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Agricoltori e imprenditori lavorano più di tutti: l’analisi in Ue e in Italia

Dai dati Eurostat del 2023, emerge una grande differenza tra i Ventisette nelle ore lavorate ogni settimana: si va dalle 39,8 ore dei greci alla media di 32,2 ore di olandesi e austriaci.

Questi godono della settimana lavorativa più breve tra tutti i Paesi Ue, seguiti dai tedeschi con 34 ore. L’Italia si allinea perfettamente con la media europea, registrando 36,1 ore settimanali. In cima alla classifica delle ore lavorate troviamo invece i greci, con 39,8 ore settimanali, seguiti dai polacchi a 39,3 ore e dai bulgari, con una media di ore lavorate per settimana pari a 39.

Prima che vi sentiate (giustamente) estraniati da questi numeri, bisogna specificare che il conteggio Eurostat tiene conto del monte ore annuale suddividendolo allo stesso per ogni settimana, quindi, include anche i giorni e le settimane non lavorate per ferie, permesso, congedi e malattia. La ricerca si concentra sull’occupazione principale degli intervistati nella fascia di età 20-64 anni

I settori dove si lavora di più

C’è un confronto che non verrà mai meno, almeno in Italia. Quel bisogno di affermare la propria operosità per cui “se tu hai lavorato tanto, io ho lavorato di più”.
Può essere utile capire quali siano i settori dove, in Europa, si lavora di più:

agricoltura, silvicoltura e pesca, con una media di 41,5 ore settimanali;
estrazione mineraria con 39,1 ore;
edilizia con 38,9 ore.

La settimana lavorativa più corta viene registrata tra i datori di lavoro con un monte ore settimanale pari a 26,7 ore lavorate. Per quanto riguarda i settori, quelli dove si lavora meno ore sono:

istruzione (31,9 ore);
attività artistiche, di intrattenimento e ricreative (33 ore).

Differenze tra i Paesi Ue

Nel 2023, il 37,1% degli occupati nell’Unione Europea ha lavorato tra le 40 e le 44,5 ore settimanali. Solo il 7,1% ha registrato meno di 20 ore settimanali nel proprio lavoro principale.
La fascia di 40-44,5 ore settimanali rappresenta la quota maggiore nella maggior parte dei Paesi, eccetto Irlanda, Finlandia, Belgio, Francia e Danimarca, dove è più frequente lavorare tra le 35 e le 39,5 ore a settimana.

Le differenze più significative sulle ore lavorate si trovano proprio nella fascia 40-44,5 che in Bulgaria riguarda l’82,2% dei lavoratori, in Romania l’80,2% e in Lettonia il 77,7% contro la media europea del 37,1%, mentre in Belgio (16,1%), Francia (13,3%) e Danimarca (10,6%) si registrano le quote più basse.

Differenze di genere

Anche l’analisi Eurostat 2023 denota il problema del gender gap lavorativo.
Mediamente, in Ue gli uomini impiegati a tempo pieno lavorano 39,8 ore settimanali, rispetto alle 37,8 ore delle donne. Disparità che poi si riversano sui salari e spesso derivano da esigenze di cura domestiche. Secondo i dati Ocse, citati da Openpolis nel terzo trimestre 2023, le donne impiegano mediamente 4,73 ore al giorno per il lavoro domestico e di cura, gli uomini solo 1,84 ore.

La forbice più ampia si riscontra in Irlanda, dove gli uomini lavorano 40,5 ore settimanali contro le 36,5 delle donne. Nei Paesi Bassi, gli uomini lavorano 38,8 ore settimanali rispetto alle 35,2 delle donne, mentre in Grecia gli uomini lavorano 42,5 ore settimanali contro le 39,3 delle donne. Secondo i numeri dell’Istituto europeo di statistica, nel 2023 in Italia gli uomini hanno lavorato mediamente 40,2 ore settimanali rispetto alle mentre le donne 37 delle donne. Forbice più stretta a Cipro, dove gli uomini lavorano 41,3 ore settimanali contro le 38,8 delle donne.

