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Cristina Chiabotto e Mario, quando la legge anti-suicidi diventa “’A Livella”

Cristina Chiabotto Sorride

Apparentemente Cristina Chiabotto, celebrità del mondo dello spettacolo, e Mario (nome di fantasia), ex operaio metalmeccanico della provincia di Bergamo, non hanno nulla in comune. Appartengono a mondi che, almeno in teoria, non si incroceranno mai.

La prima, Miss Italia 2004, conduttrice televisiva e volto di svariate pubblicità, è stata travolta da scelte sbagliate che l’hanno portata a dichiarare un debito di oltre 2,5 milioni di euro. Mario, invece, rappresenta quella “Italia normale” spesso dimenticata: un uomo costretto a dormire in auto e pressato dai creditori dopo aver perso il lavoro, la casa e la compagna. Entrambi si sono trovati a un passo dal baratro per una situazione debitoria diventata più grande di loro.

Una legge ha unito queste due storie di difficoltà e riscatto: la legge 3 del 2012, conosciuta come “legge salva suicidi”. Strumento tecnico ma umanamente rivoluzionario, questa normativa è diventata una sorta di “Livella” – proprio come quella resa famosa dalla poesia di Totò – che mette tutti sullo stesso piano, indipendentemente dal loro passato o dallo status sociale.

Cristina Chiabotto, la caduta e la rinascita

La celebrità 38enne ha rivelato di aver utilizzato la legge anti-suicidi nel 2019 per affrontare un debito da oltre 2,5 milioni di euro con il Fisco, legato a cattivi consigli finanziari ricevuti a inizio carriera e spese che si sono rivelate insostenibili. Con l’aiuto di un team legale, la showgirl ha presentato un piano basato sulla legge 3/2012 al Tribunale di Ivrea. Il piano di liquidazione controllata le ha permesso di ridurre significativamente i debiti, rinunciando a parte del suo patrimonio.

Questo sacrificio le ha restituito una vita serena e le ha offerto la possibilità di ripartire. “Ho la coscienza a posto e voglio pagare tutto ciò che devo”, disse all’epoca Cristina Chiabotto, che è riuscita a soddisfare almeno parzialmente i creditori.

Il caso di Mario: il sovraindebitamento e la crisi personale

La storia di Mario, 50 anni, ex operaio metalmeccanico parte da un lavoro stabile e un sogno semplice: costruire una famiglia con la compagna e vivere nella casa comprata con il mutuo. La sua vita è stata però stravolta da eventi concatenati che lo hanno portato sull’orlo del baratro. Il licenziamento dalla fabbrica dove era assunto a tempo indeterminato, un grave incidente stradale, la fine della relazione sentimentale e il mutuo da 100.000 euro impossibile da ripagare senza un lavoro lo hanno condannato a una spirale di debiti.

Costretto a dormire in macchina per mesi, pressato dai call center dei creditori, Mario è stato salvato dal supporto delle istituzioni locali e da Protezione Sociale Italiana, che lo ha aiutato ad accedere alla legge salva suicidi. Grazie a questa normativa, è riuscito a intraprendere un percorso di ristrutturazione del debito, recuperando dignità e speranza.

A novembre, il tribunale di Treviso aveva concesso l’esdebitazione totale a una coppia di settantenni di Casale sul Sile, cha rischiavano di vedere la propria vita crollare a picco dopo un grave indebitamento, in realtà dovuto alla cattiva gestione imprenditoriale del figlio.

Come funziona la legge anti-suicidi

La norma entrata in vigore nel 2012, eloquentemente conosciuta come “legge anti-suicidi”, è uno strumento fondamentale per privati e piccoli imprenditori che si trovano in gravi difficoltà economiche. Questo meccanismo consente di ottenere una cancellazione parziale o totale dei debiti, in base alla valutazione del tribunale, purché il debitore dimostri di non avere i mezzi per adempiere agli obblighi finanziari e di non aver agito in malafede o con colpa grave.

La Legge 3/2012 consente la cancellazione di diversi tipi di debiti all’interno delle procedure di sovraindebitamento, tra cui quelli con:

  • Banche e istituti finanziari, come mutui e prestiti personali;
  • Fornitori e privati, come quelli relativi al condominio o il caso dell’anziana coppia di Casale sul Sile;
  • Debiti con le Pubbliche Amministrazioni, inclusi quelli con l’Agenzia delle Entrate e Equitalia.

