Cerchi qualcosa in particolare?
Pubblichiamo tantissimi articoli ogni giorno e orientarsi potrebbe risultare complicato.
Usa la barra di ricerca qui sotto per trovare rapidamente ciò che ti interessa. È facile e veloce!
Safer Internet Day 2025, teenager i più esposti ai rischi digitali
![Safer internet day 2025 uomo al Pc con schermata blocco](https://demografica.adnkronos.com/wp-content/uploads/2025/02/Uomo_pc_canva-1024x682.jpg)
Che rapporto abbiamo con la tecnologia e come cambiano le nostre paure tra le diverse fasce della popolazione? Queste domande assumono un ruolo fondamentale in un periodo come questo caratterizzato dalla rapida diffusione dell’intelligenza artificiale.
Molte risposte arrivano dal Global Online Safety Survey presentato da Microsoft in occasione del Safer Internet Day 2025. L’indagine analizza la sicurezza online in 15 Paesi, tra cui l’Italia ed è stata condotta tra luglio e agosto 2024 su un campione di 14.800 persone.
I risultati dimostrano che gli italiani sono mediamente più consapevoli degli altri cittadini, con la disinformazione in cima alle preoccupazioni degli utenti. È emerso anche un importante divario generazionale nella capacità di gestione dei rischi digitali: mentre i giovani chiedono sempre più supporto, gli adulti fanno più fatica a reggere i ritmi dell’intelligenza artificiale.
Safer Internet Day 2025, focus sugli italiani
Secondo il report, il 59% degli italiani ha affrontato almeno un rischio online nell’ultimo anno, un dato inferiore alla media globale (66%) ma comunque preoccupante. I più esposti risultano i teenager, con una percentuale che sale al 62%, evidenziando la necessità di strumenti adeguati a proteggerli.
Tra le principali minacce segnalate dagli utenti italiani emergono:
- Disinformazione: rischio percepito dal 40% della popolazione, leggermente sotto la media globale del 47%;
- Cyberbullismo e discorsi d’odio: 31%, in linea con il 33% registrato in medio tra i Paesi analizzati;
- Contenuti violenti: 28%, una percentuale che rispecchia le tendenze internazionali;
- Deepfake e manipolazione digitale: il 75% degli italiani si dichiara preoccupato per l’impatto di immagini e video generati dall’intelligenza artificiale contro il 72% della media internazionale.
Se l’intelligenza artificiale rappresenta un’opportunità, la percezione pubblica evidenzia anche una crescente diffidenza. Il 79% degli italiani teme truffe e manipolazioni legate alla tecnologia, mentre il 76% ritiene che l’Ai possa essere usata per diffondere contenuti inappropriati. Nel panorama internazionale, il rischio deepfake è molto sentito in Sudafrica (81%) e India (78%).
Come reagiscono i giovani italiani ai pericoli del web?
Nonostante i rischi, i giovani dimostrano una crescente consapevolezza e adottano strategie di difesa più efficaci rispetto agli adulti:
- Il 65% dei teenager blocca o rimuove contatti indesiderati, superando la media del 58%;
- il 58% si confida con una persona di fiducia, spesso un genitore o un insegnante (scelta presa dal 55% dei giovani a livello internazionale);
- il 33% non segnala gli episodi di rischio perché ritiene che sia inutile;
- il 19% è convinto che non ci saranno conseguenze per i responsabili di cattive azioni online.
Dunque, i giovani italiani sono più pronti dei coetanei nel chiedere supporto in materia di rischi digitali, ma i genitori sono abbastanza pronti?
L’indagine di Microsoft dice che, a fronte di una maggiore proattività da parte dei giovani, solo il 22% degli adulti si sente preparato ad aiutarli nella gestione dei pericoli online, un dato inferiore alla media globale del 25%. “Questo divario sottolinea la necessità di fornire alle famiglie strumenti pratici e formazione mirata, affinché possano supportare i giovani nel navigare in sicurezza nel mondo digitale”, spiega l’azienda che per questo invita a “Rafforzare il dialogo tra genitori e figli rappresenta un passo essenziale per affrontare insieme le sfide del panorama online”. In questa direzione va il piano da 4,3 miliardi di euro annunciato da Microsoft in Italia.
Quali sono le paure sull’Ai?
L’uso dell’Ai generativa sta crescendo rapidamente in Italia, con un aumento dell’8% rispetto al 2023. Oggi quasi un italiano su quattro (22%) dichiara di aver utilizzato strumenti di intelligenza artificiale negli ultimi tre mesi. Grandi protagonisti sono i Millennials (25-44 anni) che rappresentano gli italiani più attivi in ambito di intelligenza artificiale: l’anno scorso il 41% di loro ha utilizzato strumenti di Ai generativa migliorando il 35% del 2023.
