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Quando si parla di memoria storica e dei crimini contro l’umanità, la Shoah è il termine che rievoca la memoria di milioni di persone sterminate nei campi di concentramento nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, in un’Italia che si trova di fronte alla Giornata della Memoria, il 27 gennaio, e a un’inquietante recrudescenza di episodi di antisemitismo, emerge un dato preoccupante: il 14% degli italiani, secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, non crede che la Shoah sia mai avvenuta.
L’indagine dell’Eurispes ha messo in luce, tra le altre cose, una crescente diffusione di pregiudizi antisemiti e una pericolosa tendenza al revisionismo storico. Non solo negazione dell’Olocausto, ma anche distorsioni sul numero delle vittime e credenze pericolose riguardo al controllo ebraico sugli aspetti economici, mediatici e politici della società globale. Queste affermazioni si intrecciano con la contemporaneità dei conflitti, come quello israelo-palestinese, alimentando una visione distorta e carica di odio che sembra trovare sempre più terreno fertile.
La Shoah negata
Quello che molti considerano un “vecchio tema”, relativo alla memoria della Shoah, sembra essere riemerso prepotentemente nella coscienza collettiva italiana, e non solo. Secondo il Rapporto Italia, il 15,9% degli italiani minimizza la portata della Shoah, affermando che non avrebbe prodotto così tante vittime, mentre il 14,1% nega totalmente che lo sterminio sia mai avvenuto. Dati inquietanti, che si collegano a una crescente diffusione di teorie complottiste e di discorsi revisionisti, veicolati non solo dai soliti ambienti estremisti, ma anche da frange della politica e dei social media.
Non si tratta di una crisi improvvisa, ma di un processo strisciante che si è acuito negli ultimi decenni. Nel 2004, sempre secondo Eurispes, solo il 2,7% degli italiani metteva in dubbio l’Olocausto. Oggi quella percentuale è quintuplicata, dimostrando come il tempo, anziché consolidare la consapevolezza storica, abbia aperto la strada a narrazioni distorte.
Questo deterioramento del senso storico non è privo di conseguenze. Il negazionismo non è solo una negazione del passato, ma una ferita aperta per le comunità ebraiche e un pericoloso sintomo di una società che fatica a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità. Il rischio è evidente: la Shoah, da tragedia universale, rischia di essere relegata al ruolo di semplice oggetto di dibattito, perdendo il suo valore di monito e insegnamento per le generazioni future.
Purtroppo, quanto emerso dall’indagine dell’Eurispes non è un caso isolato. Le credenze distorte sugli ebrei, come il presunto controllo del potere economico o la capacità di determinare le politiche occidentali, continuano a radicarsi tra la popolazione. Se nel 2004 il 2,8% degli italiani negava il diritto all’esistenza di Israele, oggi quella percentuale è salita al 18,8%. La banalizzazione della Shoah, il crescere di opinioni che minimizzano o addirittura negano l’orrore subito dal popolo ebraico, è un fenomeno che può avere effetti devastanti sulla coesione sociale e sul rispetto dei diritti umani.
I numeri dell’Eurispes non sono solo statistiche: sono un campanello d’allarme per una società che rischia di dimenticare o, peggio, di revisionare la storia in un momento in cui il razzismo e l’antisemitismo stanno vivendo una riscoperta inquietante. Questa negazione, in parte legata a una diffusione del complottismo che non riguarda solo il passato, ma si estende anche a questioni contemporanee, si inserisce in un contesto più ampio di crescente antisemitismo. In Italia, infatti, è emerso che un terzo degli italiani (33,4%) crede ancora che gli ebrei controllino il potere economico e finanziario, mentre il 30% è convinto che abbiano un’influenza predominante sui media. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche occidentali è sostenuta dal 27,5% degli intervistati. Queste convinzioni sono intrinsecamente legate all’odio verso lo Stato di Israele e alla percezione che gli ebrei, in quanto tali, siano colpevoli degli sviluppi geopolitici in corso.
Il conflitto israelo-palestinese: un catalizzatore per l’odio?
