Ucraina, summit Ue difficile su allargamento: l’Ungheria frena
Il problema è il veto, annunciato dal premier Viktor Orban, che ha chiesto di non mettere in agenda il tema dell'adesione del Paese all'Unione Europea
Si prospetta un Consiglio Europeo "difficile" sull'avvio dei colloqui di adesione all'Ue dell'Ucraina. Il summit è previsto per giovedì e venerdì prossimo: i tempi sono già stati 'stiracchiati' al massimo, poiché gli arrivi dei leader sono previsti a partire dalle 8.30 di giovedì mattina, dato che saranno tutti o quasi già a Bruxelles, per via del vertice sui Balcani Occidentali che prenderà il via mercoledì pomeriggio.
Il problema è il veto annunciato dall'Ungheria con una lettera a Charles Michel del premier Viktor Orban, che ha chiesto di non mettere il tema Ucraina in agenda, dato che la mancanza di consenso "porterà inevitabilmente al fallimento" del vertice. Un alto funzionario Ue pronostica un summit che si protrarrà nel weekend: "Parliamo di soldi, di unanimità, è una questione cruciale, riguarda la storia: ci si può aspettare che duri un po' di più" del previsto, dice, perché "la pressione è piuttosto alta e i leader tenteranno di risolvere la questione prima di fine anno".
Un altro tema bloccato è la revisione del quadro finanziario pluriennale, il Mff 2021-27, che è legato alla decisione sull'Ucraina, dato che il principale motivo di dissenso sono gli aiuti a Kiev, per i quali servono 50 miliardi di euro. La Commissione Europea si appresta a sbloccare 10 miliardi di euro di fondi Ue, destinati all'Ungheria, principalmente per via della riforma della giustizia, attuata da Budapest, ma con una tempistica che fa pensare a un tentativo di 'ammorbidire' il premier magiaro, il quale ha spesso un atteggiamento pragmatico e transattivo nei vertici, al di là delle dichiarazioni pubbliche.
Ora che il primo ministro polacco non è più Mateusz Morawiecki del Pis, ma Donald Tusk di Piattaforma Civica, il leader ungherese dovrebbe essere in teoria più isolato, ma la fonte Ue è cauta: "Dovremo vedere qual è la dinamica", dice. Quanto al premier slovacco Robert Fico, anch'egli non ostile alla Russia, "finora non ha messo in dubbio il consenso" in Ue sull'aiuto all'Ucraina, osserva la fonte Ue. Sull'avvio dei colloqui di adesione "serve l'unanimità" dei 27, ricorda, quindi non c'è modo di aggirare un eventuale blocco da parte dell'Ungheria, ma sugli aiuti a Kiev ci sono vie per andare avanti comunque a 26: "Dove c'è la volontà, c'è un modo" per andare avanti, osserva.
La bozza delle conclusioni recita, al punto 14, che il Consiglio Europeo "decide di aprire i negoziati di adesione con l'Ucraina e con la Moldova", concede lo status di candidato alla Georgia e si dichiara "pronto ad aprire i negoziati di adesione con la Bosnia-Erzegovina, una volta che il necessario grado di rispetto dei criteri di membership sarà raggiunto". Si mette nero su bianco che un allargamento simile comporterà la necessità di "riforme interne" (dato che l'Ucraina è un grande Paese, con oltre 40 milioni di abitanti, ed è un vero colosso nell'agricoltura), che verranno discusse "nei prossimi incontri, con l'intenzione di adottare entro l'estate del 2024 conclusioni su un quadro strategico che tratteggi il modo di agire per l'Unione".
Non è detto, ma è possibile, che un eventuale fallimento del vertice sull'avvio dei colloqui di adesione con l'Ucraina blocchi anche i dossier Moldova, Georgia e Bosnia-Erzegovina. Di sicuro un eventuale fallimento del summit sull'avvio dei colloqui darebbe un pessimo segnale. Non solo sul destino dell'Ucraina, ma anche, e forse soprattutto, sul futuro dell'Ue.
Ungheria o meno, "sono sicuro che i 26 ribadiranno il sostegno all'Ucraina", dice la fonte, come è sempre stato fatto dall'inizio dell'invasione russa su larga scala. Sul tavolo, tra l'altro, anche le migrazioni (per ora nelle conclusioni si legge che il Consiglio Europeo "ha tenuto una discussione strategica sulle migrazioni"), la sicurezza e la difesa, gli attacchi ibridi, l'agenda strategica dell'Ue.
