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Nonostante i 34 miliardi di euro spesi, il Reddito di cittadinanza (Rdc) ha permesso soltanto a 2 famiglie povere su 10 di fuoriuscire dalla condizione di povertà e tra quelle in povertà assoluta, lo hanno utilizzato meno di 4 su 10.

È laconica la relazione per la valutazione del Reddito di cittadinanza pubblicata dal Ministero del Lavoro, che ha studiato anche gli effetti della Pensione di cittadinanza (Pdc). Mentre molte famiglie povere hanno beneficiato della misura, in alcune zone della penisola i percettori del Reddito sono stati di più dei poveri.

L’analisi conferma la critica più decisa mossa allo strumento: il ricorso agli incentivi sulle assunzioni è stato estremamente scarso, riguardando meno di 2mila lavoratori.
Rdc e Pdc sono stati operativi da aprile 2019 a dicembre 2023 e sono stati percepiti (alternativamente) per almeno una mensilità da circa 2,4 milioni di famiglie corrispondenti a 5,3 milioni di persone (dati Istat). Spesso, però, non cambiando la situazione di chi ne aveva davvero bisogno.

Come l’Rdc ha inciso sulla povertà

La portata dell’Rdc non è stata costante negli anni, pur restando sempre al di sotto delle aspettative. Tra le famiglie in povertà assoluta hanno percepito il Reddito di cittadinanza:

Il 34,5% nel 2020;
il 38% nel 2021;
il 32,3% nel 2022.

La relazione segnala un andamento anomalo dal punto di vista territoriale. Nel 2022, nel Nord-Ovest del Paese il 21,5% delle famiglie era in povertà, ma hanno percepito l’Rdc solo il 12,9% delle famiglie. Analoga situazione nella sponda orientale del Settentrione dove ne ha beneficiato solo il 7,5% anche se le famiglie povere erano il 16,8% del totale.

Situazione opposta nel Sud e nelle Isole dove, nonostante la maggiore concentrazione di famiglie in povertà economica, le persone che hanno percepito l’Rdc sono state di più di quelle povere.
Nel Meridione, si registravano il 31,9% di famiglie povere, ma i percettori di Rdc erano il 41,7% del totale, mentre nelle isole le famiglie ne hanno beneficiato il 24,6% delle famiglie, nonostante “solo” il 14,6% fosse in povertà.

Il risultato è netto e poco virtuoso: milioni di famiglie e persone in povertà non hanno percepito il Reddito mentre oltre il 40% di chi ne ha beneficiato non era in situazione di povertà.

Perché l’Rdc non ha aiutato molte famiglie povere?

Secondo la relazione del Ministero del Lavoro sull’Rdc, il (quantomeno parziale) fallimento del Reddito di cittadinanza ha due matrici: una “culturale”, su cui pesano le scelte dei soliti “furbetti” e una tecnica, che nasce dal metodo di calcolo con cui viene attribuita la misura.

Sotto il primo aspetto, secondo gli autori della relazione è plausibile che ci sia stata una propensione a frammentare il nucleo familiare e a far ricorso a residenze fittizie per accedere ai sussidi pur non essendo davvero poveri. Per l’Istat rileva la famiglia di fatto, che tiene conto anche delle famiglie separate all’anagrafe, ma “unite” de facto. Nella pratica, però, è molto difficile far venire fuori questo disallineamento per cui molti nuclei unifamiliari costituiti ad hoc hanno percepito l’Rdc pur non essendo povere.

C’è poi un discorso tecnico: i requisiti per definire chi sia in povertà e chi abbia diritto a percepire l’Rdc sono solo parzialmente sovrapponibili.

Mentre per determinare l’ammissibilità al Reddito di cittadinanza veniva utilizzato l’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), per stabilire se un nucleo rientri o meno nella soglia di povertà, il calcolo dell’Istat si basa sui redditi e sulle spese necessarie per garantire una vita dignitosa, adeguandosi alle differenze geografiche nel costo della vita.

Nel dettaglio, l’Isee include tutti i redditi imponibili, come stipendi, pensioni e rendite, oltre ad alcuni redditi esenti come gli assegni familiari e considera il patrimonio mobiliare (conti bancari, azioni, ecc.), e immobiliare, ovvero il valore catastale delle proprietà immobiliari, con alcune esenzioni per la prima casa.