In generale, gli italiani hanno sempre più familiarità con gli strumenti di intelligenza artificiale generativa: oggi un italiano su cinque (20%) afferma di avere buona padronanza dell’Ai, rispetto al 15% del 2023. Parallelamente, la percentuale di chi ha provato ad usare l’Ai almeno una volta è passata dal 29% al 38%, mentre le persone che la utilizzano settimanalmente son passate dal 29% al 35%.
Questo non significa ignorarne i rischi: il timore che l’Ai possa essere strumento di frodi o manipolazioni digitali è alto (79%), a dimostrazione di un atteggiamento ambivalente verso questa tecnologia. Per garantire un utilizzo responsabile, diventa fondamentale affiancare alla diffusione dell’Ai un’adeguata formazione sulle sue implicazioni sociali e demografiche.
La sicurezza digitale e la dimensione demografica
L’indagine Microsoft evidenzia come la sicurezza digitale sia un elemento chiave per il benessere della società. La popolazione italiana, caratterizzata da un’età media elevata rispetto ad altri Paesi europei, mostra una maggiore difficoltà ad adattarsi alle nuove minacce del digitale. Il divario generazionale non si traduce solo in una questione di competenze, ma influisce direttamente sulla fiducia nelle istituzioni e nei media, con un impatto rilevante sulla tenuta sociale e sulla qualità dell’informazione.
I risultati dicono che il Paese deve lavorare per colmare il gap tra generazioni e promuovere una cultura della sicurezza digitale che coinvolga famiglie, scuole e istituzioni. Solo attraverso un’educazione diffusa e un utilizzo consapevole la tecnologia diventerà un grande alleato per tutti e non un ostacolo all’uguaglianza sociale.
![](https://www.sbircialanotizia.it/wp-content/uploads/2023/11/23/Logo.png)
Demografica
Nasce l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca: Trump come un...
![](https://www.sbircialanotizia.it/wp-content/uploads/2025/02/10/redazione_210655279353_227.png)
![Donald Trump](https://demografica.adnkronos.com/wp-content/uploads/2025/02/trump_donald_bandiere_afp-1024x687.png)
Nasce alla Casa Bianca l’Ufficio della Fede. La scorsa settimana il presidente Usa Donald Trump aveva detto che voleva rimettere al centro del Paese la religione, e lo sta facendo: oggi ha firmato un ordine esecutivo che istituisce un Ufficio apposito, affidandolo alla telepredicatrice Paula White, da anni sua consigliera spirituale.
Per suggellare il momento, Trump ha inscenato nello Studio Ovale una sorta di ultima cena e ha postato su X la relativa foto. C’è lui al centro, novello Messia, con una Bibbia di qua e White di là, circondato da pastori di varie congregazioni, dal cantante Kid Rock, dal marito della telepredicatrice, Jonathan Cain, e da alcuni collaboratori.
Un’immagine che parla già molto, ma che è accompagnata da parole ancora più chiare: “Come dice la Bibbia: ‘Beato chi porta la pace’. Alla fine, spero che la mia più grande eredità, quando tutto sarà finito, sarà essere conosciuto come un pacificatore e un unificatore”.
Da parte sua White, per la quale “opporsi a Trump equivale a opporsi a Dio”, è arrivata a dire che “ho l’autorità per dichiarare la Casa Bianca luogo santo. E’ la mia presenza che la santifica”.
“As the Bible says, ‘Blessed are the peacemakers.’ And in that end, I hope my greatest legacy when it’s all finished, will be known as a peacemaker and a unifier.” —President Donald J. Trump pic.twitter.com/ArXe38r1EY
— The White House (@WhiteHouse) February 8, 2025
Chi è Paula White, controversa pastora della ‘teologia della prosperità’
Paula White è una figura controversa. Nata nel 1966 a Tupelo, Mississippi, è una self-made preacher che parte da un’infanzia difficile e prosegue con la conversione al cristianesimo a 18 anni, con il successo come predicatrice, con il rapporto con Trump che la nota in tv, e ora con la consacrazione ufficiale nelle stanze del potere americano.
Pastora della ‘teologia della prosperità’, da molti cristiani conservatori è considerata un’eretica, a partire dallo stesso concetto che sta alla base della sua ‘dottrina’. Ovvero che Dio dà – premia – ricchezza e salute a chi ha una fede forte. Un’impostazione criticata perché addossa ai poveri la colpa di essere tali.
Ma ci sono anche altri motivi di polemiche, come la richiesta da parte di White di donazioni alla sua ‘chiesa’, con la ‘minaccia’ che, a chi non dona, Dio impedirà la realizzazione di ogni desiderio. Alla fine, la sua Without Walls International Church è diventata un impero, mentre la pastora parla, predica e influenza milioni di americani attraverso il suo show televisivo.
Cosa farà l’ufficio della fede
Al momento non è stato specificato cosa farà nel concreto l’Ufficio della Fede, ma la sua istituzione trova le sue radici nella convinzione di Trump che i democratici siano “contro la religione e contro Dio”: una convinzione ribadita giovedì scorso durante l’annuale evento religioso National Prayer Breakfast, al quale partecipano gruppi religiosi e leader governativi e durante il quale il presidente ha tenuto un discorso.