I leader parleranno anche della guerra in Medio Oriente, altro tema divisivo: la linea comune si basa sulla condanna totale di Hamas e sul diritto di Israele a difendersi, sulla necessità di alleviare le sofferenze della popolazione della Striscia di Gaza e sul "processo politico" necessario a superare il conflitto. Se la richiesta di un "cessate il fuoco" non raccoglie il necessario consenso, perché non poche delegazioni sono contrarie, "vedremo nella discussione" se la richiesta di "pause umanitarie" potrà evolvere verso pause più "prolungate".
Sulla durata possibile del summit, non si sa nulla di certo. Di sicuro si tratterà di almeno due giornate, dal primo mattino, e della notte tra giovedì e venerdì. L'alto funzionario Ue evoca persino il precedente summit 'monstre' del luglio 2020, in cui i leader impiegarono quattro giorni per varare l'Mff 2021-27 e il piano Next Generation Eu, in piena pandemia di Covid-19.
Esteri
Ucraina, attacco-terremoto: distrutto arsenale Russia, cosa...
Oltre 100 droni colpiscono un deposito di munizioni, armi e missili: colpo durissimo per Mosca
Un attacco paragonabile a un terremoto per cambiare la guerra. L'Ucraina sferra un colpo durissimo alla Russia, con un'offensiva che rischia di condizionare le strategie di Mosca nel conflitto. Un'ondata di oltre 100 droni lanciata da Kiev, supera il confine e arriva nell'area di Toropets, a quasi 500 km dalla capitale ucraina, e riduce in cenere uno dei principali depositi di munizioni e missili del ministero della Difesa russo.
Le esplosioni in serie producono un effetto tale da 'svegliare' i sismografi, che si attivano come se si fosse verificato un terremoto. Gli incendi si diffondono per un'area larga oltre 6 km nella regione di Tver, tra gli 11mila civili che vivono nell'area sono molti quelli chiamati ad abbandonare la propria abitazione.
Armi e missili in fumo
Andriy Kovalenko, a capo del centro per il contrasto alla disinformazione di Kiev, delinea la portata dell'azione ucraina: nei depositi, capaci di contenere armi e munizioni per centinaia di tonnellate, si trovavano missili S-300, S-400, sistemi Grad, Iskander e i Kn24 nordcoreani. Probabilmente, nelle strutture erano stoccate anche 'bombe plananti', che negli ultimi mesi hanno colpito obiettivi militari e civili.
L'arsenale colpito è una delle due strutture presenti nell'area. L'altra, già nei mesi scorsi, era stata colpita dai droni di Kiev. Il deposito di missili e munizioni era stato costruito a Toropets nel 2018 ed era stato presentato come una struttura di massima sicurezza.
I media ucraini attribuiscono i meriti ai servizi di sicurezza di Kiev, all'intelligence della Difesa e alle Forze speciali. L'attacco viene ampiamente discusso nei canali Telegram dei cosiddetti mil-blogger russi, esperti che monitorano il conflitto e spesso forniscono informazioni che non vengono ufficialmente diffuse. Il danno subito dalle forze armate russe, scrive in particolare Anastasia Kashevarova, è notevole: "Dopo 3 anni di operazione speciale siamo ancora a questo livello di idiozia".
Kiev ha usato droni o missili?
Ci si interroga sui mezzi utilizzati da Kiev: possibile che i droni siano riusciti a infliggere danni di portata così pesante? I depositi sono stati colpiti da missili a lungo raggio? Le domande si inseriscono nel dibattito di queste ultime settimane, caratterizzate dal pressing di Kiev per ottenere l'autorizzazione ad utilizzare i missili a lungo raggio - gli Atacms americani e gli Storm Shadwo anglofrancesi - contro obiettivi militari russi: basi e, appunto, depositi di armi.
La Russia, in ogni caso, continua a disporre di una macchina bellica capace di produrre ogni mese 42-56 missili balistici, 90-115 missili a lungo raggio e 500 droni, secondo le stime diffuse da Forbes.
Esteri
Libano, esplodono walkie talkie. Hezbollah promette...
Nuovo attacco con 20 morti e centinaia di feriti
Un nuovo attacco contro Hezbollah in Libano. Dopo i cercapersone esplosivi, ecco i walkie talkie e le radio: altro esplosivo nei dispositivi, altri 20 morti e circa 450 feriti. Come per l'offensiva hi-tech attuata con i pager, nessuna rivendicazione da parte di Israele: né conferme, né smentite. Hezbollah, così come Hamas e Iran, non ha dubbi sulle responsabilità.