Gender gap occupazionale

Il monte ore e il part-time forzato è solo un aspetto del problema. L’altro riguarda il gender gap occupazionale in senso stretto. Secondo un’elaborazione Openpolis sui dati Eurostat pubblicata a settembre 2023, in Europa risulta occupato l’80% degli uomini contro il 69,3% delle donne. Il gender gap medio è quindi del 10,7%, ma ci sono molte differenze tra i Ventisette.

Il record negativo spetta alla Grecia con il 21% di differenza occupazionale tra uomini e donne. L’Italia segue a ruota con 19,7% che è il doppio delle media europea. Meglio del Belpaese la Romania che registra il 18,6%. Tra i Paesi più virtuosi ci sono invece quelli scandinavi e baltici: in testa Lituania (0,8%) e Finlandia (1,2%) e a seguire Estonia (2,9%) e Lettonia (3,1%).

Il gender gap in Italia

Un altro dato interessante in chiave demografica emerge dall’elaborazione Openpolis: in 22 Stati europei su 27, le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo figlio. E, soprattutto, i Paesi con le peggiori performance di natalità sono anche quelle con i minori tassi di occupazione femminile.

Una statistica che si intreccia con quella del part-time e delle dimissioni delle mamme in Italia.
Secondo i dati del report lavoro elaborato dalla Cisl a marzo 2024, il part-time riguarda il 7% degli occupati uomini, ma il 31,1% delle donne occupate. Insomma, in Italia il lavoro a tempo parziale (con tutte le sue conseguenze contributive e retributive) incide sulle donne oltre quattro volte in più rispetto agli uomini.

Con l’aggravante che anche le donne che scelgono volontariamente il part time lo fanno perché è spesso l’unico strumento di conciliazione a causa degli insufficienti servizi per la natalità e dei salari spesso troppo basi per potersi permettere una baby-sitter. l divario si allarga quando si parla di dimissioni come mostra la relazione annuale 2022 sulle dimissioni presentate entro i primi tre anni dalla nascita dei figli.

Che a licenziarsi siano soprattutto le donne neomamme lo conferma il 72,8% dei provvedimenti, pari a 44.669 dimissioni convalidate. La parte peggiore riguarda la causa: il 63% delle dimissioni rosa si basa sulla difficile conciliazione tra la cura dei figli e il lavoro, causa che tocca gli i papà solo nel 7,1% dei casi.

Altri dati del rapporto corroborano la tesi. La fascia d’età 29-44 anni occupa quasi l’80% dei destinatari delle convalide e quasi il 60% dei provvedimenti riguarda mamme e papà con un solo figlio o in attesa del primo. Le percentuali inferiori in presenza del secondo o terzo figlio dimostrano che all’aumentare del numero dei bambini peggiorano le condizioni di stabilità lavorative, ma che la sola prima maternità è sufficiente a mettere in crisi le donne che scelgono di diventare mamme.
Non è un caso che l’Italia abbia il tasso di fecondità più basso d’Europa (1,2 figli per donna), insieme a Spagna e Malta.

Chi lavora di più tra imprenditori e dipendenti?

Un dato curioso dell’indagine Eurostat 2023 riguarda le tipologie di lavoratori, intesi come dipendenti, lavoratori autonomi senza dipendenti e imprenditori con dipendenti.
La differenza di ore lavorate è molto grande:

gli imprenditori che hanno assunto dei dipendenti sono i più impegnati in assoluto e lavorano una media di 47 ore settimanali in ufficio;
poi ci sono i lavoratori autonomi senza dipendenti, che però sono molto distaccati dagli imprenditori con dipendenti e lavorano in media 40,4 ore a settimana;
i dipendenti, invece, si attestano sulle 36,6 ore settimanali.

Infine, bisogna considerare il dato secondo cui gli italiani sono tra i più stacanovisti d’Europa. Il dato, anche questo fornito dall’Eurostat sul 2023, è solo in apparenza una contraddizione. Lo studio in questione non misura la media di ore lavorate per settimane, ma quante persone facciano orari straordinari.
Il risultato è che gli italiani più stacanovisti sono i lavoratori autonomi: secondo la ricerca, quasi un autonomo su tre (29,3%) dichiara di lavorare 49 ore settimanali. Più in generale, a superare la soglia del normale orario di lavoro sono il 46% degli autonomi italiani contro il 41,7% della media dei “colleghi” europei (qui per approfondire l’indagine).