Non possono essere eliminati tramite questa legge i debiti di mantenimento, come gli “alimenti” non pagati al coniuge separato o divorziato.

Il processo di esdebitazione inizia con la presentazione della domanda a un Organismo di Composizione della Crisi (Occ), che analizza la situazione del richiedente e formula un piano di risanamento o un accordo con i creditori. Se il tribunale approva la richiesta, il debitore non è più soggetto alle azioni di recupero crediti, e in alcuni casi il debito viene cancellato definitivamente. Questa procedura è stata ideata per offrire un’opportunità concreta a chi rischia di essere travolto dai debiti, spesso causa di gravi disagi personali e sociali. Durante la procedura di risoluzione della crisi, è fondamentale elencare tutti i debiti detenuti e dichiarare tutti i beni posseduti.

‘A Livella senza passare miglior vita

In Italia, i suicidi legati a situazioni di sovraindebitamento e crisi economica sono una questione allarmante e poco discussa. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) indicano un tasso di suicidi di 7,2 casi ogni 100.000 abitanti, con una forte variabilità tra Nord e Sud e un’incidenza maggiore tra gli uomini nella fascia d’età 25-69 anni. Secondo l’Iss, nel 2020 si sono registrati 3.879 suicidi in Italia, con una percentuale significativa di questi legati alla crisi economica e ai problemi finanziari, aggravati dalla pandemia di Covid e dall’aumento dell’inflazione​ a cui non è corrisposto l’aumento dei salari.

Le vicende di Mario, Cristina Chiabotto e dell’anziana coppia trevigiana mostrano come nessuno sia immune dalle difficoltà economiche, a prescindere dalla ricchezza. Una verità semplice, spesso sottovalutata.

In questo, la legge anti-suicidi assomiglia alla “Livella” di Antonio De Curtis (se preferite, “Totò”) con una enorme differenza: dà una seconda chance a persone molto diverse tra loro senza che passino a miglior vita. Anzi, evitando che i debiti li portino a compiere l’estremo gesto.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Un mese senza alcol: la sfida del Dry January (che nasce da...

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Giovani bevono birra

Ogni anno, subito dopo che le luci delle festività natalizie si spengono e il caos dei bagordi del cenone di Capodanno lascia spazio a una nuova calma, gennaio si trasforma in una vera e propria sfida. Non parliamo di saldi irresistibili, di diete drastiche o di nuovi abbonamenti in palestra, ma di un’iniziativa che riguarda il bicchiere, un cambio di prospettiva che si tinge di sobrietà. È il Dry January, o “Gennaio Asciutto”, una campagna che invita le persone a prendersi una pausa dall’alcol per un intero mese.

Cos’è che spinge un numero sempre maggiore di persone a dire “no” alla birra dopo il lavoro, al calice di vino durante la cena, o al cocktail del weekend? Non si tratta solo di salute, anche se i benefici fisici sono certamente rilevanti. Piuttosto, il Dry January è un’opportunità di introspezione, un momento per ascoltare il proprio corpo e la propria mente. Un’esperienza di autoconsapevolezza, che non impone un cambiamento permanente ma che offre l’opportunità di fare un test, quasi come un gioco, per scoprire quanto influisce veramente l’alcol sulla nostra vita quotidiana. E i risultati, nonostante la reticenza iniziale di alcuni, spesso riescono a sorprendere anche i più scettici.

Cos’è il Dry January e come è nato

Il Dry January nasce come una campagna di sensibilizzazione sull’abuso di alcol, ideata e promossa dalla benefica organizzazione britannica Alcohol Change UK. Il suo scopo? Invitare tutti a una pausa dal consumo di alcol per tutto il mese di gennaio, con l’intento di stimolare una riflessione sulla relazione che ciascuno ha con l’alcol e sui benefici derivanti dall’astinenza.

Tutto ha inizio nel 2011, quando Emily Robinson, un membro di Alcohol Concern (oggi diventata Alcohol Change UK), decise di smettere di bere per un mese intero in preparazione a una mezza maratona. Durante quel periodo, Emily non solo notò i benefici immediati dell’astinenza, come un miglioramento del benessere generale e un aumento dell’energia, ma si rese anche conto di quanto fosse positivo il distacco dall’alcol, portandola a riflettere sulla propria vita. La sua esperienza scatenò l’interesse di molte persone, che la spinsero a trasformare quella che inizialmente era una sfida personale in una campagna vera e propria. Fu così che nel 2012 Emily lanciò la sua idea a livello internazionale, facendo del 2013 il primo anno ufficiale di Dry January.