Trump tra le altre cose ha definito il suo predecessore Joe Biden, peraltro cattolico, un “persecutore dei credenti” e ha dichiarato di voler firmare un ordine esecutivo per istituire una nuova task force con il compito di colpire tutte le forme di anti-cristianità, nominando capo dell’iniziativa la procuratrice generale degli Stati Uniti Pam Bondi.
“La missione di questa task force sarà quella di fermare immediatamente tutte le forme di discriminazione e di attacco anticristiano all’interno del governo federale, incluso il Dipartimento di Giustizia, che è stato assolutamente terribile, l’Internal Revenue Service, l’Fbi e altre agenzie”, ha spiegato Trump.
Come per altre sue iniziative, questa del presidente in realtà può portare a problemi costituzionali, innanzitutto in relazione al Primo emendamento, che stabilisce che il governo non può imporre una religione né interferire con la libertà religiosa. In sostanza, che debba esserci separazione tra Stato e Chiesa. Non solo, ma l’’Establishment Clause’ vieta al governo di istituire una religione ufficiale o favorirne una rispetto a un’altra.
Trump come un messia
Le iniziative di Trump rientrano in un contesto di più lunga data in cui il miliardario si dipinge come un messia, un salvatore, sfruttando anche l’immagine della crocefissione. A tal proposito ha contribuito il fallito attentato della scorsa estate a Butler, in Pennsylvania, quando il miliardario ha schivato la morte per un soffio e per molti grazie alla mano di Dio. L’episodio è stato narrato, da lui e non solo, come un quasi martirio. “È stata la volontà di Dio a salvarmi: un’esperienza che mi ha cambiato”, ha ribadito giovedì scorso al National Prayer Breakfast.
L’intersezione tra politica, religione e populismo non è nuova per l’America, ma il tycoon la sta sfruttando a piene mani per aumentare la polarizzazione della società americana e presentarla come una lotta tra bene e male. D’altronde non è passato troppo tempo dall’esplosione delle teorie cospirative che facevano capo a QAnon, secondo cui – tra le altre cose – il mondo è dominato da un gruppo segreto di pedofili che solo Trump può sconfiggere. Lui ovviamente aveva sguazzato in questo mare, e c’è da credere che possa tornare tutto di nuovo a galla.
Mentre aspettiamo di capire cosa farà l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca, la sua istituzione fa presagire una sterzata ancora più conservatrice di quanto immaginato finora. Se non lo avete fatto, recuperate in streaming la serie tv ‘Il racconto dell’ancella’ o la serie di libri di Margaret Atwood da cui è tratta: quella che sembrava una storia distopica rischia di trasformarsi in realtà.
Demografica
Israele preleva lo sperma dai soldati morti per preservare...
![](https://www.sbircialanotizia.it/wp-content/uploads/2025/02/10/redazione_153311791309_59.jpeg)
![Post Mortem Canva](https://demografica.adnkronos.com/wp-content/uploads/2025/02/post_mortem_canva-1024x682.jpg)
Israele ha estratto lo sperma di oltre 200 soldati caduti in guerra. La Par (acronimo inglese di “riproduzione assistita postuma”) viene considerata una via per preservare l’eredità familiare e nazionale e la demografia del popolo ebraico. Molti Paesi non hanno leggi specifiche sulla riproduzione postuma assistita, altri (come Francia e Germania) la vietano esplicitamente, e altri ancora la permettono solo dietro consenso scritto della persona coinvolta (è quello che succede in Canada e Regno Unito).
In Israele, la Par era stata scarsamente utilizzata prima del 7 ottobre 2023, data dell’aggressione di Hamas e dell’inizio del conflitto con le milizie arabe. Da allora, questa tecnica di riproduzione ha assunto un ruolo importante e anche simbolico in un Paese dove il valore della famiglia, la tutela delle tradizioni e la crescita demografica sono temi di primaria importanza. Israele è l’unico Paese a consentire l’estrazione di sperma post mortem anche senza consenso preventivo: è sufficiente che non ci sia stata un’obiezione esplicita e dimostrabile della persona morta quando era in vita.
Cos’è la riproduzione assistita postuma (Par)?
La riproduzione assistita postuma si riferisce al prelievo di gameti – sperma, e in misura minore ovociti – da un individuo deceduto per utilizzarli successivamente in tecnologie riproduttive quali la fecondazione in vitro o l’iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi (Icsi). In Israele, l’attenzione si è concentrata soprattutto sul prelievo di sperma da soldati caduti, con l’intento di consentire alle famiglie di onorare il sacrificio del proprio caro e perpetuare la sua eredità. Più in generale, lo Stato ebraico dà grande importanza alle tecniche riproduttive (il genocidio degli ebrei ha reso prioritari gli interventi a tutela della demografia israeliana). Il tasso di fertilità del Paese è di gran lunga il più alto tra i paesi dell’Ocse. Hanno profonde implicazioni politiche. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, Israele, che attualmente conta 9 milioni di abitanti, dovrebbe raggiungere i 13 milioni di abitanti nel 2050.
