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Se non dici nulla per 20 secondi non è violenza sessuale,...
Se non dici nulla per 20 secondi non è violenza sessuale, cos’è il consenso?
Devi essere svelta, a dire di no. Meno di mezzo minuto. Una sentenza della Corte d’Appello di Milano, che sta suscitando parecchie polemiche, ha assolto un uomo perché la donna ha impiegato 20 secondi per esplicitare il suo dissenso.
Protagonisti della vicenda un sindacalista della Cisl e una hostess, che lo ha accusato di violenza sessuale. I fatti: nel marzo del 2018 la donna, in un ufficio della Fit Cisl all’aeroporto di Malpensa, è stata approcciata dall’uomo. Durante i “20-30 secondi iniziati con un massaggio sulle spalle e poi con baci sul collo e palpeggiamento del seno”, come ha riferito lei stessa in aula, era rimasta in silenzio, finché l’uomo non era passato agli slip e lei aveva reagito. L’uomo va precisato, a quel punto aveva interrotto ogni contatto.
Tuttavia anche il fatto di essere di spalle è stato un ulteriore elemento di valutazione: il 47enne in tal modo “non poteva percepire eventuali espressioni di contrarietà” della controparte.
La sentenza della Corte d’Appello milanese conferma quella emessa in primo grado dal Tribunale di Busto Arsizio (Varese) che nel 2022 aveva assolto l’ex sindacalista per lo stesso motivo.
Insomma, il fatto in sé non è in discussione: entrambi i tribunali confermano che era avvenuto, peraltro testimoniato anche da alcune colleghe della hostess che avevano vissuto vicende simili con la stessa persona. Ma il punto, secondo i giudici, era che l’uomo non aveva compiuto “alcun costringimento fisico della vittima”, la quale non ha reagito per 20 secondi e che poteva andarsene dato che la porta della stanza era aperta.
Una sentenza che “porta indietro di 30 anni”
Maria Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna, a cui la hostess si era rivolta, ha dichiarato che così si torna “indietro di 30 anni”, senza contare che la giurisprudenza della Cassazione ha stabilito che qualsiasi atto sessuale compiuto senza il consenso esplicito della donna è violenza e dunque reato: “Un atto sessuale compiuto in maniera repentina, subdola, improvvisa senza il consenso della donna che lo subisce è reato di violenza sessuale e come tale va giudicato”.
Invece questa sentenza rimane attaccata a una concezione antica per la quale la violenza è tale solo in presenza di un atto di forza da parte dell’aggressore. In Italia, infatti, è considerato violento solo l’atto sessuale ottenuto “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”. Una concezione confermata dall’elevata percentuale di uomini, il 40%, che pensa che la donna possa “sottrarsi a un rapporto sessuale se non lo vuole” (indagine Istat sugli stereotipi di genere e l’immagine sociale della violenza).
Questo modo di vedere le cose stabilisce una gerarchia tra i diversi reati sessuali, e mette di fatto la vittima sul banco degli imputati: in quest’ottica, infatti, ricade sulla donna l’onore di dimostrare di essere stata costretta e, a questo punto, di aver essersi opposta platealmente e pure molto molto velocemente.
Una vittimizzazione secondaria che passa per le domande più incredibili, che negli anni hanno echeggiato nelle aule dei tribunali: “Perché non ha reagito?”; “Se aveva le gambe piegate, come ha fatto a toglierle i pantaloni?”, solo per dire le più banali.
Il concetto di consenso in Italia manca del tutto
In realtà tutto dovrebbe ruotare intorno al concetto di consenso: quando c’è, quando non c’è, la libertà di revocarlo anche se inizialmente c’era. In Italia manca una chiara definizione di cosa sia il consenso, sia a livello culturale che normativo e giurisprudenziale, e questo porta alla beffa di molte pronunce, tra cui quella di ieri.
Manente, infatti, a cui si sono unite anche le voci di altre associazioni e di parlamentari, ha ribadito la necessità di riformare il Codice Penale in modo che sia chiaramente stabilito che il reato di stupro è “qualsiasi atto sessuale compiuto senza il consenso della donna (il cui dissenso è sempre presunto) così come previsto dalla Convenzione di Istanbul”.