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Cagliari affronta la sfida demografica investendo nei...

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bambino piccolo che gioca, asilo nido

L’Italia sta vivendo una delle sue sfide più complesse e drammatiche: una crisi demografica che rischia di cambiare irreversibilmente il volto del paese. A tracciare un quadro impietoso della situazione ci pensa, ancora una volta, l’Istat, con un report che non lascia spazio a dubbi. Le statistiche parlano di un declino inarrestabile della popolazione giovanile, di una natalità sempre più bassa e di una crescente difficoltà per le nuove generazioni di costruirsi un futuro in un paese che sembra non più in grado di offrirgli prospettive. Eppure, in questa fotografia apparentemente senza speranza, emerge una città che, pur condividendo le difficoltà di un fenomeno nazionale, ha trovato delle risposte interessanti: Cagliari, un microcosmo che rappresenta perfettamente la doppia faccia della stessa medaglia.

I dati Istat: un paese che invecchia e perde i suoi giovani

Il report Istat 2023 non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche. L’Italia sta perdendo la sua popolazione giovanile a una velocità preoccupante, con un tasso di natalità che è sceso ai livelli più bassi di sempre, pari a 6,8 nati per ogni 1.000 abitanti. La tendenza al calo demografico è ormai un dato consolidato, che riflette un paesaggio sociale ed economico in cui le difficoltà a far fronte alle esigenze della vita quotidiana – dalla precarietà del lavoro al caro vita, dall’incertezza nel mercato immobiliare all’assenza di politiche di supporto adeguate – spingono sempre più giovani a rinunciare all’idea di formare una famiglia.

Questo scenario non riguarda solo le generazioni più giovani, ma ha implicazioni dirette sul futuro economico e sociale del Paese. L’invecchiamento della popolazione sta diventando una vera e propria emergenza, con una fascia di persone anziane in costante crescita. L’Italia è ormai un paese di “anziani”, con una media dell’età della popolazione che aumenta ogni anno, creando sfide enormi per il sistema sanitario, previdenziale e per il welfare in generale. Se un tempo l’Italia era considerata la patria della famiglia e della natalità, oggi, purtroppo, sembra un paese che fatica a mantenere la promessa di un futuro sostenibile per i più giovani.

Eppure, nonostante la situazione, ci sono segnali di speranza. Il problema, però, non riguarda solo l’invecchiamento, ma anche la progressiva perdita di un’intera generazione che non ha più voglia né di rimanere nel paese né di costruire il proprio futuro qui. La “fuga dei cervelli” è solo la punta dell’iceberg: moltissimi giovani, infatti, decidono di emigrare per cercare opportunità che in Italia, spesso, sembrano mancare.

Il paradosso di Cagliari: il calo dei giovani ma la crescita dei servizi per la prima infanzia

Eppure, in un angolo del Mediterraneo, una città sta cercando di giocare una partita completamente diversa, per quanto dentro gli stessi confini di un’Italia che appare in declino. Cagliari, il capoluogo della Sardegna, sta vivendo il dramma demografico, ma a sua volta sta cercando di rispondere alla crisi con politiche che investono nel futuro. Se da un lato la città è segnata da un calo demografico significativo, con un abbassamento della popolazione giovanile del 45,3%, dall’altro sta registrando dati positivi in un settore che si ritiene cruciale per invertire la rotta: quello dell’educazione della prima infanzia.

Il dato che emerge dal report Istat per l’anno educativo 2022/2023 è sorprendente: Cagliari si colloca al quinto posto nella classifica nazionale delle città con il più alto incremento di posti per la prima infanzia, con un tasso di crescita che raggiunge il 40,5%. Non è un caso che la città sarda, pur risentendo della crisi che sta colpendo la popolazione giovanile, stia dando segnali di speranza proprio su questo fronte. La crescita di servizi privati, combinata con l’attenzione alle politiche pubbliche a favore della genitorialità, ha permesso alla città di non soccombere alla triste realtà di una natalità in caduta libera. Anzi, sembra che Cagliari stia cercando di fare del suo meglio per incentivare la presenza delle famiglie, creando un ambiente che favorisca la crescita dei bambini e l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo educativo.

