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Transizione, rinviato il voto sul Supply chain act: decisiva la posizione dell’Italia
Per gli industriali il provvedimento, noto anche come Csddd, genererebbe un aumento dei costi insostenibile e più inflazione
Secondo gli industriali il provvedimento, noto anche come Csddd, avrebbe generato un aumento dei costi insostenibile
È stato rinviato il voto decisivo sul Supply chain act europeo, che potrebbe imporre alle imprese un dovere di diligenza molto incisivo in ambito ambientale e sociale.
Che cosa è il Supply chain act (o Csddd)
In base a questo provvedimento, il cui voto del Consiglio Ue era previsto per oggi 9 febbraio, le aziende sopra i 40 milioni di fatturato saranno tenute a individuare, far cessare, evitare, attenuare e dar conto degli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. Uno degli aspetti più controversi del provvedimento è che quest’obbligo ricadrebbe sulle imprese in relazione alle operazioni:
- proprie dell’impresa;
- delle controllate;
- di tutte le aziende coinvolte nella catena del valore.
In sostanza, il Supply chain act, conosciuto anche come Csddd (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) prevederebbe una sorta di “responsabilità oggettiva” per queste aziende in ambito Esg.
Inoltre, si prevede che determinate grandi imprese debbano disporre di un piano per garantire che la propria strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 °C in linea con l’accordo di Parigi.
Le imprese sottolineano, poi, un altro punto controverso del provvedimento: gli amministratori sarebbero tenuti a integrare il dovere di diligenza nella strategia aziendale, istituire i relativi processi e vigilare sulla loro attuazione. In capo agli amministratori anche il dovere di considerare le possibili conseguenze delle loro decisioni sui diritti umani, sui cambiamenti climatici e sull’ambiente. Anche in questo caso, non solo per quanto riguarda strettamente la propria azienda, bensì lungo tutta la filiera e anche per contratti di fornitura già firmati e vincolanti su base pluriennale.
In cambio, dei benefici non meglio specificati dal testo del Supply chain act.
Italia in prima linea nel rinvio
A provocare lo stop sono state le perplessità delle imprese europee, che avevano lanciato l’allarme: gli obblighi di verifica lungo tutta la catena di fornitura genererebbero un aumento dei costi di approvvigionamento e monitoraggio. L’appello dell’associazione delle confindustrie europee BusinessEurope è stato accolto.
Come riporta Il Sole 24Ore, decisivo è stato il dietrofront di Germania, Austria, Finlandia e Italia, dopo l’appello lanciato dalle associazioni confindustriali nazionali e da quella continentale BusinessEurope. La richiesta di rinviare il voto sulla Supply chain act è arrivata in maniera particolarmente decisa dagli industriali di Germania e Italia. L’aumento dei costi, sottolineano, metterebbe in serie difficoltà le imprese con possibili conseguenze inflazionistiche. E quindi con le conseguenze, purtroppo ben note, sui tassi di interesse.
Confindustria aveva chiesto ufficialmente al Governo di astenersi (quindi di esprimere una posizione negativa) sulla proposta di direttiva al voto finale.
La Germania ha abbandonato la linea ecologica che ha contraddistinto il suo supporto alla Commissione von der Leyen a trazione green, condividendo la posizione italiana. Finora l’Italia era la sola in Europa con quest’orientamento, giudicato inadeguato di fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici in atto.
Come è andato il voto sulla Csddd
Il rinvio è arrivato dopo che anche la Germania, seguendo la scelta di Austria, Finlandia e Italia, ha fatto sapere che si sarebbe astenuta al momento della votazione. Giova ricordare che in questo caso l’astensione equivale a un voto negativo. Se si fosse votato oggi, quindi, la Csddd non avrebbe raggiunto la maggioranza necessaria.
Ancora una volta si instaura l’annoso dibattito tra esigenze ambientali ed esigenze economiche e gestionali delle imprese. Un dibattito analogo si è sollevato in merito alle auto elettriche. In quel caso, proprio l’improvviso stop agli incentivi decretato in Germania ha portato giù con sé il mercato europeo.