Il Rapporto Italia ha anche esplorato la connessione tra il pregiudizio antisemita e il conflitto israelo-palestinese evidenziando come la guerra tra Israele e Hamas, purtroppo, stia influenzando negativamente la percezione degli italiani riguardo al popolo ebraico. Se da un lato il 60,7% degli italiani non mette in discussione il diritto di Israele di esistere, vi è una parte consistente della popolazione (18,8%) che nega fermamente questo diritto. A sorprendere è anche l’elevata percentuale di coloro che non si esprimono su questo tema, un 20,5% che resta ambiguo riguardo a una questione tanto centrale nella geopolitica mondiale.
Sebbene il 60,7% degli italiani non metta in discussione il diritto di Israele a esistere, vi è una percentuale significativa che associa l’identità ebraica ai problemi geopolitici del Medio Oriente. Non è un caso che la tensione tra Israele e Palestina coincida con un aumento del risentimento verso gli ebrei nel mondo occidentale. Il conflitto, purtroppo, diventa il terreno fertile per la diffusione di teorie cospirative, in cui gli ebrei sono visti come una minaccia globale da combattere. L’odio non riguarda più solo Israele o la politica di Netanyahu, ma si estende al popolo ebraico in generale, creando una polarizzazione che non lascia spazio al dialogo e alla comprensione reciproca.
Questo scenario ha alimentato una visione distorta della comunità ebraica, spesso confusa con le scelte politiche dello Stato d’Israele. Gli italiani, divisi e polarizzati su come trattare il conflitto, finiscono con l’associare la Shoah a una serie di questioni contemporanee che non ne preservano la memoria storica. Il bombardamento mediatico su Gaza, le polemiche sull’appoggio o meno a Israele, hanno messo sotto pressione la comunità ebraica in Italia, spesso vista come un tutt’uno con le politiche israeliane, anche quando si tratta di distinguere tra il popolo ebraico e le scelte del suo governo.
Un recente episodio significativo è stato l’atto di vandalismo contro la Sinagoga di Bologna, durante gli scontri dello scorso 12 gennaio. A seguito di un corteo che chiedeva giustizia per Ramy Elgaml, un giovane arabo palestinese ucciso da un agente di polizia, la comunità ebraica è stata presa di mira da atti di violenza e minacce. La Sinagoga, in particolare, è stata vandalizzata con scritte in solidarietà con Gaza. Per il presidente della Comunità Ebraica di Bologna, Daniele De Paz, non si è trattato di un semplice atto vandalico, ma di un vero e proprio “attacco mirato e programmato”. La Comunità Ebraica Progressiva di Bologna, proprio alla luce di questo episodio e di un contesto cittadino percepito come ostile, ha deciso di non partecipare agli eventi legati alla Giornata della Memoria. In una nota ufficiale, la comunità denuncia “il peggior clima di antisemitismo dal dopoguerra”. “”È ora di comprendere che il 27 gennaio non è una concessione verso di noi – si sottolinea in una nota – Noi portiamo già nel cuore e nella memoria familiare e nazionale i segni indelebili del genocidio. Oggi portiamo anche lo sdegno per l’utilizzo strumentale, la banalizzazione e la trivializzazione del nostro dolore storico”.
La memoria in crisi
La Giornata della Memoria, celebrata il 27 gennaio, è stata istituita con la legge 20 luglio 2000, n. 211, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Nell’articolo 1 si legge che “la Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. “In occasione del ‘Giorno della Memoria’ di cui all’articolo 1 – è scritto nell’articolo 2 – sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione”.
Il 21 novembre 2005 l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che indica “il 27 gennaio come una Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto”. La risoluzione, come si legge sul sito del Senato, istituisce il “Programma di sensibilizzazione sull’Olocausto” con l’obiettivo di “mobilitare la società civile per la memoria e l’educazione all’Olocausto, al fine di contribuire a prevenire futuri atti di genocidio”.
In un’epoca in cui la disinformazione viaggia veloce e il passato sembra sempre più lontano, ricordare non basta più. È necessario agire, educare, denunciare. Perché la storia non si ripeta, e perché nessuno possa mai più permettersi di chiedere: “La Shoah è davvero esistita?”.