La legge sarebbe già un inizio ma la sentenza è anche l’occasione per un dibattitto ancora più ampio, sugli stereotipi di genere, sul sessismo, e sulla necessità di un’educazione sessuale e sentimentale ampia che cominci dalle scuole e che si ampli a tutta la società.
Non dimentichiamo che nel 2021, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le “affermazioni colpevolizzanti e veicolanti stereotipi sessisti” in una sentenza di assoluzione di uno stupro di gruppo. Il problema insomma è ampio: le sentenze in fondo ricalcano anche lo spirito dei tempi.
La paralisi da panico
C’è poi un altro aspetto che non è stato minimamente considerato in questa e altre vicende: i giudici a quanto pare non hanno mai sentito parlare della paralisi da panico. Si tratta di una reazione di animali e uomini (donne in questo caso) di fronte a pericoli imminenti, ben conosciuta dalla scienza e applicabile anche alla violenza sessuale.
È proprio la neurobiologia degli stati di paura e panico a spiegare perché molte volte le donne non reagiscano all’istante, o addirittura per niente. Non perché ‘gli piaccia’, altro stereotipo sessista, ma perché semplicemente e letteralmente sono paralizzate. Si tratta di un comportamento difensivo che impedisce di fare qualsiasi cosa finché non cessa la minaccia.
La cosa è confermata da uno studio che riporta come circa il 70% delle vittime di stupro e violenza sessuale riferiscano di aver provato una tale condizione di immobilità. Una condizione che peraltro lo studio definisce ‘comune’ e predittiva del disturbo da stress post-traumatico e della depressione grave.
Altre sentenze discutibili
La pronuncia della Corte milanese è l’ultima di molte sentenze discutibili, e su cui infatti si è discusso.
Impossibile non ricordare quella del 1999 per la quale, dato che la vittima portava i jeans, non poteva essere stata stuprata: troppo difficili da togliere senza il consenso (verdetto annullato poi in Cassazione).
Oppure quella della Corte di cassazione del 2018 per la quale se la vittima di uno stupro ha consumato consapevolmente alcol in eccesso, ai colpevoli di violenza sessuale non può essere contestata l’aggravante di aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche.
Non solo, ma anche quanto e come ti opponi conta: nel 2017 il tribunale di Torino ha assolto dall’accusa di violenza sessuale un operatore della Croce Rossa perché lei disse “basta” ma non urlò. In particolare, la donna, che poi è stata anche citata per calunnia, non avrebbe “tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona”, ovvero “non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi”.
Sempre sul filone ‘la vittima ha reagito ma non troppo’, il tribunale di Firenze nel 2023 ha assolto tre giovani perché, anche se la ragazza 18enne implorava “Smettetela, smettetela” e nonostante uno di loro, ridendo, dicesse “Questo è uno stupro”, per i giudici c’era stato da parte degli imputati un errore di valutazione del consenso.
Rimanendo invece in tema di tempo, l’anno scorso un bidello romano è stato assolto nonostante avesse palpeggiato una studentessa minorenne (anche qui non si metteva in dubbio il fatto) perché la molestia era durata solo una “manciata di secondi”, nello specifico 5-10: troppo poco per esserci stata volontà.
Ma merita di essere citata anche una pronuncia del 2021 a Benevento relativa al caso di una donna che aveva denunciato il marito per maltrattamenti e atti sessuali violenti in quanto la obbligava a concedersi, anche con una lama: per il giudice a volte un uomo “si trova a dover vincere quel minimo di resistenze che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale”.
Per non parlare infine della sentenza del 2019 della Corte d’Appello d’Ancona, secondo cui siccome la vittima era poco avvenente, i due giovani imputati andavano assolti dall’accusa di violenza sessuale. A parte la fallacia pratica di un tale assunto – certamente non subiscono molestie e violenze solo le belle donne, checché ne dicesse Berlusconi e forse una parte degli italiani – , pare un po’ labile la prova: per i giudici al principale imputato la ragazza, una 22enne, nemmeno piaceva, tanto che sul suo cellulare l’aveva registrata come ‘Vikingo’ per la sua scarsa femminilità (e giù altri stereotipi, tra l’altro).