Solo ieri Consiglio e Parlamento Ue hanno raggiunto un accordo per prorogare di due anni l’entrata in vigore della Csrd (Corporate Sustainability Reporting Directive) per alcuni settori e per le aziende di Paesi terzi.
Quest’ultima direttiva dovrebbe segnare la svolta nell’ambito della trasformazione ecologica, ma adesso le imprese fanno sentire più forte la propria voce. Supply chain act e Csrd sono due facce di una stessa medaglia: la necessità di trovare un equilibrio tra produttività e sostenibilità. Un compromesso sempre più difficile e sempre più urgente.
Sostenibilità
Smog, 25 città su 98 oltre i limiti. Frosinone in testa....
I dati del report di Legambiente Mal'aria. Con i nuovi parametri al 2030 il 71% delle città sarebbe oltre la soglia consentita per il Pm10
Nel 2024, 50 centraline in 25 città su 98 hanno superato i limiti giornalieri di Pm10. In cima Frosinone (Scalo) con 70 giorni di sforamenti e Milano (Marche) con 68, seguite da Verona (Borgo Milano), 66, e Vicenza (San Felice), 64. Rispetto ai nuovi target europei previsti al 2030, situazione ancora più critica: sarebbero oltre i limiti il 71% delle città per il Pm10 e il 45% per l’NO2. È quanto emerge dal nuovo report di Legambiente 'Mal'Aria di città 2025' che l’associazione ambientalista lancia oggi, a Milano, nel giorno di avvio della sua campagna itinerante 'Città2030, come cambia la mobilità' che, fino al 18 marzo, attraverserà le città italiane per capire quanto manca alle aree urbane per avere un sistema di trasporto sostenibile, efficiente, accessibile e che renda le strade più sicure, a partire da pedoni e ciclisti.
Le 25 città oltre i limiti giornalieri
Il report Mal’Aria ha analizzato nei capoluoghi di provincia i dati relativi alle polveri sottili (Pm10) e al biossido di azoto (NO2). Nel 2024, 25 città, su 98 di cui si disponeva del dato, hanno superato i limiti di legge per il Pm10 (35 giorni all'anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo), con 50 stazioni di rilevamento, dislocate in diverse zone dello stesso centro urbano. In cima alla classifica Frosinone (Frosinone scalo) per il secondo anno di fila con 70 giorni oltre i limiti consentiti, seguita da Milano (centralina di via Marche) con 68. Nel capoluogo lombardo, anche le centraline di Senato (53), Pascal Città Studi (47) e Verziere (44) hanno superato il tetto massimo. Al terzo posto si posiziona Verona, con Borgo Milano a quota 66 sforamenti (l’altra centralina, Giarol Grande, si è fermata a 53), seguita da Vicenza-San Felice a 64. Anche altre centraline vicentine hanno superato i limiti: Ferrovieri con 49 giorni e Quartiere Italia con 45. Segue Padova, dove la centralina Arcella ha registrato 61 sforamenti e Mandria 52, mentre a Venezia via Beccaria ha toccato quota 61. Nel capoluogo veneto altre quattro centraline hanno superato i limiti: via Tagliamento con 54 giorni, Parco Bissuola con 42, Rio Novo con 40 e Sacca Fisola con 36.
Stando al report, non si sono salvate neanche le città di Cremona, Napoli, Rovigo, Brescia, Torino, Monza, Treviso, Modena, Mantova, Lodi, Pavia, Catania, Bergamo, Piacenza, Rimini, Terni, Ferrara, Asti e Ravenna. Una situazione di picco, quella dello sforamento del limite giornaliero di Pm10, che in molti casi ha riguardato molte centraline della stessa città. Un quadro, che secondo Legambiente, "rivela come l'inquinamento atmosferico sia un problema diffuso e strutturale, ben più esteso di quanto amministratori locali e cittadini vogliano ammettere".