La procedura e le tecniche adottate
Il prelievo di sperma, ovuli o embrioni può essere fatto anche prima che l’individuo muoia o comunque entro le 24-48 ore dal decesso per aumentare le possibilità di successo. Il successo della Par dipende in gran parte dalla tempestività dell’intervento perché a vitalità del materiale genetico si deteriora rapidamente dopo la morte dell’individuo. Poi, il campione viene crioconservato a -196 °C in azoto liquido. Nel caso dell’estrazione di sperma da un morto, la procedura prevede la biopsia sul cadavere, l’incisione del testicolo, la rimozione di un pezzo di tessuto, l’isolamento delle cellule spermatiche vive e il loro congelamento.
I medici israeliani sono chiamati a operare nel più breve tempo possibile, utilizzando una serie di tecniche specifiche. Tra queste, l’aspirazione con ago – un metodo meno invasivo – e, se necessario, tecniche chirurgiche più complesse come la rimozione diretta del tessuto testicolare, oppure l’elettroeiaculazione, che sfrutta una sonda per stimolare l’eiaculazione.
Anche lo sperma con una ridotta motilità può essere impiegato con successo grazie alla tecnica Icsi, che prevede l’iniezione di un singolo spermatozoo direttamente nell’ovulo, rendendo possibile la fecondazione anche in presenza di anomalie nel materiale genetico.
Il prelievo degli ovociti da donne decedute, sebbene tecnicamente fattibile, risulta molto più complicato. Gli ovociti richiedono condizioni estremamente specifiche per maturare e rimanere vitali, e le tecniche di maturazione in vitro stanno ancora evolvendo, rendendo questa procedura meno comune e più sperimentale.
Estrazione dello sperma post mortem, cosa è cambiato dopo il 7 ottobre
L’interesse verso la Par ha visto un notevole incremento in seguito agli eventi drammatici del 7 ottobre 2023, quando, in un clima di emergenza nazionale, le autorità hanno temporaneamente allentato i requisiti legali per il prelievo, consentendo alle famiglie di procedere senza dover ottenere un ordine giudiziario. Questa sospensione temporanea ha accelerato notevolmente il processo, permettendo una risposta più rapida in un momento di grande dolore e necessità.
Per gestire la crescente domanda, il Ministero della Salute e l’esercito hanno istituito un’unità speciale, operativa ininterrottamente e a costo zero per le famiglie. Tale iniziativa sottolinea l’importanza che il governo israeliano attribuisce alla continuazione dell’eredità dei soldati caduti, in un Paese che da tempo promuove politiche pro-nataliste e sostiene la fecondazione in vitro attraverso finanziamenti statali generosi. Dall’inizio del confitto con Hamas, secondo i dati del ministero israeliano della Salute è stato estratto lo sperma dai cadaveri di più di 200 uomini israeliani, per lo più giovani soldati non sposati.
Spesso sono le stesse famiglie di origine o le mogli dei soldati caduti in guerra a richiedere di conservare lo sperma per preservare la progenie. Già quattro giorno dopo l’attacco di Hamas, l’11 ottobre 2023, la regista israeliana Shaylee Atary, chiese pubblicamente al governo di recuperare il più rapidamente possibile il cadavere del marito, l’attore e regista Yahav Winner, ucciso dai miliziani, per estrarne lo sperma e avere la possibilità di “continuare a far crescere la famiglia”. Secondo la sua testimonianza, “molte donne israeliane” stavano tentando di fare la stessa cosa con i loro mariti e figli deceduti.
Le radici culturali e demografiche della pratica
In Israele, la Par si inserisce in una tradizione culturale e demografica fortemente orientata verso la famiglia e la procreazione. Il Paese ha da sempre investito nella promozione della crescita demografica, vista come una necessità strategica in un contesto di continue minacce regionali e di memoria storica. Dopo le tragedie del passato, il desiderio di aumentare la popolazione ebraica è diventato un imperativo nazionale, e la riproduzione assistita postuma si presenta come uno strumento per onorare i sacrifici dei soldati caduti e per rafforzare la continuità delle famiglie.
Alcune famiglie cercano volontarie disposte a portare avanti la maternità, anche in assenza di un partner, per dare vita a un figlio che rappresenti il simbolo di una stirpe onorata e ricordata.