Per valutare la povertà, invece, vengono considerate tutte le spese necessarie per una vita dignitosa, comprese quelle per cibo, abbigliamento, abitazione, energia, trasporti e altre necessità. La soglia di povertà viene definita in base al paniere di beni e servizi necessari per soddisfare i bisogni essenziali, e varia a seconda del numero di membri della famiglia e della località geografica, perché il costo della vita può variare significativamente. Quindi mentre l’Isee è un indicatore statico basato su dati economici presenti e passati, che non tiene conto delle variazioni nel costo della vita a livello locale, l’approccio dell’Istat per misurare la povertà è dinamico e si basa su quanto una famiglia deve spendere per vivere dignitosamente nel presente, considerando le differenze geografiche nel costo della vita.

Esempio pratico

Immaginiamo una famiglia di quattro persone. Per il Rdc, questa famiglia potrebbe avere un reddito complessivo di 12.000 euro annui e possedere una casa del valore di 100.000 euro. Se l’ISEE è sotto una certa soglia, la famiglia potrebbe essere idonea per il Rdc. Tuttavia, la stessa famiglia potrebbe essere considerata povera se le sue spese mensili per cibo, affitto, bollette e altre necessità di base superano il reddito disponibile. In una grande città dove il costo della vita è alto, questa famiglia potrebbe non riuscire a coprire tutte le spese essenziali, risultando quindi classificata come povera secondo l’Istat.

CLICCA QUI PER APPROFONDIRE: Come si misura la povertà in Italia.

Le conclusioni della relazione sull’Rdc

Da quando ha annunciato di voler eliminare il Reddito di cittadinanza, oggi rimpiazzato dal diverso Assegno di inclusione, Giuseppe Conte e i sostenitori della misura hanno accusato il governo Meloni di aver rimesso in povertà milioni di italiani.

Stando alla relazione del Ministero, l’Rdc ha permesso di uscire dalla condizione di povertà o di non ricadervi a 404mila famiglie nel 2020, a 484mila famiglie nel 2021 e a 454mila famiglie nel 2022.
Si tratta rispettivamente del 16,6%, del 19,3% e del 17,1% delle famiglie stimate in povertà assoluta.

Bisogna poi considerare un grande flagello del sistema italiano che getta ombre sui risultati effettivi della misura. Infatti, come emerge dalla relazione, tra i percettori del Reddito di cittadinanza la presenza del lavoro irregolare è molto più frequente della media nazionale: più di un occupato irregolare su 8 appartiene a nuclei beneficiari di Rdc, per un tasso di irregolarità tre volte superiore a quello calcolato sui non beneficiari: 26,2% rispetto all’8,3% nell’anno 2019 con il piccol al Sud, dove si raggiunge il 30,1% dei lavoratori.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Dal trattamento dell’obesità a quello della fertilità, il...

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gravidanza pancioni

I nuovi farmaci agonisti del recettore del GLP-1 (GLP-1RA) stanno rivoluzionando il trattamento di diabete e obesità. Oltre ai benefici metabolici, recenti segnalazioni hanno evidenziato un curioso effetto collaterale: un aumento del tasso di concepimenti tra le donne in terapia, tanto che sui social media i neonati concepiti durante l’assunzione di questi farmaci sono stati soprannominati “baby Ozempic”. Secondo la Società Italiana di Diabetologia (SID), queste molecole agiscono su un ormone umano naturale, il peptide simile al glucagone 1 (GLP-1), che regola l’appetito e i livelli di zucchero nel sangue.

Peso, fertilità e sistema riproduttivo

Le terapie a base di GLP-1RA (come liraglutide, dulaglutide, semaglutide e tirzepatide) potrebbero influenzare la fertilità in modo indiretto attraverso la perdita di peso o, in alcuni casi, tramite un’azione diretta sul sistema riproduttivo. Gli esperti della SID ipotizzano anche che questi farmaci possano interferire con l’assorbimento dei contraccettivi orali, riducendone l’efficacia e aumentando il rischio di gravidanze non pianificate.

La dottoressa Veronica Resi, coordinatrice del Gruppo di Studio congiunto SID – AMD Diabete e Gravidanza, sottolinea come la perdita di peso abbia effetti positivi sulla fertilità. “Una riduzione del 5% del peso corporeo migliora significativamente la probabilità di concepimento. L’elevato peso pre-gravidico è un predittore di sovrappeso e obesità nei figli, con un impatto intergenerazionale”.