Ma, al 2030, sarebbero 70 le città oltre la soglia prevista dalla normativa Ue
Se per le medie annuali di Pm10 e NO2 nessuna città supera i limiti previsti dalla normativa vigente, lo scenario cambierà con l’entrata in vigore della nuova Direttiva europea sulla qualità dell'aria, a partire dal 1° gennaio 2030. Per il Pm10, sarebbero infatti solo 28 su 98 le città a non superare la soglia di 20 µg/mc, che è il nuovo limite previsto. Al 2030, 70 città sarebbero oltre la soglia prevista. Tra le città più indietro, che devono ridurre le concentrazioni attuali tra il 28% e il 39%, si segnalano Verona, Cremona, Padova e Catania, Milano, Vicenza, Rovigo e Palermo. Il quadro non migliora con il biossido di azoto (NO2): oggi, il 45% dei capoluoghi (44 città su 98) non rispetta i nuovi valori di 20 µg/m3. Le situazioni più critiche si registrano a Napoli, Palermo, Milano e Como, dove è necessaria una riduzione compresa tra il 40% e il 50%.
"Con soli cinque anni davanti a noi per adeguarci ai nuovi limiti europei al 2030, dobbiamo accelerare drasticamente il passo - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - È una corsa contro il tempo che deve partire dalle città ma richiede il coinvolgimento di Regioni e governo. Servono azioni strutturali non più rimandabili: dalla mobilità, con un trasporto pubblico locale efficiente e che punti drasticamente sull’elettrico e più spazio per pedoni e ciclisti, alla riqualificazione energetica degli edifici, fino alla riduzione delle emissioni del settore agricolo e zootecnico, particolarmente critico nel bacino padano. Le misure da adottare sono chiare e le tecnologie pronte: quello che manca è il coraggio di fare scelte incisive per la salute dei cittadini e la vivibilità delle nostre città”.
"I dati del 2024 confermano che la riduzione dell’inquinamento atmosferico procede a rilento - spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente - con troppe città ancora lontane dagli obiettivi target. Le conseguenze non si limitano all’ambiente, ma coinvolgono anche la salute pubblica e l’economia. Alla luce degli standard dell'Oms, che suggeriscono valori limite molto più stringenti rispetto a quelli di legge attuali e che rappresentano il vero obiettivo per salvaguardare la salute delle persone, la situazione diventa è ancora più critica: il 97% delle città monitorate supera i limiti dell'Oms per il Pm10 e il 95% quelli per l'NO2. L'inquinamento atmosferico, infatti, è la prima causa ambientale di morte prematura in Europa, con circa 50.000 morti premature solo in Italia".
Sostenibilità
Aumenta lo spreco di cibo, buttiamo quasi 90 grammi a testa...
I dati del Rapporto 'Il caso Italia' 2025 dell’Osservatorio Waste Watcher International diffusi alla vigilia della 12esima Giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, in calendario ogni anno il 5 febbraio
Sale lo spreco alimentare nelle case degli italiani: gettiamo ogni giorno 88,2 grammi di cibo a testa (617,9 grammi settimanali vs 566,3 g di gennaio 2024) con un costo di 139,71 euro pro capite ogni anno. Sono i dati del Rapporto 'Il caso Italia' 2025 dell’Osservatorio Waste Watcher International diffusi alla vigilia della 12esima Giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, in calendario ogni anno il 5 febbraio.
In testa alla hit dello spreco la frutta fresca (24,3 grammi settimanali), seguono il pane (21,2 grammi), le verdure (20,5 grammi), l’insalata (19,4 grammi), cipolle, aglio e tuberi (17,4 grammi). Lo spreco di filiera del cibo in Italia costa complessivamente 14,101 miliardi di euro, pari a un peso di 4,513 milioni di tonnellate di cibo gettato, dai campi dove viene prodotto alle nostre tavole (e pattumiere), passando per le fasi di distribuzione e commercializzazione. Il costo del solo spreco alimentare domestico è di 8,242 miliardi di euro. Dunque, stando ai dati, il 58,55% dello spreco di filiera, in valore, si genera nelle nostre case, il 28,5% nelle fasi di commercializzazione del cibo.