Non solo la quantità di posti disponibili per i bambini è aumentata, ma anche la qualità del servizio sta vivendo un rafforzamento che non passa inosservato. La città ha saputo integrare politiche pubbliche e interventi privati in modo strategico, creando una rete di supporto che garantisce alle famiglie la possibilità di scegliere servizi educativi di alto livello. Il settore privato, in particolare, ha giocato un ruolo fondamentale nell’ampliare l’offerta, mentre l’amministrazione comunale ha collaborato per garantire che tali servizi fossero accessibili e di qualità.

Questo segnale di rinascita, per quanto circoscritto a un settore specifico, è emblema di come una città possa decidere di agire in un momento di crisi, puntando su un asset fondamentale: i bambini, i cittadini del domani. Un investimento che non solo porta risultati a breve termine, ma getta le basi per una crescita futura che, purtroppo, è ancora lontana dalla media nazionale. La qualità dei servizi per la prima infanzia, in questo senso, rappresenta una vera e propria speranza per Cagliari, ma anche per tutte le città italiane che vogliono tornare a investire sul futuro.

Politiche locali per contrastare la crisi demografica

La capacità di Cagliari di reagire alla crisi demografica, puntando su un settore cruciale come quello della prima infanzia, non è solo una risposta alle difficoltà immediate, ma un segno di come la città stia cercando di “riprendersi” dalle difficoltà. Questo modello potrebbe rappresentare una valida alternativa per altre realtà locali italiane, che purtroppo, nonostante la gravità della situazione, non hanno ancora intrapreso azioni concrete per invertire la rotta.

Le politiche locali di Cagliari si concentrano su due aspetti fondamentali: da un lato, l’aumento della qualità e della quantità dei servizi per l’infanzia, e dall’altro, l’attenzione alla famiglia come cellula fondamentale della società. Solo con politiche mirate, che incentivano la crescita demografica e l’immigrazione di famiglie, si può contrastare il fenomeno di un’Italia che invecchia e perde i suoi giovani. Cagliari non si limita a osservare il declino della propria popolazione, ma sta tentando di costruire un futuro migliore, uno che si costruisca con le generazioni più giovani.

Il caso di Cagliari dimostra che, seppur in una situazione di crisi, è possibile intraprendere azioni efficaci per contrastare la perdita della natalità e incentivare la presenza di famiglie giovani nel territorio. Se una città come Cagliari, pur risentendo della crisi generale, riesce a rispondere con politiche pubbliche coraggiose ed efficaci, non c’è motivo per cui altre città non possano fare lo stesso. L’Italia deve affrontare con determinazione la sua crisi demografica, ma non solo con piani economici e welfare, ma anche con politiche che pongano al centro le nuove generazioni.

Il futuro del paese non può essere affidato al destino. Cagliari, pur con tutte le difficoltà, ci insegna che ci sono ancora possibilità di riprendersi e di guardare al futuro con speranza. Investire nella prima infanzia, aumentare i servizi educativi, sostenere le famiglie e incoraggiare la crescita della natalità sono azioni che non solo possono invertire il declino demografico, ma possono anche stimolare una rinascita culturale ed economica che l’Italia ha tanto bisogno di affrontare.

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Forse Gesù non è nato il 25 dicembre (e il prossimo anno...

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Presepe Natale Canva

Ormai è tutto pronto, il popolo cristiano si prepara a festeggiare il Natale numero 2025. O forse, no. Ci sono infatti molte discrepanze sulla vera data di nascita di Gesù Cristo e anche sull’anno. Capiamo come siamo arrivati fin qui, perché festeggiamo il Natale il 25 dicembre e perché questa data non accomuna tutti i cristiani.