Ovaio policistico e nuove opportunità terapeutiche

Tra le cause di infertilità, la sindrome dell’ovaio policistico è una delle più comuni, interessando circa il 10-12% delle donne. Questa condizione è spesso associata a elevati livelli di insulina, che alterano l’equilibrio ormonale e ostacolano l’ovulazione. Le linee guida 2023 sul trattamento della PCOS includono i farmaci GLP-1RA come opzione terapeutica.

Gli esperti sottolineano che l’uso di questi farmaci può rappresentare un valido supporto pre-concepimento, anche per le donne che ricorrono a tecniche di procreazione medicalmente assistita. Tuttavia, ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere appieno i meccanismi attraverso cui queste terapie influenzano la fertilità.

Consigli e precauzioni per la gravidanza

Gli esperti della SID raccomandano di sospendere i farmaci GLP-1RA almeno due mesi prima del concepimento o un mese nel caso della tirzepatide, in linea con le indicazioni dei produttori. Se la gravidanza è già avviata, l’interruzione immediata del trattamento è fondamentale, poiché gli effetti sui feti non sono ancora del tutto noti.

“Il trattamento dell’obesità deve essere affrontato in modo multifattoriale”, spiega la dottoressa Raffaella Buzzetti, presidente della SID. “Un piano che includa counseling nutrizionale e supporto psicologico è essenziale per prevenire il rapido recupero del peso perso dopo la sospensione dei farmaci GLP-1”. Questo aspetto è cruciale non solo per la salute materna, ma anche per il benessere del nascituro. “Numerosi studi infatti hanno sottolineato che dopo la sospensione dei trattamenti con GLP-1 si può verificare un recupero del peso, un rischio da contenere per i potenziali effetti negativi su mamma e bambino. Sono quindi necessarie discussioni aperte sul desiderio di maternità nelle pazienti in età fertile obese valutando il progetto a 3-5 anni, fertilità e contraccezione devono essere argomenti da considerare attentamente negli studi medici insieme all’informazione che un minore Bmi materno è associato ad una migliore salute dei figli”, conclude Buzzetti.

Un eccesso di peso durante la gravidanza può aumentare il rischio di complicazioni come diabete gestazionale, ipertensione e necessità di parto cesareo. Sebbene i difetti congeniti nei neonati siano meno preoccupanti, la salute metabolica della madre ha un impatto diretto sulla prole. Un indice di massa corporea (BMI) più basso è infatti associato a una migliore salute nei figli.

Le evidenze attuali aprono nuove prospettive per il trattamento combinato di obesità, diabete e fertilità. Tuttavia, la scelta terapeutica deve essere attentamente personalizzata, considerando non solo gli obiettivi di salute a breve termine, ma anche i progetti di vita delle pazienti. La discussione sul desiderio di maternità, insieme alla pianificazione di strategie contraccettive efficaci, dovrebbe diventare parte integrante della consulenza medica per le donne in età fertile.

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Nasce nella sala parto 6, riposa nel letto 6 della stanza...

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Neonato Fa Smorfie

“È un angioletto, non un diavolo. Dopo il biberon si addormenta e non ci ha mai fatto passare una notte insonne”. Una frase che lascerebbe indifferenti, se non fosse che il bambino in questione si chiama Lucifero (Lucifer). A scegliere questo nome è stata una coppia della piccola cittadina del North Yorkshire, ma alla base non c’è l’adorazione per Satana.

Perché hanno chiamato il figlio Lucifero

Stefan, 27 anni, e Jess, 25 anni, hanno scelto il nome “Lucifer” pensando al significato etimologico di “portatore di luce”, dal latino lux-lucis (luce) + ferre (portare). A ispirarli, come hanno dichiarato, è stata la celebre serie TV Netflix Lucifer, dove il protagonista, interpretato da Tom Ellis, dà vita a una versione carismatica e ironica della figura diabolica.

A rendere tutto più intrigante (o inquietante, a seconda dei punti di vista) ci ha pensato anche una coincidenza numerica curiosa: il bimbo è nato nella sala parto numero 6, prima di essere trasferito nel letto 6 della stanza 6 all’interno del reparto di Ostetricia (formando 666, ovvero il ‘numero del diavolo’). La coppia assicura di aver scelto il nome già prima di questa coincidenza: “Abbiamo deciso questo nome appena abbiamo scoperto che stavamo aspettando un bambino,” ha dichiarato Stefan.