Eppure, proprio mentre sprechiamo più cibo, si allontana l’accesso al cibo sano e sostenibile: l’indice Fies di insicurezza alimentare 2025 (Food Insecurity Experience Scale è uno strumento sviluppato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura delle Nazioni Unite - Fao) sale del 13,95% (era +10,27% nel 2024), in uno scenario generale in cui la povertà assoluta è aumentata in Italia dal 7,7% all’8,5% (5,7 milioni di persone nel 2023). L’insicurezza alimentare delle famiglie italiane colpisce soprattutto al Sud (+17%) e al Centro (+15%), le stesse aree dove si spreca più cibo nelle case (+16%, +4% rispetto alla media).
Obiettivo 2030: dimezzare lo spreco
"Mancano solo cinque anni al 2030 e 10 anni sono già trascorsi dall’adozione dell’Agenda di sostenibilità delle Nazioni Unite. Se ne parla spesso senza mai verificare a che punto siamo realmente - spiega Andrea Segrè, fondatore della Giornata Nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare e direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher International - Per questo nel 2025 la Giornata che sensibilizza in Italia sullo spreco alimentare lancia la sua sfida a tutti gli italiani: per arrivare nel 2030 a uno spreco pro capite di 369,7 grammi settimanali, ovvero la metà dei 737,4 grammi registrati 10 anni fa al momento dell’adozione dell’Agenda 2030, dobbiamo tutti tagliare, ogni anno dal 2025 al 2029, circa 50 grammi di cibo, così da arrivare nel 2030 a uno spreco alimentare pro capite che non superi i 369,7 grammi settimanali, il traguardo previsto dall’Agenda delle Nazioni Unite che richiedeva all’Obiettivo 12.3 di dimezzare lo spreco di cibo fra il 2015 e il 2030. Una sfida ambiziosa, nella quale possiamo cimentarci con uno strumento pratico e gratuito, lo Sprecometro, che ogni giorno misura non solo lo spreco del cibo ma anche la nostra impronta ambientale, lo spreco dell’acqua nascosta e le emissioni correlate al cibo gettato".
#Tempodiagire, #Timetoact: questo lo slogan e il filo rosso del conto alla rovescia per dimezzare lo spreco alimentare fra il 2025 e il 2030. "L'obiettivo è ambizioso - dichiara il coordinatore del Rapporto 'Il caso Italia 2025', Luca Falasconi, docente all'Università di Bologna - ma insieme possiamo fare la differenza. Ogni piccola azione conta. Cinquanta grammi di spreco in meno ogni settimana significa un quarto di mela in meno nel bidone ogni settimana, o un quarto di bicchiere di latte in meno gettato negli scarichi, o una rosetta di pane in meno nell’umido".
Gli italiani in cucina
Secondo l'analisi Waste Watcher, l'86% degli italiani dichiara di avere a cuore e prestare molta o parecchia attenzione al cibo e alla sua preparazione in cucina, anche quando il tempo scarseggia mentre il 14% ha poco tempo e quindi dedica poca o pochissima attenzione alla preparazione del cibo. Quanto alle strategie antispreco: 6 italiani su 10 (60%) prestano attenzione prima ai cibi che considerano a ridosso di scadenza o congelano i cibi che non potranno mangiare a breve. Il 56% controlla il cibo prima di buttarlo anche se è già scaduto e, se è buono, lo utilizza comunque ma solo 1 italiano su 10 (11%) dona il cibo cucinato in eccesso a parenti o amici. Al 28% la percentuale di italiani che chiede al ristorante una bag per portare a casa il cibo avanzato. Malgrado l’aumento costante degli ultimi 3 anni, gli italiani ritengono però di essere attenti alla questione spreco: il 94% dichiara che la propria famiglia è attenta o attentissima, solo il 6% si dichiara consapevole di prestare scarsa attenzione al cibo gettato. Nel dettaglio, 6 italiani su 10 (63%) dichiarano di gettare cibo al massimo 1 volta alla settimana, 1 italiano su 5 ammette di gettarlo 3 o 4 volte a settimana e il 14% confessa di sprecare cibo quasi ogni giorno.