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San Valentino per cuori infranti: quando l’ex diventa una...
San Valentino è tradizionalmente la festa degli innamorati, quella data che celebra il romanticismo, il fiore della passione e l’inevitabile inondazione di cuori, fiori e cioccolatini. Tuttavia, non tutti la vedono con gli stessi occhi. Per chi ha attraversato il campo minato delle relazioni finite, questo giorno può trasformarsi in un promemoria di cuori infranti e promesse non mantenute. E se invece di lamentarsi, si trasformasse la delusione in risata? Ecco che interviene l’originale iniziativa proposta dallo zoo di Brookfield, Chicago, dove il protagonismo dell’ex può essere ripensato in chiave… entomologica!
Una blatta per San Valentino
Per chi desidera voltare pagina in modo simbolico (e forse un po’ provocatorio), lo zoo di Brookfield offre una proposta che mescola ironia, beneficenza e, ovviamente, insetti. Si tratta del programma “Name a Cockroach” che, in occasione di San Valentino, consente di dare il nome a una blatta fischiante del Madagascar – sì, proprio quel piccolo e resistente insetto che spesso evoca più paura che tenerezza. Ma perché proprio uno scarafaggio? La risposta è semplice: è l’insetto perfetto per celebrare un amore che non c’è più. Per soli 15 dollari, infatti, è possibile intitolare una di queste creature all’ex partner, simbolicamente “seppellendo” la relazione sotto il peso di una risata.
Il pacchetto proposto dal Brookfield Zoo include non solo la possibilità di scegliere il nome da dedicare alla blatta, ma anche un certificato di attestazione che può essere condiviso o conservato come ricordo personale. Ma l’ironia non finisce qui. Ogni blatta nominata verrà registrata sulla “Cockroach Naming Board” che sarà esposta all’esterno dell’Hamill Family Play Zoo, visibile al pubblico il giorno di San Valentino.
Al di là della risata, c’è un altro lato della medaglia che rende questa iniziativa più che un semplice scherzo: il sostegno alla conservazione degli animali. Il denaro raccolto grazie alle donazioni per “Name a Cockroach” va infatti a supportare le attività dello zoo, che contribuisce alla protezione e al benessere degli animali. Quindi, ogni nome che si aggiunge alla lista delle blatte non è solo un atto simbolico nei confronti di un ex, ma anche una piccola azione di supporto a una causa più grande.
La parte ironica non è certo l’unico aspetto a caratterizzare questa proposta: c’è una filosofia profonda anche nell’uso dell’insetto. Lo scarafaggio, noto per la sua resistenza e longevità, diventa il perfetto “compagno” per chi vuole rappresentare una relazione che non solo è finita, ma che ha avuto il coraggio di sopravvivere a tutto. La blatta fischiante del Madagascar, tra l’altro, è una specie che si distingue per la sua straordinaria capacità di adattamento, rendendola metafora perfetta di chi, nonostante le difficoltà, riesce a sopravvivere alla fine di una storia.
Altri zoo ‘in gara’
Brookfield Zoo non è certo l’unico parco a proporre un’iniziativa simile. Il Bronx Zoo, a New York, ha lanciato la sua versione di “Name a Roach” nel 2011, creando un evento annuale che ha conquistato numerosi partecipanti. Anche in questo caso, la donazione di 15 dollari consente di scegliere un nome per uno scarafaggio, con l’aggiunta di un certificato digitale che si può condividere con chi si vuole. E chi non si accontenta di un semplice nome può optare per uno dei pacchetti “deluxe” proposti dal Bronx Zoo, che includono peluche a forma di scarafaggio e calzini a tema, per un’esplosione di simpatico nonsense.
Se il Bronx e Chicago non sono abbastanza, un altro zoo della Pennsylvania ha lanciato una proposta decisamente più “carnivora” con il suo evento “Catch and Release“. Qui, non sono gli scarafaggi ad essere i protagonisti, ma i pesci, che vengono nominati e successivamente offerti come preda ai pinguini africani dello zoo. Per 15 dollari, i partecipanti potranno vedere il proprio pesce nominato “dopo di te, caro ex” divorato dai pennuti in un video che verrà inviato loro il giorno di San Valentino. Questa proposta ha sicuramente un appeal molto più drammatico, ma con un lato ironico altrettanto affascinante.