Natale: tra storia, simbolismo e realtà storica della nascita di Gesù

La nascita di Gesù è uno degli eventi più emblematici e simbolici della cultura cristiana. Tuttavia, la precisa collocazione temporale del Natale – il 25 dicembre – così come l’anno di nascita, continua a essere oggetto di dibattito tra storici, teologi e scienziati. Un’analisi accurata permette di comprendere come tradizioni religiose, errori di calcolo e strategie culturali abbiano determinato le celebrazioni natalizie odierne.

L’anno di nascita di Gesù: errore o calcolo strategico?

Nel VI secolo, Dionigi il Piccolo tentò di stabilire una cronologia universale per calcolare la data della Pasqua. Secondo lui, Gesù sarebbe nato nell’anno 754 dalla fondazione di Roma. Tuttavia, gli studi moderni dimostrano che Dionigi commise un errore: secondo documenti storici e archeologici, Gesù nacque con ogni probabilità tra il 7 e il 4 a.C., prima della morte di Erode il Grande, avvenuta nel 4 a.C.

Questa discrepanza temporale si spiega non solo con le difficoltà tecniche di calcolo, ma anche con l’assenza di documenti storici coevi che forniscano un riferimento preciso. Inoltre, le cronache evangeliche di Matteo e Luca, pur essendo i principali testi che descrivono la Natività, si concentrano più sugli elementi simbolici e teologici che su una datazione storica accurata.

Bisogna poi considerare che il nostro calendario parte dall’assunto che l’anno di nascita di Gesù sia stato l’1 avanti Cristo, e che non esista quindi un anno Zero.

Perché Natale si festeggia il 25 dicembre

Anche la scelta del 25 dicembre come giorno della Natività non ha basi storiche certe. La data appare ufficialmente per la prima volta nel 336 d.C., durante il regno di Costantino. L’imperatore, sostenitore della diffusione del cristianesimo, scelse probabilmente questa data per sovrapporre la celebrazione cristiana alle festività pagane già consolidate.

Una di queste era il Sol Invictus (“Sole Imbattuto”), celebrato come simbolo di rinascita durante il solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi. Questo parallelismo con la “luce” rendeva la data particolarmente significativa: Gesù, “luce del mondo”, portava un messaggio di speranza e rinnovamento all’umanità.

Un’altra teoria collega il 25 dicembre al 25 marzo, tradizionalmente considerato giorno della creazione del mondo e della concezione di Gesù. Nove mesi dopo, sarebbe nato il Salvatore, fissando così la celebrazione natalizia.

Per secoli i primi cristiani proposero varie date per celebrare il Natale, tra cui il 18 novembre, il 28 marzo e il 20 maggio. Il 25 dicembre è stato infine scelto non perché i cristiani del IV secolo pensassero che fosse nato in quel giorno, ma perché, temendo un ritorno del paganesimo, scelsero di fare proprie le feste pagane che si celebravano già nell’Impero romano alla fine di dicembre (i Saturnali e la festa del cosiddetto Sole Invitto).

Tra l’altro, non si sa con esattezza da quanto tempo i cristiani festeggino il Natale, ma è almeno dal 336 d.C., come si ricava da Cronografo del 354, una sorta di calendario che è il primo documento a contenere un riferimento al Natale.

La nascita secondo gli evangelisti

Nei Vangeli, l’indicazione temporale della nascita è più vaga. Matteo collega l’evento al regno di Erode e alla visita dei Magi, mentre Luca menziona un censimento ordinato da Quirinio, governatore della Siria. Tuttavia, il censimento cui fa riferimento Luca sarebbe avvenuto circa dieci anni dopo la morte di Erode, creando una contraddizione cronologica che complica ulteriormente la ricostruzione storica.

Elementi naturali, come la famosa “stella di Betlemme”, hanno anch’essi alimentato ipotesi storiche e astronomiche. Alcuni studiosi identificano la stella con eventi celesti specifici, come la congiunzione di Giove e Saturno avvenuta nel 7 a.C., suggerendo che Gesù possa essere nato in quel periodo. Poche certezze, se non quella che nessun evangelista ha fissato la nascita di Gesù al 25 dicembre.

