento - ha commentato Yuli Edelstein, presidente della Commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento israeliano - In questa fase non si tratta di minacce a vicenda, ma la situazione potrebbe evolvere in scontri per quanto riguarda la Siria, scontri con proxy ispirati e armati dalla Turchia". La minaccia potenziale della Siria non è immediata, è convinto, ma nel medio periodo i gruppi islamisti nel sud della Siria potrebbero costituire un pericolo le comunità israeliane.
"Ci sono ancora canali di comunicazione tra i due Paesi e la Turchia è sempre un alleato degli Stati Uniti, quindi le questioni possono essere appianate", ha invece osservato Eyal Zisser, docente di storia contemporanea del Medio Oriente dell'Università di Tel Aviv, certo che per Israele sia di gran lunga migliore la prospettiva di una Siria controllata dalla Turchia rispetto all'Iran. Anche ad Ömer Önhon, analista con un passato da ambasciatore turco a Damasco, sembra esagerato parlare di imminente scontro tra Turchia e Israele in Siria. "La Turchia è contraria alle politiche del governo Netanyahu - ha affermato - e se cambieranno le politiche le relazioni potranno tornare alla normalità".
A parte il Qatar (alleato di Ankara), altri partner americani nella regione, come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e la Giordania, avrebbero le loro remore sulla nuova influenza turca. Si teme una rinascita dell'Islam politico, a partire da Damasco. A lungo le politiche della Turchia hanno irritato le Amministrazioni americane. "La Turchia è stata per molto tempo uno stato canaglia all'interno dell'alleanza occidentale", ha commentato Jonathan Schanzer, alla guida della Foundation for the Defense of Democracies, think tank di Washington. Per Shalom Lipner, oggi all'Atlantic Council ma in passato consigliere di diversi premier israeliani, "Hts al posto di guida a Damasco, sotto la protezione turca, solleva la possibilità sconfortante per Israele di islamisti ostili lungo il confine nordorientale, una situazione che potrebbe diventare ancor più difficile se i curdi venissero respinti, lasciando posto alla rinascita dell'Is".
Intanto in Siria continua l'offensiva dell'Esercito nazionale siriano, sostenuto da Ankara, contro i curdi siriani nelle regioni nel nordest del Paese arabo dove si trovano basi militari Usa. Tra i combattenti ci sono curdi del sudest della Turchia e Ankara considera il Pkk "organizzazione terroristica". "Quanto sta accadendo in questo momento è che un Paese Nato sostiene un'organizzazione terroristica che opera contro un altro Paese Nato", è l'accusa di Mehmet Șahin, deputato dell'Akp di Erdogan. Per Berdan Oztürk, del partito filocurdo Dem, Washington deve sostenere il curdi siriani in nome della battaglia comune degli anni passati contro l'Is.
Così Ankara è saltata su tutte le furie quando il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa'ar, ha affermato che Israele dovrebbe considerare i curdi come "alleati naturali". Ma è irrealistico immaginare un sostegno materiale ai combattenti curdi siriani da parte di Israele, secondo l'ex diplomatico turco Aydın Selcen. "Significherebbe che Israele ha perso la testa se decidesse di andare alla ricerca di guai con la Turchia in Siria - ha commentato - Negli ultimi sviluppi Ankara è la vincitrice, Israele è il vincitore. E non vedo la possibilità di un conflitto aperto tra Israele e Turchia. Semplicemente, non ha senso".
Esteri
Trump avverte l’Ue: “Acquisti su larga scala di...
Il presidente eletto affida a Truth l'avvertimento a Bruxelles, proprio mentre l'Ue cerca disperatamente di evitare una guerra commerciale
L'Europa acquisti gas e petrolio americani su ampia scala se non vuole dazi. Donald Trump affida a Truth l'avvertimento a Bruxelles, proprio mentre l'Ue cerca disperatamente di evitare una guerra commerciale e ha studiato potenziali modi per evitare dazi aumentando gli acquisti di merci statunitensi come il gas liquido (Gnl) o i prodotti agricoli.
