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Da Tortora a Benigni, Giancarlo Governi racconta i suoi ‘Amici’

Autore di numerosi programmi tv, lo scrittore e giornalista ripercorre la sua vita attraverso anche gli incontri che segnarono la sua giovinezza in via della Lungara a Roma

Da Tortora a Benigni, Giancarlo Governi racconta i suoi 'Amici'

Una carrellata di storie, personaggi, ricordi. Momenti piacevoli da incorniciare e vicende più tristi che hanno segnato la coscienza civile del Paese. Protagonisti della televisione che hanno scritto pagine fondamentali nell'evoluzione del piccolo schermo. E poi gli amici di una vita, quelli con cui ha condiviso buona parte della giovinezza trascorsa nei vicoli di Trastevere, a Roma. Memorie che Giancarlo Governi, giornalista e scrittore ma soprattutto sceneggiatore, autore e conduttore di trasmissioni che hanno caratterizzato il panorama televisivo degli anni passati, ha raccolto nel libro 'Amici', appena pubblicato da Fazi Editore: una testimonianza sulla televisione che fu, cui si aggiungono i ritratti dei tanti amici che Governi - figlio unico - ha conosciuto durante la sua vita.

Sono tante le storie che Governi, tra i fondatori di Rai2, snocciola nel suo memoir che, dalla Roma degli anni Quaranta, arriva al periodo d'oro della nostra televisione. Ricordi piacevoli, ma anche tristi e toccanti. Come quello, dice Governi intervistato dall'AdnKronos, su Enzo Tortora recluso nel penitenziario di Bergamo. Uno dei maestri della televisione, 'padre' di 'Portobello', era stato accusato di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico.

"Quando fu arrestato - racconta - cademmo nello sconcerto più totale. Andai nel carcere di Bergamo. Entrai nel parlatorio e arrivò quest'uomo completamente distrutto. Si era rapato a zero da solo con una lametta e si era fatto anche dei tagli alla cute. Appena lo vidi mi chiese: 'Dimmi che cosa ci fa un galantuomo qui dentro? Mi misi a piangere e, insieme a me, pianse anche la guardia carceraria che l'accompagnava. Lo abbracciò e gli disse: 'Signor Enzo, non faccia così, lo sappiamo che è innocente". Con il conduttore di 'Portobello', Governi aveva "un rapporto storico perché - ricorda - ero stato il direttore di alcune annate della trasmissione. Era un programma rivoluzionario che sbaragliò tutti facendo degli ascolti pazzeschi. Tra l'altro, da 'Portobello' furono tirati fuori tanti format tra cui 'Chi l'ha visto' e 'Agenzia matrimoniale'".

Un ricordo positivo, invece, è quello legato all'ascesa di Benigni. Dopo averlo conosciuto, seguendolo in uno spettacolo che tenne in una cantina chiamata Alberichino malgrado non ci fossero spettatori, lo portò alla Rai dove lo accolsero con diffidenza, "ad eccezione di Massimo Fichera". Gli offrirono una "paga da comprimario mentre noi lo volevamo come protagonista. Io - ricorda - iniziai a litigare con i funzionari dell'Ufficio Scritture della Rai. Ma, un certo punto, Benigni mi fermò e mi disse: 'Giancarlo, lascia stare. Adesso prendo questa paga perché sono un morto di fame, ma arriverà il giorno in cui questi signori mi correranno dietro e mi daranno quello che voglio io'".

Benigni, prosegue Governi, "è figlio di contadini poveri, il padre era mezzadro. Studiò fino alla terza media perché non aveva i mezzi per continuare. E' stato un autodidatta: quando l'ho conosciuto, aveva poco più di vent'anni, sapeva tutto l'Inferno di Dante a memoria. Ora conosce tutta 'La Divina Commedia' a memoria". Oltre a Tortora e Benigni, Governi si nel suo libro si occupa anche degli altri grandi della televisione del passato. Quale eredità hanno lasciato? "Penso che Pippo Baudo - risponde - sia quello che ha incarnato meglio di tutti la grande televisione generalista, con il suo nome, la sua presenza e il suo modo di parlare. Un grandissimo innovatore è stato Maurizio Costanzo: è nato in Rai ma poi è passato a Mediaset. Il pioniere è stato Mike Bongiorno".