L’evoluzione della festa natalizia

Con il passare dei secoli, il Natale si è radicato nelle tradizioni cristiane, andando oltre il suo significato storico per assumere un valore simbolico e comunitario. Il messaggio di Gesù come portatore di luce e speranza si è intrecciato con riti popolari, come i presepi e i canti natalizi, che celebrano la famiglia, la solidarietà e la pace.

Il dibattito sull’anno e sulla data di nascita di Gesù non toglie nulla alla centralità culturale della sua figura. Se da un lato evidenzia limiti nella cronologia tradizionale, dall’altro mette in risalto come la Natività sia un evento che trascende la storia per parlare al cuore dell’umanità, unendo tradizioni spirituali e culturali.

Il Natale, indipendentemente dalla precisione cronologica, continua a rappresentare un’occasione per riflettere su valori universali, in un periodo dell’anno in cui, simbolicamente, la luce inizia a vincere sulle tenebre.

Natale nel resto del mondo

In molti Paesi del mondo il Natale si festeggia invece il 7 gennaio. Cristiani ortodossi (orientali) e ortodossi e cristiani cattolici e protestanti (occidentali) celebrano il Natale in giorni diversi a causa del calendario. I cattolici e i protestanti usano quello gregoriano, mentre i cristiani ortodossi utilizzano il calendario liturgico che è indipendente da quello civile ed è basato sull’antico calendario giuliano.

La fine del Cinquecento segnò un momento cruciale quando papa Gregorio XIII introdusse il nuovo calendario. La riforma, apparentemente tecnica, divenne immediatamente specchio delle fratture religiose che attraversavano il continente. I territori cattolici – dalla Francia all’Italia, dalla Spagna alla Polonia – adottarono rapidamente il calendario gregoriano. I Paesi protestanti, inizialmente resistenti, si allinearono solo nel corso del XVIII secolo, quando le tensioni confessionali si erano ormai attenuate e le necessità pratiche prevalevano sulle divisioni ideologiche.

La persistenza della tradizione ortodossa

Il mondo ortodosso, forte di circa 260 milioni di fedeli, scelse una strada diversa. La decisione di mantenere il calendario giuliano andava oltre la semplice resistenza al cambiamento: rappresentava un’affermazione di autonomia spirituale e culturale. Questa scelta ha portato alla caratteristica celebrazione del Natale il 7 gennaio, tredici giorni dopo la data gregoriana.

Differenze tra i Paesi nel mondo contemporaneo

Nel panorama contemporaneo, emergono interessanti dinamiche di adattamento. La Grecia, pur mantenendo la fede ortodossa, ha allineato le proprie celebrazioni al calendario gregoriano. La Moldavia nel 2013 e l’Ucraina nel 2017 hanno optato per una soluzione innovativa, riconoscendo entrambe le date come festive.

La situazione ucraina merita particolare attenzione. Il conflitto con la Russia ha accelerato un processo di ridefinizione identitaria che si riflette anche nelle pratiche religiose. Nel 2022, dopo l’inizio dell’invasione russa, la chiesa ucraina ha deciso di celebrare il Natale il 25 dicembre per allontanarsi dalle tradizioni russe. È stato un caso isolato, gli ucraini sono tornati a festeggiate il Natale nel giorno del 7 gennaio.

La chiesa armena offre una prospettiva unica, celebrando sia il Natale che l’Epifania il 6 gennaio. Questa particolarità non deriva dalle dispute sul calendario, ma affonda le radici nell’antichità cristiana, quando diverse date venivano utilizzate per celebrare la nascita di Cristo. L’isolamento geografico dell’Armenia dall’impero romano ha permesso la conservazione di questa tradizione originaria.