E, come a voler sfatare ogni stereotipo negativo legato al nome, i genitori hanno descritto Lucifer come il bambino più tranquillo che si possa immaginare: “È un angioletto, non un diavolo. Dopo il biberon si addormenta e non ci ha mai fatto passare una notte insonne”.

Le critiche della comunità

L’annuncio del nome, reso pubblico nel contesto della tradizionale rassegna di fine anno sui neonati, ha suscitato una pioggia di reazioni sui social media. Molte critiche sono arrivate dalle generazioni più anziane, che hanno sollevato dubbi sull’impatto di questo nome sul futuro del bambino: “Che succederà quando andrà a scuola? Come affronterà il giudizio degli altri?”.

Non meno contestata è stata la decisione di chiamare il piccolo Gery come secondo nome, in onore dello zio defunto della madre.

La madre, rispondendo alle critiche, ha sottolineato che il Regno Unito non pone limiti sui nomi, se non per parole volgari o inappropriate: “Ci è stato suggerito di chiamarlo Romeo, visto che sua sorella si chiama Giulietta. Ma sarebbe stato molto peggio di Lucifero”.

Un precedente simbolico e il dibattito sulle scelte dei nomi

L’episodio riapre una riflessione sui diritti dei genitori nella scelta dei nomi per i propri figli e sull’equilibrio tra libertà personale e conseguenze culturali o sociali. Nel Regno Unito, a differenza di altri Paesi, non esistono regolamentazioni stringenti in materia. In Francia, ad esempio, le autorità possono intervenire se un nome viene considerato lesivo per il benessere del minore, così come in Italia.

Sarebbe legale in Italia?

In Italia, chiamare un bambino “Lucifero” sarebbe illegale. La legge italiana vieta l’assegnazione di nomi che possano arrecare pregiudizio morale o che siano ridicoli, vergognosi o offensivi. Nomi come Lucifero e Satana rientrano in questa categoria, poiché possono essere associati a connotazioni negative legate alla religione e alla cultura. Allo stesso modo, chiaramente, non si può chiamare il proprio figlio “Dio”, “Gesù” o simili.

Secondo il Decreto del Presidente della Repubblica 396/2000, i nomi devono rispettare specifiche regole per garantire la dignità del bambino. I nomi che possono causare imbarazzo o derisione sono esplicitamente vietati. Una questione simile è stata sollevata nel nostro Paese in occasione del ragazzo di origini ghanesi chiamato “Silvio Berlusconi Boahene”, in onore del Cavaliere. Se nel caso del ragazzo di origini ghanesi nato a Modena la scelta è lecita, non sarebbe stato lo stesso per “Lucifero”.

Non c’è un elenco completo dei nomi vietati, ma delle regole che stabiliscono quali sono i nomi vietati in Italia:

  • Nomi dei genitori o dei fratelli, anche se preceduti da junior, come spesso accade oltremanica;
  • Nomi ridicoli o che possano provocare senso di vergogna al figlio;
  • Nomi di personaggi storici controversi come “Benito”, “Adolf” e “Osama” (in riferimento a Mussolini, Hilter e Bin Laden);
  • Nomi “controversi” provenienti dalla letteratura come “Bestia”, “Biancaneve” o “Dracula”;
  • Nomi che incitino all’odio o alla violenza, per esempio “Satana”;
  • Nomi di oggetti o marchi commerciali: a nessuno venga mai in mente di chiamare il proprio figlio “Samsung”, “Macchina” o “Danone”!
  • Ai bambini di cittadinanza italiana non può essere dato un nome scritto con lettere di un altro alfabeto (per esempio cinese, giapponese o cirillico);

Pertanto, sebbene ci siano stati casi di battaglie legali per registrare nomi controversi, la scelta di chiamare un bambino Lucifero non sarebbe generalmente accettata dalle autorità italiane.

Intanto, la giovane coppia inglese rassicura sulla bontà delle proprie intenzioni: “Abbiamo persino contattato un prete per battezzarlo!”