Insomma, non solo il concetto di consenso sfugge a tutte queste sentenze, così come all’educazione e alla sensibilità di quasi tutti noi (per non parlare dell’empatia), ma anche un’altra grande verità su cui non si riflette adeguatamente: la violenza non ha a che fare con il sesso, ma con il potere.
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Il movimento ‘No Bra’, perché sempre più donne non...
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Negli ultimi anni, il movimento “No Bra” ha guadagnato sempre più popolarità e attenzione mediatica. Ma cosa significa esattamente e perché è diventato un fenomeno così rilevante nel contesto moderno di uguaglianza sociale?
Basta con il reggiseno, il movimento “No Bra”
Il termine “No Bra” (termine internazionalmente utilizzato per indicare il reggiseno) si riferisce alla scelta di non indossare il reggiseno, un capo di abbigliamento che, per decenni, è stato considerato un elemento essenziale della moda femminile. Questa tendenza, tuttavia, va ben oltre una semplice scelta di stile. È un movimento che sfida le norme sociali e culturali legate all’abbigliamento femminile e promuove l’accettazione del corpo naturale delle donne.
Le origini del movimento
Il movimento “No Bra” ha le proprie radici nei movimenti femministi degli anni ‘60 e ‘70, quando le donne cominciarono a ribellarsi contro i rigidi standard di bellezza e le aspettative della società. Un momento iconico fu la protesta del 1968 a Miss America, dove alcune femministe gettarono simbolicamente reggiseni, corsetti e altri “strumenti di tortura femminile” in un “bidone della libertà”.
Negli ultimi anni, il movimento ha ripreso vigore grazie ai social media e alla crescente attenzione verso le questioni di uguaglianza di genere. Molte donne, tra cui influencer e celebrità, hanno abbracciato e promosso il “No Bra” come una forma di espressione personale e di protesta contro le norme di genere restrittive.
Le influencer e le celebrità che promuovono il “No Bra”
Numerose influencer e celebrità hanno giocato un ruolo cruciale nel promuovere il movimento “No Bra”. Tra queste ci sono:
Kendall Jenner: la modella ha spesso sfidato le convenzioni, apparendo in pubblico senza reggiseno e parlando apertamente del suo sostegno al movimento. “È una scelta di comfort e libertà,” ha dichiarato in un’intervista;
Kim Kardashian: la nota modella e influencer, sorella di Kendall, anche lei spesso senza reggiseno;
Miley Cyrus: con il suo approccio audace alla moda e alla vita, la cantante è una delle più note sostenitrici del “No Bra”. Una scelta che Miley Cyrus ha sintetizzato in maniera chiara: “Il mio corpo, le mie regole. Non voglio conformarmi a ciò che la società pensa che dovrei essere”;
Bella Hadid: la modella ha utilizzato la sua piattaforma per normalizzare l’assenza del reggiseno, sottolineando l’importanza di sentirsi a proprio agio nel proprio corpo;
Gillian Anderson: attrice conosciuta per ruoli in serie come The X-Files e Sex Education. Nel 2022 ha dichiarato in una diretta Instagram: “Non me ne frega niente se le mie tette arrivano all’ombelico, non indosso più il reggiseno perché è troppo scomodo”;
Jennifer Aniston: nel 2020 l’attrice è apparsa senza reggiseno sul red carpet dei SAG Awards in un abito vintage Dior. Ci sono voci sul fatto che anche il suo personaggio in Friends non indossasse mai il reggiseno;
Rihanna: la cantante e imprenditrice americana è tra le più note promotrici del movimento “No Bra”;
Queste sono solo alcune delle tante celebrità che con la loro notorietà cercano di diffondere un’idea diversa e libera del corpo femminile, rifiutando di indossare il reggiseno per comodità o come affermazione di libertà e accettazione del proprio corpo. Il fenomeno è diventato sempre più popolare negli ultimi anni.
Quando nasce il reggiseno
Il reggiseno come lo conosciamo oggi è una invenzione piuttosto recente. Prima della sua introduzione, le donne utilizzavano busti e corsetti per modellare il proprio corpo secondo gli standard dell’epoca. Il primo brevetto per un reggiseno moderno fu registrato da Mary Phelps Jacob nel 1914. Da allora, il reggiseno è diventato un capo d’abbigliamento standard per le donne, spesso associato a un senso di decoro e modestia.