Cosa è successo
Tra le ricostruzioni, spicca quella del canale saudita all news al-Sharq, che cita una fonte di alto profilo della sicurezza libanese: "Sono stati piazzati dal Mossad" gli esplosivi all'interno dei walkie talkie saltati in aria. Ci sarebbero state 15-20 esplosioni nei sobborghi meridionali di Beirut ed altre 15-20 esplosioni nel sud del Paese.
I walkie talkie sono nettamente meno diffusi tra i militanti di Hezbollah rispetto ai cercapersone esplosi in massa martedì. Vengono distribuiti, infatti, solo alle persone che organizzano eventi come funerali e marce. Nonostante ciò, il bilancio dell'attacco è considerevole e secondo fonti israeliane i numeri sarebbero superiori a quelli comunicati dalle autorità libanesi.
"Questi attacchi saranno certamente puniti, ci sarà una vendetta sanguinosa", dice Hashem Safieddine, capo del Consiglio esecutivo di Hezbollah, oltre che cugino del leader del gruppo, Hassan Nasrallah, che oggi dovrebbe tenere un discorso. "Condanniamo fermamente la rinnovata e continua aggressione sionista contro il fraterno popolo libanese", la posizione assunta da Hamas, con una nota nella quale si denuncia che le esplosioni degli ultimi due giorni "ora minacciano la sicurezza e la stabilità della regione".
Israele prepara la nuova fase della guerra
L'attenzione di Israele si sta spostando da Gaza verso il fronte settentrionale ed il confine con il Libano dal momento che sta iniziando una "nuova fase" della guerra, dice il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, rivolgendosi al personale dell'aeronautica militare israeliana presso la base aerea Ramat David, situata non lontano da Haifa.
"Il centro di gravità si sta spostando verso nord. Stiamo dirottando forze, risorse ed energie verso nord", dice il ministro, secondo quanto riferito dal suo ufficio. "Credo che siamo all'inizio di una nuova fase di questa guerra e dobbiamo adattarci", aggiunge Gallant, ribadendo che gli obiettivi di Israele nel nord sono "chiari e semplici: riportare gli abitanti nelle loro case in sicurezza".
I segnali vengono colti dal Libano, che si prepara a "possibili scenari" di guerra con Israele come dice il premier ad interim libanese, Najib Mikati, dopo una riunione della Commissione la gestione delle crisi e dei disastri.
A capo della Commissione, il ministro dell'Ambiente Nasser Yassin afferma che in vista di un attacco di Israele stanno approntando rifugi per la popolazione e che ci sono un centinaio di scuole a disposizione. Quanto alle scorte di cibo, secondo Yassin "sono sufficienti per oltre tre mesi e una nave con 40mila tonnellate di cereali e farina sta per arrivare in Libano".
Si muove l'Onu
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà venerdì per discutere dell'ondata di esplosioni. Lo ha indicato un portavoce della presidenza slovena del Consiglio. La riunione, richiesta dall'Algeria, è in programma alle 15 ora locale (le 9 in Italia). Intanto il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres chiede uno stop agli attacchi hi-tech. "Penso che sia molto importante che ci sia un controllo effettivo degli oggetti civili, che non vengano armati. Questa dovrebbe essere una regola che i governi di tutto il mondo dovrebbero essere in grado di attuare", dice durante una conferenza stampa a New York.
Secondo il segretario generale, "la logica di far esplodere tutti questi ordigni" sembra essere quella di "un attacco preventivo prima di una grande operazione militare”, motivo per cui questo incidente, attribuito a Israele, dimostra che esiste un "serio rischio" di escalation regionale.
Da Washington, infine, la Casa Bianca ribadisce l'estraneità degli Usa: "Non siamo stati coinvolti in alcun modo negli incidenti" in Libano, dice il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, in un briefing con i giornalisti, ribadendo: "Vogliamo che la guerra finisca, tutto quello che abbiamo fatto è destinato a impedire l'escalation del conflitto".
Esteri
Elezioni Usa, lo spettro di un altro 6 gennaio in caso di...
Forse meno violento di quello di quattro anni fa, quando migliaia di sostenitori di Trump assaltarono il Congresso, ma con un impatto ancora più allarmante sulla tenuta istituzionale
Kamala Harris continua a salire nei sondaggi, ma i democratici sono agitati dallo spettro di un altro 6 gennaio in caso di sua vittoria alle elezioni presidenziali di novembre. Forse meno violento e insurrezionale di quello di quattro anni fa, quando migliaia di sostenitori di Donald Trump assaltarono il Congresso nel tentativo di impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden. Ma potrebbe avere un impatto ancora più allarmante e dilaniante sulla tenuta istituzionale e costituzionale degli Stati Uniti, fondata sul trasferimento pacifico dei poteri.