Tra i programmi che ha ideato, Governi è legato a una trasmissione in particolare, 'Supergulp!', un format dedicato al mondo dei fumetti. "Fu un programma rivoluzionario, conquistammo un pubblico completamente nuovo che aveva letto i fumetti soltanto sui giornaletti", sostiene Governi, ricordando che "entrammo in guerra con Mike Bongiorno. Il programma veniva mandato in onda sulla seconda rete lo stesso giorno in cui c'era 'Rischiatutto', che era il programma di punta. Quando Fichera divenne direttore di rete, decise di fare cento puntate. Dopo smettemmo perché, a un certo punto, il video fu invaso dai cartoni animati giapponesi. Per questo rinunciammo, ma entrammo nel mito perché ora tutti ricordano 'Supergulp!' come un programma dell'età dell'oro della televisione. Un altro programma cui sono molto legato - aggiunge - è 'Storie di un italiano'. Grazie ad Alberto Sordi imparai a fare una televisione più ardita e profonda. L'idea iniziale era quella di confezionare un documentario di mezz'ora. Poi realizzammo quattro stagioni e qualcosa come 26 puntate. Portammo il programma - ricorda - a New York. Al Lincoln Center facemmo un incontro incredibile. Un uomo con l'impermeabile, il cappello e il bavero alzato che sembrava Humphrey Bogart si inginocchiò davanti ad Alberto scandendo: 'Questo signore è il mio maestro'. Era Jack Lemmon"

Tornando ora al presente della televisione, è scontato apire una piccola finestra sul Festival di Sanremo sul quale si discute già da molti oggi tra annunci del conduttore Carlo Conti e pagella ai brani in gara. Vedrà il Festival? "Vedo sempre Sanremo perché è lo specchio dell'Italia. E' diventato uno spettacolone, una grande vetrina in cui viene rappresentata il meglio che si possa offrire nel campo della canzone in maniera molto assortita: c'è la musica bella e la negazione della musica, c'è un po' di tutto. E' l'unica trasmissione in cui la televisione generalista riesce ad essere tale, massimizzando l'ascolto. Un ascolto diversificato in cui sono presenti tutti: dai bambini ai vecchi", afferma Governi evidenziando che il "Festival moderno è stato lanciato da Pippo Baudo".

Dal racconto dei cosidetti 'amici di acquisizione', Governi passa infine a menzionare anche gli amici di una vita, quelli che disegnano "un mondo sparito. Sono nato - dice - in via della Lungara in una famiglia poverissima. Sono figlio unico. Questa è stata la mia fortuna perché se avessi avuto un fratello mi sarei fermato alla quinta elementare. Su tutti ricordo Luigi: era di una famiglia benestante, mi accolse nella sua casa in cui andavo tutti i pomeriggi. In un capitolo racconto che da bambino venni ammesso nel Coro della Cappella Sistina. Ero il 1950, avevo la voce bianca. Cantai per il Papa in occasione del Giubileo di quell'anno", conclude Governi che presenta il libro martedì 21 gennaio alle 18 nella Libreria Auditorium Notebook dell'Auditorium Parco della Musica di Roma dialogando con Vincenzo Salemme. (di Carlo Roma)

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Cultura

E’ morto Luca Beatrice, il critico d’arte aveva...

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Il ministro Giuli: "Piangiamo la scomparsa di un amico, di un protagonista della cultura italiana e internazionale che con il suo sapere ha formato artisti e artiste"

Luca Beatrice

Luca Beatrice è morto oggi, 21 gennaio, all'età di 63 anni. Il critico d’arte e figura di spicco del panorama culturale italiano era stato colpito da un malore ed era ricoverato da giorni all'ospedale di Torino.

Il messaggio

A darne notizia sui social è il fratello Giulio che su Facebook ha scritto: "Due fratelli non sono due amici. Sono rami dello stesso albero che possono divergere con gli anni…ma il loro legame sarà eterno. Ciao Luca fai buon viaggio". Beatrice - già presidente del Circolo dei lettori di Torino e attuale presidente della Quadriennale di Roma 2025 - era ricoverato in ospedale a Torino a seguito di un malore.