Ancora diversa la situazione di Gerusalemme. Nella “Città Santa”, le celebrazioni si susseguono in un questa sequenza:

– Hanukkah, la festa delle luci ebraica (fine novembre-dicembre)

– Il Natale cristiano occidentale (25 dicembre)

– Il Natale ortodosso (7 gennaio)

– Il Natale della comunità armena locale (19 gennaio)

Questa sovrapposizione di date e tradizioni non rappresenta una confusione liturgica, ma piuttosto una straordinaria testimonianza della ricchezza culturale del luogo. Spesso, però, la diversità diventa causa di scontro e di guerre come quella in corso a Gaza. Anche in questo caso, sarebbe un comportamento cristiano andare oltre le dispute e concentrarsi sul vero significato del Natale.

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“L’uomo al lavoro, la donna a casa”, la triste realtà degli...

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Stereotipi di genere - Canva

Stereotipi di genere, ruoli rigidamente definiti e un divario che pare difficile da colmare: questa è la fotografia che emerge dal recente Eurobarometro che ha esplorato le percezioni dei cittadini europei sulla parità di genere. Seppur si parli incessantemente di parità, di opportunità per tutti e di un futuro in cui le differenze di genere siano solo un ricordo, i dati raccolti dall’Eurobarometro raccontano una realtà che fatica a evolversi. I risultati, pubblicati a dicembre 2024, mostrano come molte concezioni, lontane dalla moderna visione di uguaglianza, siano ancora ben radicate nelle menti degli europei. “L’uomo al lavoro, la donna a casa”: una narrazione che, nonostante il progresso, sembra ancora troppo comune in molte società, anche quelle che si considerano avanzate. Eppure, l’Europa sta cercando di fare un passo in avanti, ma quanto davvero è riuscita a cambiare?

Un’Europa divisa tra progresso e tradizione

Il rapporto dell’Eurobarometro rivela che, in generale, i cittadini europei sono favorevoli all’uguaglianza di genere e riconoscono che entrambi i sessi trarrebbero beneficio da una parità effettiva. La percentuale di chi ritiene che anche gli uomini possano beneficiare dell’uguaglianza di genere è alta, con il 75% degli intervistati a confermare che la parità porta vantaggi anche a loro. Eppure, nonostante questa visione ottimistica a livello teorico, i dati di fatto sono ancora spesso sconfortanti.

Quando si analizzano i vari settori, emergono differenze notevoli. Ad esempio, la convinzione che una donna non abbia le stesse opportunità di carriera di un uomo è ancora diffusa. Ben il 40% degli europei ritiene che gli uomini guadagnino di più delle donne a causa di lavori più impegnativi, mentre circa il 34% pensa che le donne debbano dare priorità alla famiglia rispetto alla carriera. Questo divario non è uniforme in tutta l’Unione Europea, con alcuni Stati membri, in particolare nell’Est, dove tali stereotipi sono radicati in modo più marcato.

L’Italia, in particolare, si distingue come uno dei paesi dove la concezione tradizionale del “ruolo della donna” in casa sembra essere ancora ben presente. Seppur con alcune differenze regionali, il 53% degli italiani intervistati concorda sul fatto che gli uomini siano “naturalmente” meno competenti delle donne nelle faccende domestiche, un dato che riflette un pregiudizio che trova difficoltà a svanire. Allo stesso tempo, la percezione che una donna che lavora a tempo pieno possa sacrificare la sua vita familiare trova una grande eco: ben il 51% degli europei considera che la vita familiare ne risenta, con un dato che diventa ancora più alto in alcuni paesi come Malta e Slovacchia.

Il nodo della politica e della leadership

Uno dei settori dove i pregiudizi di genere sono particolarmente evidenti è la politica. La percezione che gli uomini siano più ambiziosi delle donne è condivisa dal 47% dei rispondenti, eppure più della metà degli europei ritiene necessario introdurre misure temporanee come le quote per correggere la sottorappresentazione femminile. Si tratta di una contraddizione interessante: da un lato, molti riconoscono che la presenza delle donne nella politica è insufficiente, dall’altro non è ancora diffusa l’idea che questa carenza dipenda da una discriminazione sistematica.