La mappa dello spreco
La soglia media di 617,9 grammi settimanali viene superata al Sud con 713,8 grammi pro capite e nell’area del centro Italia con 640,1 grammi. Più virtuosi a Nord con uno spreco medio di 526,4 grammi per cittadino. Nei piccoli centri (fino a 30mila abitanti) si spreca il 12% di cibo in più, le famiglie senza figli sprecano il 16% di cibo in più e le fasce socialmente svantaggiate sprecano addirittura il 26% di cibo in più.
Sostenibilità
Spreco alimentare, progetto ‘Buon Fine’ di Coop...
Presidente De Bellis: "75 mln di euro di merce donata e 25 mln e mezzo di pasti garantiti"
Ogni giorno la grande distribuzione genera massicci volumi di prodotti alimentari ritirati dagli scaffali perfettamente integri e commestibili che, per scadenza ravvicinata o confezione esterna ammaccata, non possono essere riproposti alla vendita. Con il progetto ‘Buon fine’ di Coop Lombardia nel solo 2024 sono state recuperate 1.800 tonnellate di cibo, donate ad associazioni no profit che operano sul territorio, molto spesso in prossimità dei punti vendita. In occasione dell’anniversario dell’iniziativa e della Giornata Internazionale contro lo Spreco Alimentare, che ricorre il 5 febbraio, la stessa Cooperativa ha organizzato un evento speciale al Barrio’s Live a Milano.
L'iniziativa è stata, inoltre, motivo per approfondire il tema dello spreco alimentare e della cooperazione insieme a ospiti d’eccezione. In vent’anni, “il bilancio è molto positivo”, dice il presidente di Coop Lombardia, Alfredo De Bellis. Lo dicono i numeri: “oltre 75 milioni di euro di merce donata e 25 milioni e mezzo di pasti garantiti a tantissime persone - fa sapere il presidente - Da questo progetto è nata anche la consuetudine di donare, oltre a cibo in scatola, anche carne, latticini, frutta e verdura”. Un progetto dalla duplice veste, solidale e rispettoso dell’ambiente, dal quale sono nati due progetti paralleli. Uno di questi è 'Dona la spesa' “che ci consente di donare con continuità il cibo alle persone, grazie a spazi, approntati fuori dai negozi di Coop Lombardia, in cui soci e clienti possono acquistare del cibo e donarlo al progetto”, spiega il presidente di Coop Lombardia. L’altro progetto è invece 'Mangiami subito' che prevede “l’acquisto di cibo prossimo alla scadenza a prezzi fortemente scontati”, le parole di De Bellis.
Nei suoi vent’anni di vita, il progetto 'Buon fine' ha dato a Coop Lombardia la possibilità di attivare e rafforzare “rapporti con 120 tra cooperative, associazioni, realtà del mondo del volontariato e istituzioni - spiega il presidente - riuscendo ad alimentare delle reti sul territorio che consentono di attivare un meccanismo sempre più forte di inclusione sociale”. “Considero che ‘Buon fine’ sia parte integrante della food policy di Milano - dice il vicesindaco di Milano, Anna Scavuzzo - Questa capacità di creare un raccordo fra il sistema pubblico e il sistema privato si può concretizzare solo se c'è la capacità di essere quotidianamente al servizio di quelli che sono gli obiettivi più grandi. Inoltre - aggiunge- il progetto dà la possibilità di arrivare a chi magari non conosce queste iniziative. C'è una dimensione concreta nella raccolta e nella redistribuzione - conclude il vicesindaco Scavuzzo - ma c'è anche un grande valore educativo di comunicazione, di cui oggi abbiamo molto bisogno”.