"Piangiamo la scomparsa di un amico, di un protagonista della cultura italiana e internazionale che con il suo sapere ha formato artisti e artiste. Curatore, critico e docente, in ogni ruolo Luca ha espresso al meglio la sua vocazione di intellettuale e polemista al servizio dell’agone pubblico. La Quadriennale di Roma, istituzione da lui presieduta, rappresenta il culmine della sua brillante carriera. Il dolore provocato dalla sua morte è indicibile. Alla sua famiglia va il mio amorevole abbraccio", dice il ministro della Cultura, Alessandro Giuli.

Il presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone ha dichiarato: "Il mondo dell’arte perde un critico appassionato non conforme e, come scriveva Brecht, nella categoria degli umani 'un imprescindibile'. Io ho perso un amico. A Dio, Luca".

Anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo si unisce al dolore della famiglia: “Con la scomparsa di Luca Beatrice perdiamo prematuramente un grande animatore della scena culturale torinese e italiana, mente acutissima capace di un pensiero profondo e di un confronto schietto e leale. Condoglianze sentite alla sua famiglia in questo momento di dolore”. E Rosanna Purchia, assessora alla Cultura della Città di Torino, aggiunge: “Ho conosciuto e apprezzato il lavoro, la competenza e le capacità di Luca Beatrice nei molti ruoli che negli anni ha ricoperto nelle istituzioni torinesi. Qui a Torino ho avuto modo di scoprirne anche la simpatia, la schiettezza, la capacità di un confronto sempre brillante e pieno di entusiasmo. Sentiremo molto la sua mancanza”.

A ricordare Beatrice anche Angelo Mellone, direttore Intrattenimento Day Time della Rai: "Amico mio, fratello mio, io non ho parole. Non ho proprio parole", è il messaggio sui social. "Te ne sei andato così, all'improvviso, da ragazzaccio dispettoso, da biker che non vuole perdere tempo coi convenevoli. Chissà, dove sei adesso, se potrai ammirare quella perfezione nell'arte che hai inseguito e raccontato per tutta la vita. Che tu possa guardarci dall'alto di un deltaplano o di un aereopoema, cuore mio", conclude.

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Attualità

Metropolitan di Napoli, addio a una leggenda: e adesso?

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Metropolitan di Napoli, addio a una leggenda: e adesso?

Certe volte, quando parliamo di una chiusura, usiamo termini che sembrano routine: fine di un’era, porta che si chiude, capitolo concluso. Ma, in questo caso, non è solo un’espressione di circostanza. Dal 15 gennaio 2025, uno spazio che faceva parte dell’identità stessa di Napoli – il Cinema Metropolitan, affacciato su via Chiaia – non esiste più. Giù la saracinesca, dentro il buio. E fuori, un senso di vuoto che si avverte come un colpo allo stomaco.

È un peso che non nasce solo dalla nostalgia ma dalla consapevolezza che se ne va un baluardo della cultura cittadina. Proviamo a tirare insieme i fili di questa storia, ricostruendo il passato e guardando in faccia un presente carico di incognite, con la speranza che il futuro non sia soltanto un freddo ricordo di un glorioso multisala.

Un simbolo che supera la soglia del tempo

La storia del Metropolitan parte da lontano, da un 1948 in cui Napoli tentava di riprendere fiato dopo le macerie della guerra. La città intera provava a rimettersi in piedi e in quel contesto nacque un progetto ambizioso: una sala cinematografica maestosa, con oltre tremila posti. Sembra quasi di immaginarseli, quegli imprenditori che puntavano a qualcosa di grande, coraggioso, perfino un po’ folle per l’epoca. Eppure, fu proprio quell’azzardo a trasformarsi in uno dei punti di riferimento del cinema napoletano. Per decenni, il Metropolitan è stato teatro di prime assolute, rassegne affollate, serate da tutto esaurito. Chiunque amasse la settima arte, anche solo di passaggio in città, finiva per affacciarsi a quell’ingresso e respirare un’atmosfera impossibile da replicare altrove.