Il discorso sulla leadership segue una logica simile. Se da una parte la maggior parte degli europei rifiuta l’idea che gli uomini siano intrinsecamente migliori leader delle donne, con una percentuale che supera il 70%, dall’altra parte c’è ancora una fetta di opinione che ritiene che le donne non siano abbastanza autoritarie per essere prese sul serio in posizioni di leadership. Un 23% degli intervistati, infatti, considera che le donne in posizioni di comando non abbiano l’autorità necessaria. Una visione che riflette un’idea obsoleta, che ancora oggi limita le donne a ruoli secondari, come quello di “collaboratrice” o “sostituta”.

Stereotipi nella vita quotidiana: un retaggio difficile da scardinare

Se in politica e nel mondo del lavoro si sono fatti dei progressi, la vita quotidiana appare ancora come il regno incontrastato dei vecchi stereotipi. Per esempio, il 62% degli intervistati ritiene che le donne siano più inclini degli uomini a prendere decisioni basate sulle emozioni, un dato che, pur essendo in calo rispetto al passato, è comunque un riflesso di un’immagine della donna come figura più istintiva e meno razionale. Inoltre, circa il 38% degli intervistati pensa che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia, il che evidenzia la difficoltà di allontanarsi dai tradizionali schemi di genere. A livello italiano, questo dato appare particolarmente forte, con il 51% che continua a credere che la vita familiare soffra quando una madre lavora a tempo pieno.

Ma non è solo una questione di “donna a casa”. Ancora una volta, la famiglia diventa il luogo in cui i ruoli di genere sono più marcati, e dove le donne sono “destinate” a sacrificarsi. Se il 51% degli europei pensa che la madre debba rinunciare alla carriera per prendersi cura dei figli se il padre guadagna meno, in alcuni paesi, come la Polonia o l’Ungheria, questo dato supera il 60%, confermando una concezione patriarcale e retrograda che è ancora forte in molte parti del continente.

Verso un’Europa più uguale, ma a che prezzo?

Nonostante il quadro piuttosto conservatore che emerge da questi dati, ci sono segnali positivi. Molti cittadini europei, infatti, considerano la parità di genere come un valore fondamentale, e quasi il 90% degli intervistati concorda sull’importanza dell’indipendenza economica per uomini e donne. Questo rappresenta un elemento di speranza e di cambiamento, ma la strada è ancora lunga. Mentre la resistenza ai cambiamenti culturali è forte, l’impegno politico e istituzionale a livello europeo sembra non vacillare. Le parole di Hadja Lahbib, commissaria europea per l’Uguaglianza, esprimono una determinazione che è necessaria per affrontare il lungo percorso che ci separa da una parità concreta, non solo legislativa, ma anche sociale e culturale: “Gli stereotipi di genere riguardano tutti noi, ma è ingiusto che questi pregiudizi continuino a incidere sulla vita professionale e personale dei nostri concittadini. Il sondaggio mostra quanta strada abbiamo fatto e quanta strada dobbiamo ancora percorrere. Disponiamo di strumenti per attuare questo cambiamento, come la nostra direttiva sull’equilibrio di genere nei Consigli di amministrazione”.

Sebbene il cammino verso l’uguaglianza di genere sia ancora lungo e irto di ostacoli, i dati dell’Eurobarometro ci invitano a riflettere sulla distanza tra ciò che idealmente dovrebbe essere e ciò che realmente è. Se da un lato la parità tra uomini e donne è ampiamente riconosciuta come un obiettivo positivo, dall’altro lato persistono stereotipi radicati che condizionano ancora profondamente la vita quotidiana, il lavoro e la politica. La vera sfida, oggi, non è tanto introdurre leggi per garantire i diritti, quanto cambiare la mentalità collettiva che ancora considera naturale il modello tradizionale dei ruoli di genere.

L’Europa ha fatto dei passi importanti, ma la strada per l’uguaglianza è ancora lastricata di pregiudizi, tradizioni e convinzioni che devono essere abbattuti. La domanda che dobbiamo porci è: siamo pronti a rompere davvero con il passato e a costruire una società dove uomini e donne possano essere finalmente liberi dai vecchi stereotipi?

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Si avvicina l’ultima estrazione della lotteria degli scontrini del 2024, quella del 27 dicembre. Come controllare i biglietti vincenti? Manca...

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