Lo scenario da incubo per i dem
Secondo Politico, lo scenario da incubo per i democratici prevede che nonostante la vittoria di Harris alla Casa Bianca, i repubblicani mantengono la maggioranza alla Camera, dando così allo Speaker Mike Johnson la possibilità di trovare i modi di ostacolare, se non bloccare del tutto la conta dei voti elettorali, cosa che farebbe ricadere sulla Camera l'ultima parola sull'elezione presidenziale, come previsto dal 12esimo emendamento della Costituzione.
Non bisogna dimenticare che l'allora poco conosciuto deputato della Louisiana nel 2020 guidò il ricorso dei repubblicani alla Corte Suprema in cui si chiedeva di rovesciare i risultati degli stati chiave, che sancivano la vittoria di Biden.
L'iniziativa fu benedetta personalmente da Trump, che anche in virtù di questo lo scorso ottobre ha dato il placet all'elezione di Johnson a Speaker. Ed ora a meno di due mesi dal voto, il leader repubblicano sta cercando di far passare una legge per impedire quelle che definisce la manovre dei dem per far votare in massa immigrati illegali. Accuse che fanno capire come la leadership del partito repubblicano, ormai largamente allineato su posizioni Maga, in caso di nuova sconfitta del tycoon, potrà appoggiare con forza le eventuali nuove denunce di brogli da parte di Trump.
Le conferme nei sondaggi
Una posizione diffusa anche tra la base elettorale, dal momento che un sondaggio di World Justice Project, rilanciato da The Hill, mostra che il 46% degli elettori repubblicani non è pronto ad accettare i risultati elettorali come legittimi in caso di vittoria dem. E il 14% di questi si dice pronto ad intraprendere azioni per rovesciare i risultati. Va comunque sottolineato che anche un 27% di elettori democratici si dice non disposto a riconoscere una vittoria repubblicana, con un 11% pronto a passare dalle parole ai fatti.
Interpellate da Politico, fonti dell'entourage dello Speaker liquidano i timori dei democratici come parte di una strategia tesa a raccogliere più fondi per la campagna per la riconquista della Camera. E di una "narrativa allarmista" riguardo ad una vittoria Gop che ha contribuito a portare ai due tentati assassinii di Trump. Un altro repubblicano vicino a Johnson poi afferma di dubitare che lo Speaker potrebbe cedere così facilmente ai desideri di Trump.
Non bisogna dimenticare poi che, in caso di vittoria dem alla Casa Bianca, Harris, che fino al 20 gennaio continuerà ad essere vice presidente, si troverà, in qualità di presidente del Senato, a presiedere la seduta per la certificazione di voti elettorali. Come il 6 gennaio 2021 fece, una volta sgombrato il Congresso dei rivoltosi, Mike Pence, reo agli occhi di Trump e dei suoi sostenitori di non aver accolto la richiesta del presidente uscente di bloccare la certificazione.
La nuova legge sulla conta dei voti, cosa può accadere
Inoltre, nel 2022 è stata passata una nuova legge che rende più difficile bloccare la conta dei voti elettorali: se prima bastava l'opposizione di un singolo membro per accogliere un'obiezione ora è richiesto il 20% di ciascuna delle due Camere. Ma tra i timori dei democratici c'e' anche quello che Johnson possa ottenere abbastanza repubblicani per bloccare alcuni voti elettorali cruciali, o cercare di riscrivere le regole che governano la sessione per la certificazione dei voti elettorali del 6 gennaio, con l'obiettivo di rendere più facili le contestazioni.
O addirittura cercare di ritardare la seduta che per legge deve essere convocata per il 6 gennaio. Il tutto avendo bene in testa che nessun candidato riceve almeno 270 voti elettorali certificati, la Costituzione prevede quella che viene chiamata la "contingent election", una sorta di elezione di emergenza, con la Camera che elegge il presidente e il Senato il vice presidente. Un procedimento che favorirebbe i repubblicani dal momento che ogni stato deve esprimere un solo voto - quindi anche i tanti piccoli stati a guida Gop avrebbero lo stesso peso di quelli più popolosi, come California e New York, di orientamento dem - e quindi è necessaria una maggioranza di almeno 26 stati.