Il progetto ‘Buon fine’ è partito ancor prima dell’entrata in vigore, il 14 settembre 2016, della legge n.166/16 o "legge Gadda" contro gli sprechi alimentari e farmaceutici. Una legge che ha semplificato e aggiornato il quadro normativo esistente e ne ha ampliata l'applicazione a più soggetti del Terzo Settore: “Grazie alla legge 166 antispreco è aumentata non soltanto la varietà dei beni recuperati, a partire dai freschi e freschissimi, che sono quelli a maggiore rischio spreco, ma soprattutto la varietà di possibili donatori - sottolinea Maria Chiara Gadda, Deputata e prima firmataria della Legge - Lo spreco, o meglio l'eccedenza che rischia di diventare spreco, può avvenire in tutta la filiera. Ma in questi anni è migliorato anche il rapporto tra chi può donare, dai supermercati fino al mercato rionale, passando per i grandi eventi”.
A quasi dieci anni dall’entrata in vigore, restano ancora alcuni ostacoli da superare per una più ampia applicazione della legge Gadda: “Dobbiamo lavorare di più sulla promozione e anche sull'educazione dei cittadini. Bisogna inoltre calare le opportunità della legge 166 anche in quei luoghi dove sembra impossibile recuperare. Pensiamo ai matrimoni, agli alberghi, al settore della ristorazione. La legge ha semplificato la burocrazia ma ha anche agevolato fiscalmente. Dobbiamo farne conoscere le opportunità e dotare anche il terzo settore di migliori attrezzature e di migliori strumenti per recuperare il cibo e destinarlo laddove ce n'è bisogno”, dice Gadda.
‘Buon fine’ è arrivato direttamente alle persone, restituendo loro dignità: “La forza di questo progetto è stata la sintonia di divisione - dice Rossella Miccio, presidente di Emergency - quindi non l'idea semplicemente di dare l'eccesso a qualcuno che ne aveva bisogno, ma di come farlo, perché farlo e come restituire anche, non solo alla comunità ma anche alle istituzioni, un modello che potesse funzionare e che avesse un impatto vero”, le sue parole. L’iniziativa è un circolo virtuoso che si realizza: “Vent’anni fa, il progetto ha dato subito a Caritas Ambrosiana l'idea che bisognava allearsi con un'impresa che poteva aiutarla, nel concreto, a stare vicino a tutte le persone in difficoltà”, dichiara il direttore di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti.
“Lo abbiamo fatto portando i beni che ci venivano donati da Coop Lombardia e anche attraverso il Refettorio Ambrosiano, dieci anni fa - riprende Gualzetti - Ancora oggi, in quella sede riceviamo tanti beni dalle varie Coop del circondario di Refettorio Ambrosiano e con questi aiuti, insieme ad altri, riusciamo a non spendere nulla in beni alimentari per fornire un pasto buono alle persone in difficoltà, ospiti della struttura. Tutto questo ha generato un sistema di recupero di beni materiali e soprattutto di cibo, che hanno consentito di alimentare una filiera che va dalle mense agli empori della solidarietà, fino alla somministrazione del cibo attraverso anche i pacchi viveri che i nostri 400 centri di ascolto generano nel territorio. Una collaborazione che ha prodotto tanti risultati”, dice.
Per il direttore generale della Fondazione Terre des hommes, Paolo Ferrara, ‘Buon fine’ è “Un esempio virtuoso fatto di una collaborazione che parte dal territorio, dall'ascolto dei bisogni delle persone, delle comunità. Parte dall'attenzione e dall'ascolto fra soggetti che si incontrano. Soggetti come il Comune di Milano, Coop Lombardia e il privato sociale, Come Terre des hommes, che cerca di rappresentare davvero con concretezza le richieste e i bisogni delle persone - le parole di Ferrara - Senza l’ascolto non si riescono a raggiungere risultati e soprattutto, non si riesce a dare sostenibilità al lavoro che si fa sui territori”, conclude.