Nel 2014, Alcohol Change UK registrò il marchio Dry January, dando ufficialmente vita all’iniziativa come la conosciamo oggi. Da allora, il successo è stato travolgente. Il numero di partecipanti è cresciuto esponenzialmente, passando da 4.000 nel 2013 a ben 215.000 iscritti globalmente nel 2024. E, con il passare degli anni, Dry January è diventato sempre più un’occasione di riflessione collettiva sul consumo di alcol, una vera e propria sfida che coinvolge milioni di persone in tutto il mondo.

I benefici del Dry January

Uno dei motivi principali per cui molte persone si iscrivono al Dry January è la possibilità di sperimentare un miglioramento della salute fisica. Ridurre o eliminare il consumo di alcol può avere effetti davvero sorprendenti sul nostro corpo.

Prendiamo il sonno, ad esempio: l’alcol, pur avendo un iniziale effetto rilassante, disturba profondamente il nostro ciclo del sonno, provocando risvegli notturni e una sensazione generale di stanchezza al mattino. Dopo un mese di astinenza, molti partecipanti notano una qualità del sonno notevolmente migliorata, con notti più tranquille e un risveglio più riposato.

Un altro effetto tangibile riguarda la pelle: l’alcol disidrata, e una pausa di un mese può fare miracoli. Il risultato? Una pelle più luminosa e sana, che recupera il suo naturale equilibrio. Inoltre, il corpo, privo dell’energia necessaria per metabolizzare l’alcol, può concentrarsi su attività più salutari, donando a molti una maggiore energia e vitalità. La mente, non sovraccaricata dai postumi della sera prima, risulta più chiara, consentendo maggiore concentrazione e produttività.

Tuttavia, i benefici non si limitano a questi aspetti fisici. Per molti, il Dry January rappresenta anche un’opportunità per rivedere le proprie abitudini e capire se davvero l’alcol gioca un ruolo così centrale nella loro vita sociale ed emotiva. È un mese dedicato all’ascolto di sé stessi, per esplorare i propri limiti e, magari, per rivalutare la propria relazione con l’alcol.

La spinta economica del Dry January

Dry January non è solo un fenomeno sociale, ma anche un motore per il cambiamento economico. Il mercato delle bevande analcoliche è in costante espansione, con un aumento globale del 34% tra il 2019 e il 2023, secondo un report di Global Market Insights. In Italia, diverse aziende, dai marchi storici alle start-up, stanno investendo in questa crescente tendenza, proponendo sul mercato birre analcoliche, vini senza alcol e cocktail ready-to-drink che offrono esperienze sofisticate senza gli effetti collaterali dell’alcol. La domanda è così forte che molte grandi catene di supermercati stanno ampliando continuamente le loro offerte di prodotti senza alcol, dando sempre più spazio a una “nuova normalità” nel bere.

L’impatto sociale

Ma il successo del Dry January non si misura solo nei numeri. Si tratta di un vero e proprio movimento culturale che ha il potere di stimolare una riflessione collettiva sul consumo di alcol, invitando le persone a mettere in discussione le proprie abitudini e a scoprire nuove modalità per divertirsi, rilassarsi e celebrare. Dry January diventa così l’occasione per riscoprire quanto possa essere bello vivere un mese senza dipendere da un bicchiere. Si scopre che si possono trovare altre forme di piacere, altre modalità per condividere momenti di convivialità, senza la necessità di un brindisi.

Un aspetto che sta guadagnando attenzione negli ultimi anni è l’incremento del consumo di alcol tra i giovani, con preoccupazioni crescenti sulle abitudini nocive come il binge drinking, ovvero il consumo eccessivo di alcol in breve tempo. Secondo un report Istat su dati del 2023, il 15% della popolazione di 11 anni e più consuma alcol in modo rischioso, con una prevalenza maggiore tra gli uomini (10,8%) rispetto alle donne (3,1%). Il binge drinking è particolarmente diffuso tra gli adolescenti (15,7% tra gli 11-17enni) e gli ultra-sessantenni (18,1% tra gli over-64). L’Italia, inoltre, evidenzia una maggiore prevalenza di consumo eccessivo nel Nord, dove il 18,9% della popolazione supera le soglie raccomandate, mentre tra i giovani il binge drinking rappresenta una vera e propria criticità crescente.