In questo modo, San Valentino si trasforma da festa di cuore e rose rosse a un momento per ridere di se stessi e, magari, prendere una pausa dal romanticismo tradizionale. È un’occasione per dimostrare che, a volte, la miglior vendetta è una risata. E se c’è una cosa che le blatte e i pesci ci insegnano, è che, a volte, per andare avanti bisogna imparare a ridere di ciò che ci ha fatto soffrire.
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Cancro: in Europa ogni minuto 5 diagnosi, ma in Italia va...
Ogni minuto, cinque persone nell’Unione Europea ricevono una diagnosi di cancro e due muoiono a causa della malattia. Le statistiche sono impietose: i tassi di mortalità per cancro sono del 67% più alti tra gli uomini rispetto alle donne e colpiscono maggiormente le persone con un livello di istruzione più basso. E l’impatto della malattia è destinato a crescere. Tra il 2023 e il 2050, la spesa sanitaria per il cancro nell’Ue dovrebbe aumentare del 59%, mentre la riduzione della speranza di vita associata alla malattia è stimata in quasi due anni. Questi dati, riportati nei Country Cancer Profiles preparati dall’OCSE e dalla Commissione Europea, pongono l’accento sull’urgenza di potenziare la prevenzione e la diagnosi precoce. Oggi, in occasione della Giornata Mondiale contro il Cancro, promossa dalla Union for International Cancer Control (Uicc), è più che mai necessario riflettere su queste sfide e sull’importanza di interventi tempestivi e mirati.
L’Italia e il cancro, tra sfide e progressi
L’Italia si distingue in questo scenario con un risultato positivo: nell’ultimo decennio il tasso di mortalità per cancro nel nostro Paese è diminuito del 15%, attestandosi al di sotto della media europea. Questa riduzione testimonia i progressi compiuti nel contrasto alla malattia e si inserisce in un quadro più ampio di miglioramento della qualità delle cure oncologiche a livello europeo. Secondo le proiezioni del Sistema Europeo d’Informazione sul Cancro (European Cancer Information System – ECIS), nel 2022 si prevedevano in Italia 407.240 nuovi casi di tumore, con una leggera prevalenza tra gli uomini (52%) rispetto alle donne (48%). Il tasso di incidenza standardizzato per età risultava inferiore del 2% alla media Ue per gli uomini, ma superiore del 4% per le donne.
I tumori al seno, al colon-retto, ai polmoni e alla prostata rappresentavano quasi la metà dell’incidenza complessiva. Il cancro alla prostata è stato il principale tra gli uomini (18% dei casi), seguito da quello del colon-retto (14%) e del polmone (13%). Per le donne, il tumore al seno è stato il più comune (31%), seguito da quello al colon-retto (12%), al polmone (8%) e all’utero (5%). Tuttavia, l’ECIS stima che i casi di cancro in Italia aumenteranno del 18% tra il 2022 e il 2040, principalmente a causa dell’invecchiamento demografico.
La mortalità per cancro in Italia
Dopo le malattie cardiovascolari, il cancro rappresenta la seconda causa principale di morte in Italia, con oltre il 23% di tutti i decessi registrati nel 2021. Pur presentando un tasso di incidenza in linea con la media Ue il tasso di mortalità per cancro standardizzato per età è relativamente basso: con 222 decessi per 100.000 abitanti, l’Italia si attesta al di sotto della media Ue di 235 decessi per 100.000 abitanti. Tra il 2011 e il 2021, il tasso di mortalità per cancro nel nostro Paese è diminuito del 15%, superando il calo medio del 12% registrato nell’Ue.
Questa riduzione è stata particolarmente evidente tra gli uomini (-20%), riflettendo i progressi nella diagnosi precoce e nel trattamento, oltre che nella riduzione di fattori di rischio comportamentali come il fumo. La mortalità per cancro ai polmoni, per esempio, è diminuita di quasi un terzo tra gli uomini italiani nell’ultimo decennio, superando la media Ue. Tuttavia, il divario di genere resta evidente: i tassi di mortalità per cancro sono più elevati tra gli uomini, sebbene il gap sia inferiore rispetto alla media Ue.