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Pandoro-gate neologismo Treccani: il caso Ferragni fa storia

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Chiara Ferragni

Probabilmente Chiara Ferragni voleva solo dimenticare la storiaccia che ha segnato gli ultimi due anni, ma così non sarà. Oltre agli strascichi legali della vicenda, ci pensa la Treccani che ha inserito tra i neologismi 2024 il termine ‘pandoro-gate’, a dimostrazione di quanto lo scandalo abbia colpito l’Italia intera e sia entrato nella società come simbolo della poca chiarezza della pubblicità on line, specialmente se si intreccia con la beneficenza e il personal branding.

Il pandoro-gate, nella definizione che ne dà l’Enciclopedia, è “lo scandalo legato alla pubblicizzazione e alla vendita di una marca di pandoro”. Ma perché è stato così significativo?

Le tappe principali del pandoro-gate

La vicenda è nota e comincia nel novembre 2022. Ferragni lancia una campagna social in collaborazione con l’azienda Balocco per pubblicizzare un’edizione speciale del classico pandoro, la ‘Pink Christmas’. Un prodotto brandizzato Ferragni – quindi rosa – e venduto al triplo del dolce normale (9,37 euro invece di 3,68). La campagna suggeriva che parte del ricavato che sarebbe andata all’Ospedale Regina Margherita di Torino per sostenere le cure dei bambini affetti da Osteosarcoma e Sarcoma di Ewing, cosa che agli occhi dei consumatori giustificava il prezzo elevato.

In seguito a un’indagine portata avanti dalla giornalista Selvaggia Lucarelli, però, saltò fuori che una donazione da 50mila euro era già stata fatta all’ospedale mesi prima, quindi in modo ‘forfettario’, a prescindere dalle reali vendite del pandoro rosa. Che peraltro si sono assestate su almeno 362.577 pezzi.

Si arriva così, il 15 dicembre 2023, alla multa dell’Antitrust, che ha sanzionato sia l’azienda di Ferragni sia la Balocco S.p.a. per oltre 1 milione di euro e 420 mila euro (rispettivamente) ritenendo che la pratica commerciale messa in atto fosse ingannevole e scorretta.

Le contestazioni, prima da dell’Autorità garante delle comunicazioni (Agcom) e poi delle Procure – la competenza infine è stata assegnata a Milano – riguardavano l’uso di “una pubblicità ingannevole condivisa via social media e web” per pandoro e colomba venduti in edizioni limitate. Già, perché al dolce natalizio del 2022, si è sono poi aggiunte le ‘Uova di Pasqua Chiara Ferragni – sosteniamo i Bambini delle Fate’ (Pasqua 2021 e 2022).

Lo scorso 4 ottobre la Procura di Milano ha chiuso le indagini e accusato Chiara Ferragni e altre tre persone di truffa aggravata e pratica commerciale fatta passare per beneficenza. L’imprenditrice rischia il processo.

Il numero di persone “indotte in errore”, sottolinea la Procura, non è quantificabile, ma “l’ingiusto profitto” per la società con il marchio ‘Dolci Preziosi’ è pari a circa 5,66 milioni (nel 2021) e quasi 7,46 milioni (nel 2022) per un totale di oltre 13 milioni di euro. “Tutti conseguivano, inoltre, – si legge nel provvedimento – profitto non patrimoniale derivante dal ritorno di immagine legato alla prospettata iniziativa benefica“. Nello specifico, Chiara Ferragni avrebbe dunque ingannato i consumatori e ottenuto dalle due campagne un ingiusto profitto di circa 2,2 milioni di euro, oltre che benefici non calcolabili a livello di immagine”.

Con i consumatori il caso si è chiuso a fine dicembre con un accordo tra l’imprenditrice, il Codacons e l’Associazione Utenti Servizi Radiotelevisivi. Risarciti i consumatori che avevano acquistato il pandoro ‘Pink Christmas’ e rimborsate le spese legali sostenute da Codacons e Associazione Utenti Servizi Radiotelevisivi. Inoltre, 200mila euro verranno donati da Ferragni alle donne vittima di violenza.

L’impatto sulla società

Una delle problematiche emerse dal pandoro-gate è stata l’assenza di una regolamentazione chiara che disciplinasse le donazioni di beneficenza. La vicenda ha così portato all’adozione da parte del governo di quello che è stato chiamato ‘decreto-Ferragni’, che impone a influencer e micro-influencer regole più definite per le operazioni di questo tipo, ad esempio l’obbligo di comunicarle prima all’Antitrust.