Secondo un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il consumo di alcol è problematico soprattutto tra gli adolescenti. Il 18% degli undicenni ha già sperimentato l’alcol, e la percentuale cresce vertiginosamente con l’età, raggiungendo il 57% dei quindicenni. In questo scenario, Dry January si presenta come un’opportunità di sensibilizzazione per combattere gli effetti negativi di queste abitudini pericolose e promuovere un comportamento più consapevole.

Concludere il mese di gennaio

Arrivati a fine gennaio, molti partecipanti al Dry January si rendono conto che i benefici fisici, mentali ed emotivi che hanno sperimentato non sono solo temporanei. Un mese senza alcol può sembrare lungo, ma i risultati si estendono ben oltre la fine del mese. La maggiore lucidità, l’energia e la sensazione di benessere possono durare molto più a lungo. Non è raro che, una volta giunti a febbraio, qualcuno decida di prolungare questa pausa o addirittura di ridurre permanentemente il proprio consumo di alcol. In effetti, molti scelgono di continuare su questa strada, avendo riscoperto un nuovo equilibrio con il proprio corpo e la propria vita.

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Se persino la Corea del Sud diventa vecchia

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Donne Sudcorea Canva

La Corea del Sud è ufficialmente diventata una “società super anziana”, una definizione riservata a quei Paesi in cui almeno il 20% della popolazione è over 65. Questo passaggio, ultimato nel 2023, segna un momento storico per uno dei Paesi che fino a pochi decenni fa era caratterizzato da una popolazione giovane e in rapida crescita. Con una popolazione totale di circa 51,22 milioni di persone, gli over 65 coreani hanno raggiunto quota 10,24 milioni. Le cause del drastico calo delle nascite sono diverse e la politica (ora in crisi per il caso del presidente Yoon) prova a correre ai ripari prima che il sistema produttivo del Paese subisca danni difficilmente riparabili.

Corea del Sud, cambiamento demografico epocale

Il raggiungimento del 20% di popolazione anziana pone la Corea del Sud accanto a Paesi come il Giappone, l’Italia e il Portogallo, già noti per il loro avanzato processo di invecchiamento. In Giappone, ad esempio, la percentuale di over 65 ha raggiunto il record mondiale del 28,2%, mentre l’Italia e il Portogallo si attestano intorno al 24% e registrano il record di anzianità a livello europeo. La media globale, invece, è di circa il 10%, un dato che mette in evidenza quanto il fenomeno sia accentuato nei Paesi sviluppati e, in particolare, in quelli asiatici.

Ciò che rende unico il caso sudcoreano è la velocità con cui è avvenuto questo cambiamento. Mentre il Giappone ha impiegato oltre vent’anni per passare dalla soglia del 14% al 20% di popolazione anziana, la Corea del Sud ha raggiunto questo non invidiabile traguardo in meno di quindici anni.

Le cause del calo demografico

Uno dei fattori principali dietro l’invecchiamento della popolazione è il tasso di natalità estremamente basso del paese. Nel 2023, la Corea del Sud ha registrato un tasso di fecondità di appena 0,72 figli per donna, il più basso al mondo, pari a un terzo del tasso di sostituzione generazionale, fissato a 2,1 figli per donna.

Questa crisi di natalità deriva da una combinazione di fattori sociali, culturali ed economici, tra cui:

  • Alti costi di vita: i costi crescenti per l’acquisto della casa e per l’educazione dei figli rendono difficile per molte famiglie pianificare il futuro;
  • Disuguaglianza di genere: le donne sudcoreane spesso affrontano discriminazioni sul lavoro, con difficoltà nel rientrare nel mercato del lavoro dopo la maternità;
  • Pressioni culturali: la società coreana è ancora fortemente influenzata da norme che richiedono standard elevati in termini di successo lavorativo e scolastico, un fattore che scoraggia le coppie dal formare famiglie.

Le conseguenze economiche dell’invecchiamento

Come stiamo imparando in Italia, l’invecchiamento della popolazione pone sfide significative al sistema economico del Paese. Una forza lavoro ridotta potrebbe tradursi in una diminuzione della produttività e del potenziale economico complessivo. Studi recenti stimano che, senza interventi adeguati, il Pil della Corea del Sud potrebbe ridursi fino al 28% entro il 2050. Si stima che l’Italia perderà 5,4 milioni di persone in età lavorativa entro il 2040, nonostante l’immigrazione. Questo calo demografico potrebbe tradursi in una riduzione del Pil del 13% secondo i calcoli di Bankitalia.