Nonostante il grande ricorso a questa pratica, Israele non ha una legge ad hoc sulla Par, introdotta a metà degli anni Novanta. Il Paese regola l’estrazione dello sperma post mortem con una serie di direttive, emanate nel 2003 dalla procura generale per spiegare ai tribunali come accogliere le richieste delle famiglie in tal senso. Inizialmente queste linee guida stabilivano che la moglie o la partner abituale del defunto potessero presentare richiesta direttamente all’ospedale o a una clinica della fertilità, escludendo i genitori dalla possibilità di avanzare richiesta di Par. La guerra con Hamas ha spinto sempre più famiglie a chiedere questa pratica per i loro figli, spesso morti ancora prima di avere una moglie o una partner abituale. Le pressioni delle famiglie israeliane in tal senso si sono fatte sempre più forti e ha spinto anche la giurisprudenza a esprimersi in tal senso. De facto la possibilità di richiedere accesso alla Par è stata estesa anche ai genitori delle vittime.
Aspetti legali ed etici
Nonostante il sostegno culturale e demografico, la Par solleva importanti questioni etiche e legali. La pratica, che vede il suo primo caso israeliano nel 2002, ha visto una graduale accettazione e una successiva regolamentazione nel corso degli ultimi due decenni. Tuttavia, i dibattiti continuano riguardo ai diritti del defunto, al benessere del bambino e alla necessità di garantire il consenso, anche se in alcuni casi questo requisito è stato temporaneamente allentato per rispondere a circostanze d’emergenza.
Il sistema legislativo israeliano, noto per la sua flessibilità in campo medico e riproduttivo, ha introdotto norme specifiche che regolano il prelievo post mortem. Queste disposizioni mirano a bilanciare l’innovazione scientifica con la tutela dei diritti di tutte le parti coinvolte, ponendo particolare attenzione all’autonomia riproduttiva e al benessere dei futuri figli.
Restano dubbi sulla procedura, in particolare sulla legittimità di ritenere implicito il consenso del defunto e sul ruolo che l’autorità pubblica ha su questo tipo di decisioni.
Prelievo post mortem di sperma, cosa ne pensano gli uomini israeliani?
Numerosi esperti e studiosi hanno sottolineato il potenziale della Par come strumento per affrontare le sfide demografiche e culturali di Israele. Un importante contributo in questo campo è arrivato da ricercatori dell’Università di Tel Aviv, che hanno evidenziato come la pratica del prelievo post mortem possa rappresentare una risposta efficace alle preoccupazioni legate alla diminuzione della natalità in contesti in cui le pressioni demografiche sono particolarmente forti.
Ma cosa ne pensano i diretti interessati di questa procedura? Alcune risposte arrivano dallo studio condotto da Bella Savitsky, Talia Eldar-Geva, Rachel Shvartsur. I ricercatori hanno esaminato le opinioni degli uomini israeliani riguardo al consenso preventivo al prelievo post mortem di sperma avviata dal partner o dai genitori. Lo studio ha rilevato che la maggior parte degli uomini (71%) preferisce pre-documentare le proprie preferenze relative al prelievo, con il 70% che sostiene il consenso durante l’arruolamento per il servizio militare regolare e il 78% prima del servizio di riserva. Per quanto riguarda la Par (che implica non solo l’estrazione dello sperma, ma anche l’utilizzo a fini riproduttivi), il 37% si è opposto alla richiesta del proprio partner, mentre il 47% si è opposto alla richiesta dei propri genitori.
Lo studio conclude che, sebbene sia comprensibile che i genitori in lutto cerchino conforto attraverso il Pps, si dovrebbe ottenere il consenso dagli uomini stessi, poiché una parte considerevole non supporta il processo così come viene attualmente eseguito.
La riproduzione assistita postuma, o Par, rappresenta sicuramente una delle frontiere più complesse e controverse della medicina riproduttiva moderna. In Israele, questa pratica si è sviluppata in risposta a un insieme di fattori demografici, culturali e tecnologici, offrendo alle famiglie un modo per preservare l’eredità dei soldati caduti in un contesto pro-natalista e fortemente orientato alla continuità familiare. Gli avanzamenti nelle tecniche di prelievo, conservazione e fecondazione, uniti a un sistema sanitario che sostiene la fecondazione in vitro con finanziamenti statali, hanno reso possibile un’applicazione che fino al secolo scorso sembrava fantascientifica.
La paura dopo gli attacchi del 7 ottobre ha inciso profondamente sulle richieste di accedere all’estrazione dello sperma dai soldati morti, ma gli interrogativi importanti sui diritti del defunto, sul benessere del bambino e sull’autonomia riproduttiva persistono.
Demografica
Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata, la cicatrice...