Quanto alle donazioni, lo scandalo non sembra aver avuto grosse ripercussioni: secondo il rapporto ‘Noi doniamo 2024’ dell’Istituto Italiano della donazione, su 347 organizzazioni non profit solo il 5% ritiene che abbia influito negativamente sulla propria raccolta fondi.

Ma più in generale la storia ha aperto un vaso… di ‘Pandoro’ riguardo all’etica nella pubblicità e ai rischi del personal branding sia per le aziende sia per gli influencer: un tema sensibile e fondamentale nell’epoca dei social media, in cui i consumatori sono sempre più esposti a testimonial che sul web ‘spingono’ prodotti e servizi.

Gli influencer, per i quali la fiducia di cui godono da parte del pubblico è fondamentale, rappresentano oggi uno dei canali più potenti per fare pubblicità. Trasparenza e onestà dovrebbero essere la norma, ma non sempre è così e questo va a danno dei consumatori. Inoltre, quando la fiducia viene tradita, come nel caso del pandoro-gate, i danni reputazionali possono essere devastanti sia per i testimonial che per le aziende coinvolte. A proposito dello scandalo Ferragni, ad esempio, si è anche parlato di social-washing, ovvero del tentativo di migliorare la propria reputazione attraverso iniziative di responsabilità sociale non davvero efficaci o addirittura di facciata, il cui obiettivo è piuttosto un guadagno economico.

L’impatto su Ferragni

Il fattaccio ha avuto grosse ripercussioni sull’immagine dell’imprenditrice. A un anno dallo scoppio dello scandalo e dalla sanzione inflitta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, uno studio di Arcadia – società di comunicazione specializzata in un monitoraggio delle dinamiche online – racconta il crollo dei profili social dell’imprenditrice e di quello che all’epoca era suo marito, Fedez: un’emorragia di follower, calo delle interazioni e un engagement in forte diminuzione. Non solo un problema di ‘vanità’ per i due: numerosi brand e sponsor di lusso nel 2023 e 2024 hanno interrotto le collaborazioni con lei.

Nel dettaglio, Ferragni ha perso 1 milione di follower su Instagram e 100 mila su TikTok; Fedez: 850 mila su Instagram e zero nuove acquisizioni su TikTok. L’engagement, indicatore chiave per la credibilità degli influencer, ha subito una vera e propria disfatta: Ferragni è passata dal 3,2% all’1% su Instagram (-69%) e dal 2,7% allo 0,73% su TikTok (-73%). Fedez ha visto il suo tasso di engagement scendere allo 0,79% su Instagram e allo 0,47% su TikTok.

Il dibattito pubblico è ruotato intorno a parole chiave che indicano cosa abbia ‘bruciato’ di più gli italiani: truffa aggravata e pratica commerciale hanno dominato il discorso online. La narrativa che si è sviluppata nei mesi è stata negativa, spinta anche dall’autogol comunicativo della Ferragni che in un video si è presentata a scusarsi spettinata, vestita modestamente e struccata. Un’operazione che è stata giudicata come ipocrita e come un tentativo di voler ripulire fintamente la propria immagine: l’imprenditrice infatti annunciava anche la devoluzione di 1 milione di euro all’Ospedale Regina Margherita (‘charity-washing’).

Trasparenza ed etica della comunicazione

Come hanno affermato Codacons, Associazione Utenti dei Servizi Radiotelevisivi e Adusbef in occasione dell’accordo con l’imprenditrice, “questa vicenda rappresenta una lezione amara: quando il marketing supera i limiti della trasparenza, le conseguenze possono essere devastanti, non solo per le aziende come Balocco, ma anche per le celebrità che prestano il proprio volto e la propria immagine”.

In sostanza, la morale del pandoro-gate è che il ruolo degli influencer e delle aziende dovrebbe evolvere verso una comunicazione più responsabile. La trasparenza, l’onestà e l’impegno concreto sono diventati elementi imprescindibili: senza un adeguato equilibrio tra marketing e autenticità, il rischio di perdere credibilità è elevato, dimostrando quanto fragile possa essere una reputazione costruita sui social media. E quanto i consumatori debbano stare attenti a quello che si dice sul web.

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