"Ho detto all'Unione Europea - ha scritto Trump su Truth social - che deve colmare il suo enorme deficit con gli Stati Uniti acquistando su larga scala il nostro petrolio e il nostro gas. Altrimenti, sono dazi a tutto spiano!!!". La minaccia di Trump fa seguito alle proposte già avanzate da Bruxelles, secondo cui gli Stati membri potrebbero acquistare più Gnl statunitense, che è stato un'ancora di salvezza dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina.
Funzionari dell'Ue hanno anche iniziato a lavorare su potenziali rappresaglie commerciali nel caso in cui Trump dovesse imporre dazi, ma sono desiderosi di evitare un conflitto economico con la Casa Bianca, visti altri settori di dipendenza dagli Stati Uniti, come la difesa, scrive il Financial Times.
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato a novembre che l'Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti. "Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell'energia", ha dichiarato ai giornalisti.
Di qui il commento di un funzionario dell'Ue: "Sembra strana come 'minaccia', dato che la von der Leyen ha alluso alla possibilità di fare proprio questo". Gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell'Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.
Secondo gli analisti citati dal quotidiano, gli Stati Uniti dovrebbero peraltro espandere la produzione di Gnl per fornire maggiori quantità all'Ue. "Il problema principale è che al momento gli Stati Uniti non hanno capacità di Gnl di riserva da inviare in Europa”, ha dichiarato Florence Schmit, di Rabobank.
Ue: "Con Trump parleremo anche di energia"
Da parte sua, la Commissione Europea, davanti alla richiesta di Trump non chiude la porta alla possibilità di comprare più greggio americano. "Non arriviamo a quel livello di speculazione - risponde, interrogato in merito durante il briefing con la stampa a Bruxelles, il portavoce per il Commercio dell'esecutivo Ue Olof Gill - abbiamo chiarito che, in materia di commercio, ma anche in senso generale, vogliamo un avvio il più possibile costruttivo con l’Amministrazione entrante. Queste discussioni riguarderanno le nostre relazioni commerciali ed economiche, nonché gli aspetti energetici".
Esteri
India, litigano su nome figlio: dopo 3 anni lo decide...
Dopo il verdetto la coppia si è scambiata ghirlande di fiori in segno di pace e sembra che abbiano deciso di rinunciare al divorzio
Una coppia indiana ha litigato, per tre anni, sul nome da dare al loro primogenito. Una diatriba che sembrava irrisolvibile, tanto che la donna aveva chiesto il divorzio, ma che alla fine è stata risolta grazie all'intervento del tribunale, che ha scelto il nome del bambino e riportato la pace tra i genitori. E' successo nello stato del Karnataka, nell'India meridionale. Qui nel 2021, dopo aver dato alla luce il suo primo figlio, una donna è tornata dai genitori, come da tradizione, per essere assistita dai familiari nelle prime settimane dopo il parto. Sempre tradizione vuole che il marito vada a riprendere moglie e figlio per riportarli a casa, dopo un breve periodo. Questa volta, però, la madre 21enne si è opposta al nome che il marito aveva scelto per il loro bambino e lui, per tutta risposta, ha deciso di lasciarli dai genitori di lei.
La donna ha quindi scelto lei come chiamare suo figlio optando per 'Adi', un nome composto dall'iniziale del nome di lei e di parte del nome del marito. Intanto il tempo passava, i mesi diventavano anni, e la donna ha deciso di rivolgersi al tribunale di Hunsur per chiedere sostegno finanziario dal marito in quando ''casalinga'', come spiega il procuratore aggiunto Sowmya. L'avvocato della donna ha quindi spiegato alla Bbc che la tensione è aumentata a tal punto che la donna ha chiesto il divorzio.
Del caso si è prima occupato un tribunale locale e poi un tribunale popolare, noto anche come Lok Adalat, dove si possono risolvere cause tramite la mediazione. I giudici hanno suggerito alla coppia diversi nomi, ma i genitori sono sempre stati irremovibili nelle loro scelte. Tanto che, alla fine, il nome del bambino è stato deciso dal tribunale che, a tre anni dalla sua nascita, ha optato per 'Aryavardhana', ovvero qualcuno che ha a che fare con la nobiltà.
Dopo il verdetto la coppia si è scambiata ghirlande di fiori in segno di pace, come prevede la tradizione indiana, e sembra che abbiano deciso di rinunciare al divorzio e continuare il loro matrimonio.