Disparità socioeconomiche nella lotta al cancro
Come in altri Paesi europei, in Italia i tassi di mortalità per cancro sono più elevati tra le persone con livelli inferiori di istruzione. Il divario è particolarmente marcato tra gli uomini: rispetto ai laureati, i diplomati delle scuole superiori hanno un tasso di mortalità superiore del 26%, mentre chi ha un’istruzione primaria o inferiore registra un tasso più alto del 75%. Il cancro ai polmoni è il tumore più associato a queste disparità, rappresentando oltre un terzo dei decessi tra le persone con un livello di istruzione più basso.
Questi dati confermano le evidenze del progetto EU-CanIneq, che analizza le disuguaglianze socioeconomiche nelle cure oncologiche in tutta l’Ue. Tra il 2015 e il 2019, gli uomini italiani con il livello di istruzione più basso hanno registrato un tasso di mortalità per cancro superiore del 63% rispetto a quelli con istruzione più elevata. Per le donne, il divario è stato del 9%, tra i più contenuti in Europa. Questo suggerisce che, sebbene in Italia le donne siano generalmente meno colpite da disparità socioeconomiche rispetto agli uomini, resta fondamentale garantire un accesso equo alle cure per tutti.
La prevenzione resta la chiave
Secondo le stime europee, una strategia di prevenzione efficace potrebbe ridurre significativamente l’incidenza del cancro nei prossimi decenni, agendo su fattori di rischio noti come il fumo, il consumo di alcol, l’obesità e l’inquinamento atmosferico. Tuttavia, alcuni dati destano preoccupazione: in oltre due terzi dei Paesi Ue, più della metà degli adulti è in sovrappeso e il 70% non pratica sufficiente attività fisica. Ancora più allarmante è il calo delle adesioni ai programmi di screening: in metà dei Paesi Ue, i tassi di screening per il tumore al seno sono diminuiti, e i controlli per il tumore alla cervice uterina sono calati nei due terzi degli Stati membri.
L’Italia deve dunque affrontare una doppia sfida: mantenere i progressi ottenuti nella riduzione della mortalità oncologica e migliorare ulteriormente le strategie di prevenzione. Gli investimenti in centri specializzati, team multidisciplinari e linee guida cliniche uniformi rappresentano strumenti fondamentali in questa direzione. Allo stesso tempo, il potenziamento delle infrastrutture digitali per la raccolta e l’analisi dei dati potrà contribuire a migliorare la qualità delle cure e a individuare aree critiche su cui intervenire.
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Aborto, Trump vuole tornare nella Geneva Consensus...
Donald Trump, aborto: ci risiamo. Negli scorsi giorni, il presidente Usa ha annunciato l’intenzione di rientrare nella Geneva Consensus Declaration, il patto internazionale anti-aborto lanciato durante il primo mandato del tycoon. Questa mossa, comunicata dal segretario di Stato Marco Rubio, rappresenta un’inversione di rotta rispetto alle politiche adottate dall’amministrazione Biden, che aveva ritirato gli Stati Uniti dall’accordo.
Geneva Consensus Declaration, cosa è
La Geneva Consensus Declaration è stata istituita nell’ottobre 2020 con l’obiettivo di affermare che non esiste un diritto internazionale all’aborto e che i Paesi non sono obbligati a finanziare o supportare le procedure abortive. L’accordo è stato inizialmente sottoscritto da 32 nazioni, tra cui Stati Uniti, Brasile, Egitto, Ungheria, Indonesia e Uganda. Successivamente, il numero di firmatari è salito a 34.
Il documento riflette la visione conservatrice dei diritti riproduttivi e della struttura familiare più volte rilanciata dal leader Repubblicano. Questi i quattro obiettivi principali espressi nel testo:
- Garantire significativi progressi nella salute e nello sviluppo delle donne;
- Proteggere la vita in tutte le sue fasi;
- Dichiarare il diritto sovrano di ogni nazione di stabilire le proprie leggi a tutela della vita, senza pressioni esterne;
- Difendere la famiglia come fondamento di una società sana.