![](https://www.sbircialanotizia.it/wp-content/uploads/2025/02/10/redazione_153306591586_57.jpeg)
!["giorno Del Ricordo" In Memoria Delle Vittime Delle Foibe Nel Secondo Dopoguerra](https://demografica.adnkronos.com/wp-content/uploads/2025/02/foibe_fg-1024x722.jpg)
Il 10 febbraio, nel Giorno del Ricordo, l’Italia commemora una delle pagine più dolorose della sua storia contemporanea: la tragedia delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Ogni anno, il dibattito si riaccende, non solo in occasione delle cerimonie ufficiali ma anche a seguito di episodi che riaffiorano le tensioni legate a questa memoria storica. Recentemente, un atto vandalico alla Foiba di Basovizza, simbolo della memoria delle vittime, ha suscitato reazioni indignate e riaperto la discussione sull’importanza di preservare la verità storica. Le scritte in lingua slava, come “Trieste è nostra” e “Trieste è un pozzo”, testimoniano quanto il ricordo della tragedia continui a essere un campo minato, un terreno di scontro tra rivendicazioni politiche e una necessità di verità condivisa.
L’episodio non è isolato. Ogni anno, a ridosso della Giornata del Ricordo, si registrano atti di vandalismo o tentativi di revisionismo legati alla memoria delle foibe. Non è solo un attacco ai luoghi simbolo, ma anche una ferita inferta alla dignità delle famiglie che, da generazioni, portano con sé il peso di una storia mai completamente riconosciuta. Come ha ricordato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, questo gesto rappresenta “un atto di gravità inaudita” che colpisce non solo le vittime, ma tutta la nazione. La premier parla di “Una pagina dolorosa della nostra storia per troppo tempo dimenticata. Ricordare è un dovere di verità e giustizia, per onorare chi ha sofferto e trasmettere questa memoria alle nuove generazioni. L’Italia non dimentica”. Tuttavia, la vera sfida è comprendere come gli eventi delle foibe abbiano influito sul territorio, sulle persone e sulle comunità italiane, e come la memoria collettiva di questi fatti sia in continua evoluzione.
Giorno del Ricordo
Nel corso degli ultimi decenni, la necessità di preservare la memoria storica legata alle foibe e all’esodo giuliano-dalmata è emersa con forza crescente, diventando un tema centrale nel dibattito politico e culturale italiano. La commemorazione del 10 febbraio, noto come Giorno del Ricordo, è stata istituzionalizzata con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, un atto che ha rappresentato il riconoscimento ufficiale di un dolore collettivo e l’impegno a non dimenticare una delle pagine più buie della nostra storia. Questa ricorrenza ha offerto l’occasione di mettere in luce non solo le vittime delle violenze, ma anche le conseguenze demografiche e sociali che tali eventi hanno lasciato sulle comunità italiane.
Il processo di sensibilizzazione ha preso piede soprattutto grazie all’impegno congiunto di storici, associazioni di esuli e istituzioni educative, che hanno cercato di includere nella narrazione ufficiale quella realtà spesso marginalizzata e minimizzata. Le scuole, in particolare, hanno assunto un ruolo cruciale nella trasmissione di una memoria critica e condivisa, promuovendo percorsi didattici che spaziano dalla ricostruzione storica degli eventi al loro impatto demografico e sociale. Tuttavia, nonostante gli sforzi, permangono ancora oggi resistenze e revisionismi, che si manifestano attraverso atti di vandalismo e negazionismo, come nel caso della recente offesa alla Foiba di Basovizza.
Questo continuo scontro tra la necessità di ricordare e la volontà di negare fa parte di una dinamica più ampia, in cui la memoria storica diventa uno strumento politico. La politica, infatti, ha spesso strumentalizzato il discorso sul passato per consolidare posizioni ideologiche e rivendicare un’identità nazionale che si basa, in parte, sul superamento di quella tragedia. Tali dinamiche hanno il doppio effetto di rinvigorire il dibattito pubblico e, al contempo, di riaprire vecchie ferite, creando un clima in cui il ricordo non è solo un atto di memoria, ma anche un terreno di scontro ideologico. Le parole dei rappresentanti istituzionali, che condannano con fermezza ogni atto di vandalismo, sono un chiaro segnale dell’importanza attribuita alla tutela della verità storica, anche se, in certi momenti, essa si scontra con interessi politici e retoriche nazionalistiche.
Sul piano sociale, il dialogo intergenerazionale si rivela fondamentale per la trasmissione di una memoria che sia al contempo critica e rispettosa. Le iniziative culturali, che spaziano da mostre fotografiche a documentari, da incontri pubblici a forum di discussione, hanno contribuito a creare uno spazio in cui il dolore del passato può essere elaborato e compreso in modo più profondo. È attraverso questi momenti di confronto che si costruisce una memoria collettiva, capace di andare oltre le divisioni ideologiche e di unire cittadini di diversa estrazione in un comune sforzo di riconciliazione.
Il contesto storico e demografico delle foibe
Le foibe rappresentano una delle ferite più aperte e controverse della storia italiana del Novecento, una ferita che ha segnato non solo il territorio ma anche l’identità di intere comunità. Fin dai primi anni della Seconda Guerra Mondiale, il confine orientale italiano – con territori che oggi corrispondono all’Istria, alla Dalmazia e ad alcune aree del Quarnaro – era teatro di tensioni etniche, culturali e politiche. L’area, da sempre crocevia di popolazioni, aveva visto, sin dal periodo asburgico, una convivenza di italianità, sloveno, croata e altre minoranze, ognuna con la propria storia e le proprie radici. Tuttavia, il processo di italianizzazione forzata, accelerato dal regime fascista, aveva alimentato rancori e sospetti reciproci, creando un terreno fertile per future violenze.