Analogamente al Belpaese, anche in Corea del Sud, il sistema di welfare è sotto pressione a causa dell’aumento dei costi legati alle pensioni e alla sanità. Il peso fiscale per sostenere una popolazione anziana sempre più ampia potrebbe gravare in modo sproporzionato sulle generazioni più giovani, già alle prese con salari stagnanti e un mercato del lavoro altamente competitivo.

Le politiche di Seul per contrastare il calo demografico

Prima della bufera sul deposto presidente Yoon, il governo sudcoreano ha dichiarato un’emergenza nazionale per il calo demografico e ha implementato una serie di misure volte a invertire questa tendenza:

  • Sostegno economico alle famiglie: incentivi finanziari sono stati introdotti per incoraggiare la nascita di nuovi figli, tra cui assegni familiari e sovvenzioni per l’educazione;
  • Permessi parentali estesi: il congedo di paternità è stato raddoppiato per incoraggiare un maggiore coinvolgimento dei padri nelle attività familiari;
  • Politiche sul lavoro: Sono in corso programmi per migliorare la flessibilità lavorativa e favorire il ritorno delle donne sul mercato del lavoro dopo la maternità.

Nonostante questi sforzi, i risultati non sono ancora evidenti. Gli analisti sottolineano che una trasformazione culturale sarà necessaria per affrontare in modo strutturale il problema.

Gli esempi dal Giappone e da altri Paesi asiatici

Guardando al vicino Giappone, è possibile trarre alcune lezioni utili. Tokyo ha adottato misure tecnologiche per supportare gli anziani, come la robotica per l’assistenza sanitaria, e strategie per attrarre lavoratori stranieri. Tuttavia, anche il Giappone continua a lottare con le stesse sfide che oggi stanno emergendo in Corea del Sud, dimostrando che la soluzione a questi problemi è complessa e multifattoriale.

Le analogie con il Paese nipponico sono diverse. Anche la società giapponese è altamente competitiva e spesso rende difficile conciliare la vita privata con il lavoro. Per molti, la pressione è così alta da generare un senso di inadeguatezza ed esclusione che sfocia nel fenomeno degli hikikomori. L’eccessivo lavoro è considerata una delle cause principali della crisi demografica giapponese, tanto che Tokyo ha introdotto la settimana corta per i dipendenti pubblici nel tentativo di riempire nuovamente le culle. Anche in questo caso, gli esperti sottolineano la necessità di un approccio olistico che punti su far concepire diversamente il ruolo della famiglia e della genitorialità. Situazione ancora più complessa in Cina, dove dopo oltre trent’anni di politiche anti-natalità, Xi Jinping sta provando in tutti i modi a rilanciare le nascite. Anche con tentativi quasi disperati come i corsi d’amore introdotti nelle università cinesi.

Una sfida globale, non solo asiatica

Per la Corea del Sud, il futuro dipenderà dalla capacità di sostenere una popolazione sempre più anziana, offrendo opportunità alle nuove generazioni e garantendo che nessuno resti indietro in questo processo di transizione. La Silver economy è un settore che va implementato e parte dell’indotto può tornare utile alle politiche pro natalità.

Il successo o il fallimento delle misure adottate dalla Corea del Sud rappresenteranno non solo una lezione per il Seul, ma anche per gli altri Paesi alle prese con la sfida demografica.

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Bonus Nascite e incentivi per le famiglie, cosa cambia nel...

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piedini neonato

Non è la prima volta che il governo italiano si trova a cercare soluzioni per arginare il calo demografico. Eppure, ogni volta che si presenta un provvedimento per sostenere le famiglie, ci si imbatte inevitabilmente in un po’ di scetticismo. Ecco che, come parte della Manovra 2025, il “Bonus Nascite” entra in scena, un contributo di 1.000 euro che vuole ridare un po’ di fiato a chi si appresta a diventare genitore. Ma sarà davvero sufficiente per scongiurare l’irreversibile declino della natalità in Italia, o si tratta di un altro espediente temporaneo per provare a lenire una ferita profonda?

Questo Bonus Nascite, che entra in vigore dal 1° gennaio 2025, si presenta come una mano tesa alle famiglie, ma soprattutto ai genitori con redditi modesti. L’Isee, che funge da termometro per determinare la necessità, è fissato a 40mila euro: chi guadagna meno di questa cifra potrà vedere accreditati 1.000 euro per ogni bambino nato o adottato, una somma erogata in un’unica soluzione. Ma il trucco c’è. La somma non si aggiunge al reddito complessivo delle famiglie, e quindi non contribuisce ad aumentare la tassazione complessiva. Sì, ma… non basta.