Trump, l’aborto e la reazione delle donne americane
Il rientro degli Stati Uniti nella Geneva Consensus Declaration avviene in un momento in cui il dibattito sull’aborto è particolarmente acceso negli Stati Uniti. Nel 2022, con il caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, che garantiva il diritto costituzionale all’aborto, permettendo ai singoli Stati americani di imporre restrizioni significative o vietare completamente la procedura. Dopo quella decisione, diversi Stati a guida repubblicana hanno introdotto leggi che limitano severamente l’accesso all’aborto.
Il tema era stato al centro dello scontro tra Donald Trump e Kamala Harris nel primo e unico confronto televisivo tra i due candidati alla Casa Bianca: per il tycoon la sentenza del 2022 è merito “del genio, del cuore e della forza di sei giudici della Corte Suprema” che sono riusciti a trasferire la decisione sul diritto di aborto ai singoli Stati concludendo una battaglia durata cinquantadue anni (la sentenza Roe v. Wade è del 1973). Per l’allora vicepresidente Kamala Harris, invece, la dinamica è stata più controversa: “Donald Trump ha scelto personalmente tre membri della Corte Suprema degli Stati Uniti con l’intenzione che avrebbero annullato le protezioni di Roe v. Wade. E hanno fatto esattamente quello che lui intendeva”.
Per la candidata repubblicana le conseguenze per le donne sono state devastanti: “Ora, in più di 20 Stati, ci sono divieti sull’aborto voluti da Trump, che rendono criminale per un medico o un’infermiera fornire assistenza sanitaria. In uno Stato, si prevede l’ergastolo per i medici”.
Nonostante il successo della candidata democratica in quel dibattito televisivo, Trump ha stravinto le elezioni americane. La reazione delle donne americane è stata immediata: subito dopo il trionfo elettorale del tycoon, in America c’è stato il boom della vendita di pillole abortive. Aid Access, tra i principali fornitori di mifepristone negli Stati Uniti, ha dichiarato di aver ricevuto circa 10.000 ordini del farmaco nelle 24 ore successive alla vittoria elettorale di Trump: un numero che è quasi venti volte maggiore rispetto alle 600 richieste giornaliere abituali.
Il dato si consolida con le informazioni riportate da Just the Pill, un’organizzazione no-profit che prescrive la pillola tramite consulti di telemedicina, che ha visto aumentare le richieste a 125 ordini in pochi giorni. Tra le donne che vi hanno fatto richiesta, alcune non sono neppure in gravidanza ma preferiscono fare una scorta, nel timore che il farmaco diventi inaccessibile nell’immediato futuro.
Altre decisioni anti-aborto
Oltre al rientro nella Geneva Consensus Declaration, l’amministrazione Trump ha adottato ulteriori misure per rafforzare la sua posizione anti-aborto. Tra queste, il congelamento degli aiuti esteri, ad eccezione di quelli destinati a Israele ed Egitto, e la reintroduzione della “Mexico City Policy”, che vieta il finanziamento federale alle organizzazioni non governative internazionali che forniscono o promuovono servizi abortivi.
Trump contro l’aborto, gli effetti sulla salute e sui rapporti internazionali
Le reazioni a queste iniziative sono state polarizzate.
I gruppi anti-abortisti hanno accolto con favore le misure, vedendole come passi significativi nella protezione della vita nascente. Al contrario, i sostenitori dei diritti riproduttivi e numerose organizzazioni internazionali hanno espresso preoccupazione per le possibili conseguenze negative sulla salute delle donne, sia negli Stati Uniti che a livello globale. La reintroduzione della “Mexico City Policy”, ad esempio, potrebbe portare alla chiusura di cliniche che offrono servizi essenziali per la salute riproduttiva in Paesi in via di sviluppo, aumentando il rischio di aborti non sicuri e complicazioni correlate.