Nel periodo che va dal 1943 al 1945, con l’avvicinarsi della fine del conflitto mondiale, il quadro politico ed etnico si fece sempre più instabile. Le forze partigiane jugoslave, guidate da Tito, intrapresero una campagna di violenze che aveva come obiettivo, secondo la loro visione ideologica, l’eliminazione di chi rappresentava il “vecchio ordine” e la rivitalizzazione di una nuova identità nazionale. Le foibe, profonde cavità carsiche che punteggiano il paesaggio della regione, divennero il simbolo di questo scontro brutale: non solo vi furono uccisioni sommarie, ma intere famiglie italiane, che avevano per secoli contribuito alla vita economica e culturale della zona, furono cancellate dalla memoria ufficiale.
L’azione di eliminazione non fu indiscriminata, ma prese di mira anche intellettuali, insegnanti, religiosi e figure di spicco della società civile, provocando una profonda crisi demografica. Le fonti storiche, pur divergendo sui numeri esatti, suggeriscono che le vittime possano essere state decine di migliaia, con stime che oscillano tra le 10mila e le 15mila persone. Questa pulizia etnica, voluta non solo per motivi politici ma anche per ridefinire la composizione demografica dei territori contesi, provocò un mutamento irreversibile del tessuto sociale locale.
La cancellazione forzata dell’identità italiana in queste terre fu il preludio a una trasformazione demografica di vasta portata: le città e i paesi, un tempo fiorenti centri di cultura e commercio, videro svanire in pochi anni la presenza di una popolazione che si riconosceva in una tradizione millenaria. La sostituzione con insediamenti e popolazioni slave, promossa dalle autorità jugoslave, non solo modificò i confini culturali, ma segnò un’epoca in cui la storia fu riscritta attraverso la lente della politica e della propaganda. Il peso di questo cambiamento si sente ancora oggi, nelle tracce lasciate nelle architetture, nella memoria collettiva e nel modo in cui il territorio viene percepito e vissuto. La dialettica tra memoria e identità, infatti, si è trasformata in un vero e proprio campo di battaglia culturale, dove ogni gesto – per quanto simbolico – viene interpretato come un atto politico e come una riaffermazione di quella identità che per troppo tempo è stata messa in discussione.
Il quadro demografico delle regioni colpite da queste violenze non può essere compreso senza considerare il processo storico che le ha segnate. L’occupazione, la guerra e, infine, la drastica modifica dei confini, hanno condizionato non solo il presente ma hanno lasciato un’eredità di divisione e di dolore, dove il ricordo delle foibe si intreccia indissolubilmente con quello di una comunità che ha lottato per mantenere la propria identità di fronte a forze ben organizzate e a politiche di sterminio culturale.
L’esodo giuliano-dalmata: dinamiche sociali e conseguenze demografiche
Accanto alla tragedia delle foibe, un’altra ferita aperta nella storia italiana è rappresentata dall’esodo giuliano-dalmata, una delle migrazioni forzate più drammatiche del dopoguerra. Tra il 1943 e il 1956, circa 250mila – e secondo alcune stime fino a 300mila – italiani si videro costretti a lasciare le proprie terre nell’Istria, a Fiume e nella Dalmazia, abbandonando case, tradizioni e radici secolari per cercare rifugio in un’Italia che, a volte, li accoglieva con diffidenza. Questo spostamento massiccio di popolazioni non fu solo una fuga dalla violenza, ma un vero e proprio disastro demografico, capace di rimodellare l’identità territoriale e culturale di intere regioni.
Le dinamiche alla base di questo esodo sono da ricercare in un contesto storico contraddittorio, segnato da un dopoguerra in cui il peso degli eventi bellici si traduceva in una profonda crisi di fiducia e identità. Le autorità jugoslave, nel tentativo di consolidare un nuovo ordine politico e sociale, promossero politiche di ripopolamento che favorirono l’insediamento di popolazioni slave nelle aree abbandonate dagli italiani. Tale operazione portò a una trasformazione radicale della composizione demografica: città storicamente italiane come Pola, Fiume e Zara persero la loro identità culturale, sostituita da un nuovo ordine etnico che avrebbe plasmato il volto della regione per decenni.
Sul versante italiano, l’arrivo di centinaia di migliaia di esuli rappresentò una sfida imponente per il tessuto sociale ed economico del paese. Le città d’arte e di lavoro, come Trieste, Venezia, Milano e Roma, furono teatro di un’integrazione forzata, in cui i nuovi arrivati spesso si trovarono a fronteggiare pregiudizi, difficoltà burocratiche e condizioni di vita precarie, convogliate in campi profughi e strutture temporanee. L’accoglienza, ben lontana dall’essere calorosa, si fece a tratti fredda e disumana, alimentando un senso di abbandono e di smarrimento che si è perpetuato per intere generazioni.