Nel corso degli anni, l’edificio venne rimaneggiato, sistemato, adattato all’evoluzione tecnologica. Gli schermi si moltiplicavano, le poltrone diventavano più comode (o almeno ci si provava), e la gestione inseguiva i gusti di un pubblico sempre più esigente. Di fatto, però, la vera magia non cambiava: quando si spegnevano le luci e iniziavano i trailer, c’era quel fremito collettivo che ti ricordava di essere in un luogo speciale. Tra l’odore dei pop-corn e la sensazione di naso all’insù, la frenesia di via Chiaia restava fuori. E dentro si navigava in mondi nuovi, sospesi tra sogno e realtà.

La chiusura: un colpo di scena che sapeva di minaccia

Negli ultimi anni, la parola chiusura aleggiava già su questa sala. Qualcuno la prendeva poco sul serio, come un allarme destinato a rientrare. Altri, più pessimisti, dicevano che era solo questione di tempo. A un certo punto, però, non c’è stato più spazio per gli scongiuri. Il Metropolitan ha chiuso davvero. A decidere le sorti del locale è stata la proprietaria dell’immobile, Intesa Sanpaolo, che ha scelto di non rinnovare il contratto d’affitto. Inutile girarci intorno: quando una banca, cioè chi ha in mano i muri, dice stop, la faccenda diventa complicatissima.

A nulla è servito, almeno in questo momento, il vincolo di destinazione culturale apposto dal Ministero della Cultura, firmato all’epoca da Gennaro Sangiuliano: un tentativo di salvare l’anima di quello spazio, imponendo che non potesse trasformarsi in altro. Sulla carta, significa che l’immobile dovrebbe mantenere una finalità artistica o culturale. Nei fatti, non ha evitato lo sfratto. La serranda è rimasta chiusa e le chiavi sono state riconsegnate. Un paradosso che pesa come un macigno sull’umore di chi, fino all’ultimo, sperava in uno spiraglio.

Un investimento e un sogno spazzati via

Per mantenere vivo un multisala del genere, la gestione aveva buttato sul piatto cifre importanti. Gli stessi titolari, Giuseppe Caccavale e Nicola Grispello, avevano dichiarato di aver speso più di un milione di euro negli ultimi anni, per adeguare impianti, sedute, tecnologie, in modo da offrire un’esperienza competitiva. Il tutto perché, per quanto ci si illuda che i luoghi storici sopravvivano solo grazie ai ricordi, la verità è che occorrono risorse continue per stare al passo con il mercato. Eppure, non è bastato.

Lo sconforto riguarda anche i dipendenti: una ventina di persone, considerando collaboratori fissi e stagionali. Alcuni di loro avevano dedicato al Metropolitan venti, trent’anni di vita lavorativa. Non si tratta solo di posti di lavoro persi, ma di un bagaglio di esperienza che si sgretola. In una città come Napoli, legatissima alle proprie radici e alle proprie tradizioni, il contraccolpo è amplificato dal fatto che quelle facce dietro al bancone o in biglietteria erano parte integrante del rituale della serata al cinema. Sorrisi familiari che non rivedremo più in quelle stanze buie.

Il vincolo culturale: un’arma spuntata?

Il decreto ministeriale che legava il destino dell’edificio alla cultura pareva una scialuppa di salvataggio. Qualcuno pensava: “Se non si può trasformare in un altro negozio o in un parcheggio, allora il Metropolitan non morirà.” Ma la faccenda si è rivelata più intricata. L’addio alla vecchia gestione si è consumato comunque, e ora ci si chiede se qualcuno, in futuro, prenderà in mano la situazione.

Sulla carta, il vincolo obbliga la proprietà a mantenerne l’uso culturale. Ma le vie legali, si sa, possono diventare labirinti. E finché non ci sarà un nuovo progetto, l’ex tempio del cinema potrebbe restare malinconicamente vuoto o, peggio, entrare in un limbo di trattative. È un po’ come se ci fosse un luogo consacrato all’arte, che nessuno può profanare ma che resta chiuso a doppia mandata.

Napoli reagisce: indignazione e voglia di riscatto

La notizia non ha colto nessuno impreparato, eppure la reazione popolare è stata fortissima. Molti napoletani si sono sentiti defraudati di un pezzo della loro storia. Qualcuno ha paragonato la chiusura a una ferita collettiva. Non è strano che sulla Rete siano spuntate petizioni e appelli al Comune, alla Regione, perfino al Governo.