Inoltre, la decisione di rientrare nella Geneva Consensus Declaration potrebbe isolare ulteriormente gli Stati Uniti dagli storici alleati degli Usa, molti dei quali sostengono il diritto all’aborto come parte integrante dei diritti umani. La dichiarazione è stata firmata principalmente da nazioni con governi conservatori o autoritari, il che potrebbe influenzare la percezione internazionale degli Stati Uniti riguardo ai diritti delle donne e alle politiche sanitarie.
Il rapporto con l’Ue
Il deterioramento dei rapporti con l’Unione europea non arriva a sorpresa. Già la nomina di J.D. Vance come vicepresidente, aveva fatto presagire che Trump sarebbe tornato ad affermare le posizioni antiabortiste con ancora più decisione rispetto al primo mandato.
Per approfondire: La scelta di Vance preoccupa l’Ue su tre fronti: Ucraina, commercio e diritti civili
Intanto, l’11 aprile 2024, gli eurodeputati hanno chiesto al Consiglio di inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Una decisione non vincolante con cui l’Ue ha ribadito la propria posizione progressista in materia di diritti civili. Con la risoluzione, gli eurodeputati (336 favorevoli, 163 contrari e 39 astenuti) hanno invitato ai Paesi membri a depenalizzare completamente l’aborto in linea con le linee guida dell’Oms del 2022 e a combattere gli ostacoli all’aborto. In particolare, si invitano Polonia e Malta ad abrogare le leggi e le altre misure nazionali che ne limitano il diritto. Nelle valutazioni dell’Europarlamento emergono criticità anche sull’Italia, e sulle posizioni assunte dal governo Meloni (molto vicina a Trump) in materia di aborto.
Melania Trump pro aborto
Non solo alleati storici dell’America, la decisione di Trump non sarà piaciuta neanche a sua moglie Melania Trump che, prima delle elezioni d’Oltreoceano, aveva invitato le donne a sentirsi libere di decidere sul proprio corpo: “È fondamentale garantire che le donne abbiano autonomia nel decidere se avere figli, in base alle proprie convinzioni, libere da qualsiasi intervento o pressione da parte del governo”, ha scritto la First Lady nel suo libro di memorie.
“Perché qualcuno diverso dalla donna stessa dovrebbe avere il potere di determinare cosa fare con il proprio corpo? Il diritto fondamentale di una donna alla libertà individuale, alla propria vita, le garantisce l’autorità di interrompere la gravidanza se lo desidera”, ha scritto ancora Melania Trump secondo cui “Limitare il diritto di una donna a scegliere se interrompere una gravidanza indesiderata equivale a negarle il controllo sul proprio corpo. Ho portato questa convinzione con me per tutta la mia vita adulta”.
Precedenti storici e politiche correlate
La Geneva Consensus Declaration non è l’unica iniziativa dell’amministrazione Trump volta a limitare l’accesso all’aborto. Durante il suo primo mandato, Trump ha implementato diverse politiche con l’obiettivo di ridurre il supporto federale per le procedure abortive. Tra le mosse più significative c’è stata la reintroduzione e l’espansione della “Mexico City Policy”, nota anche come “Global Gag Rule”, istituita dall’amministrazione Reagan nel 1984. La misura vieta di utilizzare fondi federali per finanziare organizzazioni non governative internazionali che forniscono servizi abortivi o che promuovono l’aborto come metodo di pianificazione familiare.
La politica è stata revocata e reintrodotta da successive amministrazioni, a seconda dell’orientamento politico del presidente in carica. Sotto la presidenza del tycoon, la politica è stata ampliata per includere quasi tutti i programmi di assistenza sanitaria globale finanziati dagli Stati Uniti, influenzando miliardi di dollari in aiuti e numerose organizzazioni sanitarie in tutto il mondo.
Un’altra misura significativa è stata la modifica del Titolo X, il programma federale di pianificazione familiare. Nel 2019, l’amministrazione Trump ha introdotto una regola che proibiva ai fornitori di servizi sanitari finanziati dal Titolo X di riferire le pazienti a servizi abortivi. Questa modifica ha portato diverse organizzazioni, tra cui Planned Parenthood, a rinunciare ai fondi del Titolo X piuttosto che conformarsi alla nuova regola, riducendo l’accesso ai servizi di pianificazione familiare per molte donne a basso reddito.