La politica dell’Isee

L’intento della misura è chiaro: sostenere le famiglie a basso reddito, ma senza svenarsi. Eppure, questo sistema lascia aperti alcuni interrogativi. L’Isee, come sappiamo, è uno strumento che va a incidere non solo sulle tasche, ma sulla vita quotidiana delle persone. La misura, pur con la sua buona intenzione, rischia di non cogliere nel segno. Quante famiglie di giovani genitori, che pur non raggiungono il limite dei 40.000 euro, si trovano comunque a dover affrontare difficoltà enormi nell’arrivare alla fine del mese? Se la logica dell’intervento è quella di ridurre la disparità economica, il rischio è che l’Isee, pur non essendo perfetto, possa finire per escludere quelle famiglie che avrebbero più bisogno di un aiuto.

La novità positiva? L’Assegno Unico Universale non sarà conteggiato per calcolare l’Isee, aumentando così il numero di famiglie che potranno beneficiare del Bonus. Ma, se da un lato si alleggerisce un po’ la macchina burocratica, dall’altro si entra nel terreno scivoloso delle politiche simboliche: se la vera sfida è sostenere la natalità e far crescere il numero di figli, un contributo una tantum da mille euro sembra più un gesto simbolico che una soluzione pratica. Si tratta di un piccolo aiuto, ma al di là delle buone intenzioni, è davvero un cambiamento epocale?

Il vuoto demografico del Bel Paese

Il contesto demografico è quello che è. I numeri parlano chiaro: nel 2023 sono nati solo 379mila bambini, con un tasso di natalità che non fa che calare. A ben guardare, l’Italia è ormai una delle nazioni con il tasso di fertilità più basso al mondo. Peggio di noi solo la Corea del Sud e Singapore, e poco meglio la Spagna e l’Ucraina. Il risultato? Un paese che si invecchia velocemente e che, di conseguenza, affronta enormi difficoltà a sostenere il proprio sistema di welfare. I dati sono impietosi: dal 2008 a oggi, le nascite sono diminuite di circa il 34%. E, in questo panorama, il Bonus Nascite arriva come una goccia d’acqua in un oceano di sfide sociali.

In questo desolante scenario, il governo Meloni ha cercato di mettere insieme un insieme di misure per contrastare la tendenza, ma il rischio è che esse siano puramente cosmeticamente efficaci. L’obiettivo dichiarato di incentivare la natalità non si esaurisce certo con un contributo una tantum di mille euro. Si tratta di una misura che, purtroppo, non si inserisce in un contesto più ampio di politiche che vadano a favore delle famiglie, e che non solo aiuti nella crescita del numero dei figli, ma che faccia anche sentire le famiglie stesse più sicure nel futuro.

Il Bonus Mamme e altri aiuti

Va detto che il Bonus Nascite non è l’unica misura in campo. C’è anche il rafforzamento del Bonus Asilo Nido, che potrebbe arrivare fino a 3.600 euro, e l’estensione del Bonus Mamme alle lavoratrici autonome, una piccola ma significativa novità che riguarda in particolare le famiglie più fragili. Ma sono davvero misure che possono fare la differenza? Sì, forse su scala individuale, ma non abbastanza da invertire il corso di un paese che arranca sotto il peso di una crisi demografica che non può più essere ignorata.

Le domande che nascono sono molte: cosa accadrà tra dieci anni quando i benefici di questi provvedimenti saranno diventati obsoleti? Se l’Italia non trova soluzioni strutturali, a lungo termine, sulla questione della natalità e sul supporto alle famiglie, la politica rischia di ridursi a interventi a pioggia, incapaci di incidere realmente. Eppure, non possiamo non apprezzare un piccolo passo nella giusta direzione.

Forse, alla fine, il Bonus Nascite rappresenta meno una soluzione concreta e più un primo tentativo di ripristinare fiducia nelle politiche familiari. Mille euro non risolvono il problema, ma sono un gesto, una mancia per i genitori alle prese con il lavoro, la casa, e la difficile decisione di avere un figlio in un Paese che sembra non fare abbastanza per sostenerli. Per ora, quindi, l’unica certezza è che l’Italia non sta rinunciando completamente alla lotta contro il calo delle nascite.

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