Da più parti, si sollecitano soluzioni alternative: un tavolo di confronto, un intervento diretto delle istituzioni, perfino l’idea di una cooperativa che rilevi la sala. Il Comune, con il Sindaco Gaetano Manfredi, si è detto disposto a partecipare a una trattativa, se Intesa Sanpaolo e la vecchia gestione accetteranno di sedersi a discuterne. Come va spesso in questi casi, tutto si giocherà sulla volontà politica e sulla concretezza economica. Perché la buona volontà, da sola, non basta.

L’analisi economica: la crisi delle sale cinematografiche

In molti si domandano: “Ma si poteva davvero salvare?” Siamo onesti: gestire un cinema nel cuore di una grande città non è una passeggiata. I costi lievitano: affitti alti, manutenzione continua, promozioni da realizzare per stare al passo con la concorrenza delle piattaforme streaming, che ormai tengono il pubblico incollato al divano di casa. Negli ultimi tempi, poi, la pandemia ha dato un’ulteriore spallata a un sistema già sotto pressione.

I numeri delle presenze nelle sale, pur con qualche picco di risalita, non raggiungono più i fasti di qualche decennio fa. Eppure, resta la sensazione che il Metropolitan, in quanto simbolo, avrebbe potuto provare un’ulteriore trasformazione: forse un cinema che diventa anche sala eventi, o spazio ibrido dedicato a concerti, mostre, dibattiti culturali, pur di restare in vita. Non c’è stata però la spinta – o l’occasione – per questa mutazione. O almeno non nei tempi necessari a scongiurare la chiusura.

Una perdita collettiva: più di un edificio

Pensare al Metropolitan come a un semplice immobile è riduttivo. Per decenni è stato un luogo di aggregazione, dove le differenze sbiadivano nel buio della proiezione. Varcare quella soglia voleva dire entrare in una dimensione protetta, dove la quotidianità si fermava per qualche ora. C’è chi, negli anni, vi ha festeggiato ricorrenze con gli amici, chi ha portato la persona amata a vedere l’ultimo film romantico, chi ci si è rifugiato per scappare dalla routine. Una sala cinematografica è sempre un mondo a parte, ma quando diventa parte di una città come Napoli, allora trascende il suo ruolo di spazio per proiezioni e diventa patrimonio condiviso.

Oggi via Chiaia sembra un po’ più spoglia. Quell’insegna, che per tanti anni ha illuminato l’angolo di strada con i cartelloni dei film in arrivo, non brilla più. E la hall, dove si acquistavano biglietti e pop-corn, è ridotta a un vuoto che mette addosso una certa tristezza. Tutti ne parlano, come di un lutto. Molti lo considerano un funerale culturale. E la domanda che serpeggia è: E adesso cosa ci metteranno? Un brand d’abbigliamento di lusso? Un negozio di accessori? O magari un parcheggio? L’ombra di un banale riutilizzo fa venire i brividi. Ma, per ora, è solo una triste ipotesi che nessuno vorrebbe veder realizzata.

Possibili sviluppi: speranze e interrogativi

Eppure, qualcosa si muove. Sottovoce, tra mille difficoltà, c’è chi non si arrende. Si parla, si discute, ci si guarda negli occhi sperando di trovare un modo, un varco, una soluzione per questo spazio che tutti sentiamo come “nostro”. Certo, la strada è tutta in salita. La politica dice la sua, le istituzioni si barcamenano, ma c’è chi crede davvero che il vincolo culturale imposto dal Ministero non sia solo un pezzo di carta. C’è voglia di non lasciarlo cadere, quel vincolo. Di usarlo come una leva, per smuovere tutto. Nel frattempo, si sentono nomi, idee, progetti.

E poi spunta questa proposta: trasformare il vecchio Metropolitan in un polo culturale polivalente. Bello sulla carta, vero? Una di quelle idee che ti fanno sognare: uno spazio che non sia solo cinema ma un po’ tutto. Proiezioni, concerti, eventi teatrali, magari laboratori per i ragazzi. Un posto vivo, dove ogni angolo vibra di emozioni, di gente. Ma è dura, ci vuole qualcuno che ci creda davvero. Uno con il cuore grande e le spalle ancora più larghe. Un progetto che non evapori al primo soffio di difficoltà. Per ora, tutto resta sul filo, sospeso tra speranza e paura di vedere svanire anche questa visione.