Le conseguenze demografiche dell’esodo si sono manifestate in maniera profonda sia sul piano quantitativo che qualitativo. La dispersione della comunità italiana, frutto di una migrazione forzata e dolorosa, ha inciso pesantemente sulla struttura familiare e sociale: interi nuclei si sono trovati a dover ricostruire la propria vita in contesti nuovi, lontani dalla familiarità delle proprie radici. Il senso di perdita, il trauma della separazione e l’angoscia del non appartenere più a quel luogo che per secoli era stato casa, hanno lasciato cicatrici indelebili. Queste cicatrici non si limitano a una dimensione individuale, ma si estendono a quella collettiva, contribuendo alla formazione di una memoria condivisa che, ancora oggi, alimenta dibattiti e controversie sul riconoscimento di un’identità culturale negata.
Dal punto di vista economico e sociale, l’arrivo massiccio degli esuli ha avuto effetti di lunga durata. Le difficoltà di integrazione hanno portato molti a intraprendere percorsi di emigrazione ulteriori, cercando altrove una possibilità di rinascita, lontani dal peso della storia. Al contempo, le comunità italiane all’interno del territorio nazionale hanno dovuto fare i conti con una realtà frammentata, in cui il senso di appartenenza veniva continuamente messo in discussione da rivalità interne e dalla percezione di un passato che ancora non si era chiuso. Le tensioni generate da questa situazione hanno contribuito a plasmare il dibattito politico e culturale del dopoguerra, lasciando un’eredità che si riflette, in parte, anche nella società italiana contemporanea.
Testimonianze dal passato
Tra le voci che emergono dalla complessa trama della memoria, quella del figlio di un esule istriano risuona con particolare forza, offrendo uno spaccato intimo e toccante di una realtà che spesso viene raccontata solo attraverso dati e statistiche. Le testimonianze legate al dramma delle Foibe e dell’esodo istriano sono spesso attraversate da una commistione di dolore, perdita e resilienza. Come racconta Riccardo Rossi, il ricordo di quel periodo non è solo una riflessione sulla sofferenza, ma anche una celebrazione di atti eroici e di una resistenza che ha permesso la salvezza di molte vite. La sua testimonianza personale è inestricabilmente legata alla storia della sua famiglia, le cui vicende furono segnate dall’esodo forzato e dalla fuga dalle terre istriane. “Quando si avvicina il 10 febbraio, giorno del ricordo della tragedia delle Foibe, dei tanti morti e dei tanti istriani che sono dovuti scappare per non essere uccisi (tra cui mia nonna, mio padre e mia zia), mi assale la tristezza”, afferma, esprimendo la complessità emotiva di un evento che ha segnato la sua vita. Tuttavia, il racconto si arricchisce di una luce di speranza grazie alla figura di Giordano Paliaga, prozio di Riccardo, che, nonostante il rischio per la sua stessa vita, riuscì a salvare sua sorella Maria e i suoi figli, tra cui Arturo, il padre di Riccardo. Giordano, infatti, avvisò la famiglia della minaccia imminente, permettendo loro di fuggire e salvarsi dalle atrocità che si stavano consumando nelle terre istriane.
Riccardo prosegue raccontando il peso della memoria tramandata attraverso le generazioni, con il dolore che Arturo, suo padre, portò con sé per tutta la vita. “Arturo portava in sé tutto il dolore del ricordo dell’avere lasciato la sua casa natale da piccolo, la sofferenza di un padre che lo martirizzava fisicamente”, dice, descrivendo un trauma che non solo ha segnato la sua infanzia, ma che si è trasmesso alla generazione successiva. Questo dolore, accumulato negli anni, ha avuto un impatto devastante sulle relazioni familiari, soprattutto sui figli, che subirono le conseguenze delle sue ferite interiori. “Ogni giorno, tornava tardi e nervoso a casa, ci rompeva i giocattoli, ci picchiava, ci malediceva e ci umiliava”, racconta Riccardo, che ha vissuto il peso di un’eredità dolorosa, segnata dalla violenza e dalla sofferenza psicologica del padre. Solo molti anni dopo, Riccardo scoprirà la verità su quelle cicatrici invisibili, rendendosi conto che il padre, pur essendo stato costretto a lasciare la sua terra d’origine, non riusciva a liberarsi dal peso di un’identità e di una memoria che non gli permettevano di tornare nella sua città natale. “Quando leggeva la sua tessera di riconoscimento, in cui si evinceva che era nato a Pola, in Iugoslavia (ora Croazia), vedevo lo smarrimento nei suoi occhi; lui si definiva italiano e non iugoslavo”, racconta ancora Rossi, indicando un profondo conflitto identitario che ha segnato la sua famiglia e la sua infanzia.