Domande aperte in una città che vive di cultura

A Napoli, la cultura non è un lusso. È un elemento essenziale per il cuore e la mente dei cittadini. Un teatro, un cinema, un’esposizione: tutto viene vissuto come qualcosa di profondamente identitario, perché qui l’arte è un modo di respirare. Eppure, capita che proprio questi luoghi vadano in crisi. La chiusura del Metropolitan è un segnale doloroso, un monito a non dare mai per scontato quello che si ha. Ricorda a tutti noi che senza un piano di tutela e valorizzazione, neppure i simboli più amati sono al sicuro.

E allora, c’è chi si interroga: come fermare l’emorragia di spazi dedicati alla cultura, in una metropoli che ancora si nutre di musica, cinema, teatro, letteratura? Le piattaforme di streaming e il cinema casalingo hanno cambiato il nostro rapporto col grande schermo, è vero, ma l’esperienza collettiva di una sala buia rimane insostituibile. Chi ha mai conosciuto l’emozione di un applauso spontaneo alla fine del film, o la condivisione di un momento di suspense con sconosciuti seduti vicini, sa bene di cosa si parla.

Il futuro di via Chiaia

Al Metropolitan, per ora, si è spenta la luce. I manifesti delle ultime programmazioni sono rimasti come reliquie appese a un tempo che pare lontano, anche se sono passate poche settimane. E in tanti si domandano se questo addio resterà definitivo, o se c’è spazio per un ritorno, una resurrezione in chiave moderna. Il vincolo culturale, gli appelli delle associazioni, le petizioni popolari: tutto concorre a mantenere viva la fiammella di speranza. Ma chiunque abbia un occhio realista sa che, senza un accordo concreto o un progetto solido, il Metropolitan rischia di marcire nel silenzio o, peggio, diventare qualcos’altro del tutto estraneo alla sua natura originaria.

Noi, come redazione, continuiamo a seguire la vicenda perché riguarda tutti, non solo i nostalgici o i cinefili più accaniti. Quando chiude un cinema, una città diventa un pochino più povera. E la mancanza di un luogo storico come il Metropolitan non è soltanto una ferita per i lavoratori rimasti senza impiego, ma anche un buco nell’anima culturale di Napoli. Da parte nostra, promettiamo di non abbandonare l’argomento, di informare e dove possibile, di sostenere chi si sta battendo perché quella soglia d’ingresso, un giorno, possa essere di nuovo varcata per assistere a un film o a un qualunque evento capace di restituire dignità a uno spazio prezioso. Perché un the end definitivo non è detto che sia già scritto. Forse, siamo soltanto arrivati a un cliffhanger e di solito, dopo un cliffhanger, c’è sempre una nuova stagione. E noi, testardi, vogliamo crederci.

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Cultura

Agrigento inizia ufficialmente il suo anno di Capitale...

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Agrigento inizia ufficialmente il suo anno di Capitale della Cultura. E lo ha fatto in grande con una cerimonia nel Teatro Pirandello a cui ha preso parte anche il presidente della Repubblica
Sergio Mattarella.

L’evento, aperto dall’Inno nazionale eseguito dal coro e dall’orchestra d’archi del
Conservatorio “Arturo Toscanini” di Ribera, diretto dal Maestro Alberto Maniaci, è stato condotto da Beppe Convertini padrone di casa di Uno Mattina in Famiglia su Rai1 e dalla voce direttrice del Tg1 Incoronata Boccia.

Nel corso della cerimonia hanno preso parola Roberto Albergoni, Direttore Generale della Fondazione Agrigento Capitale Italiana della Cultura; Giacomo Minio, Presidente della Fondazione Agrigento Capitale Italiana della Cultura 2025; Francesco Miccichè, Sindaco di Agrigento; Renato Schifani, Presidente della Regione Siciliana e Alessandro Giuli,
Ministro della Cultura.

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