Tuttavia, l’uso del reggiseno non è stato sempre la norma. In molte culture e per molti secoli, le donne hanno vissuto senza alcun tipo di supporto artificiale. Il ritorno al “No Bra” può quindi essere visto anche come un ritorno a un’epoca in cui i corpi delle donne non erano così rigidamente controllati e regolamentati.
Non solo una tendenza: una richiesta di parità
Il movimento “No Bra” non è solo una moda passeggera; rappresenta una richiesta di parità e di rispetto per le scelte individuali delle donne. La pressione sociale che impone alle donne di indossare il reggiseno è vista come un simbolo di oppressione e controllo sui corpi femminili. Scegliere di non indossare il reggiseno diventa quindi un atto di ribellione contro queste pressioni.
L’attrice Emma Watson ha dichiarato: “La libertà di scelta è fondamentale. Nessuno dovrebbe sentirsi costretto a indossare qualcosa per conformarsi agli standard degli altri.”
Il reggiseno è spesso visto come uno strumento per coprire i capezzoli femminili e quindi nascondere la sessualità delle donne in una cultura che tende ad attribuire la pulsione sessuale principalmente agli uomini.
Il reggiseno oggettizza la donna
Iris Marion Young, autrice femminista, ha scritto nel 2005 che il reggiseno “serve da barriera al tocco” e che una donna senza reggiseno è “deoggettalizzata”, eliminando quello che definisce l’aspetto “duro e appuntito che la cultura fallica pone come norma”. Senza reggiseno, i seni delle donne non sono oggetti dalla forma costante ma cambiano mentre la donna si muove, riflettendo il corpo naturale.
Come ha sottolineato Young, il reggiseno viene usato anche per indottrinare le ragazze a pensare ai loro seni come oggetti sessuali.
Negli anni ’70, alcune femministe bruciarono reggiseni in segno di protesta contro la sessualizzazione del corpo femminile, con uno slogan che recitava: “Bruciate i corsetti!… No, non conservate nemmeno le stecche di balena, non ne avrete più bisogno. Fate un falò degli acciai crudeli che hanno dominato il vostro torace e addome per tanti anni e tirate un sospiro di sollievo, perché vi assicuro che da questo momento la vostra emancipazione è iniziata”.
In effetti, oggi sempre più donne, soprattutto tra la generazione dei Millennial e Gen Z, scelgono di non indossare il reggiseno, basando le proprie scelte più su ciò che vogliono loro e non sulle norme sociali che vorrebbero nascondere, controllare e mortificare la sessualità femminile.
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Molestie sul lavoro, una questione non solo femminile
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Quanto costa crescere i figli? Una questione di calcoli
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Hai presente quei momenti in cui trovi il frigo vuoto, le scarpe fuori posto e il portafoglio un po’ più leggero? Benvenuto nella realtà di cinque italiani su dieci, che convivono con i propri figli, molti dei quali maggiorenni e totalmente a carico. Un’avventura quotidiana fatta di spese impreviste e rinunce, come ci racconta il report FragilItalia ‘Il costo dei figli’, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos.
Figli maggiorenni, tra condivisione e indipendenza economica
I figli maggiorenni sono una componente vitale delle famiglie italiane, influenzando non solo la quotidianità ma anche le decisioni economiche a lungo termine. Secondo il report FragilItalia, il 47% di questi giovani adulti continua a vivere sotto lo stesso tetto dei genitori senza contribuire economicamente, mettendo in luce una realtà diffusa che riflette le sfide che molti giovani italiani devono affrontare per raggiungere l’indipendenza economica.
Il fenomeno presenta diverse sfaccettature interessanti: molti giovani, pur avendo un lavoro, preferiscono rimanere a casa per risparmiare sui costi elevati dell’affitto e delle spese di mantenimento, evidenziando le difficoltà nel trovare soluzioni abitative accessibili e il desiderio di molti genitori di garantire un ambiente sicuro e confortevole per i propri figli.
D’altro canto, il 29% dei figli maggiorenni è attivamente impiegato e contribuisce alle spese familiari, rappresentando un esempio di partecipazione economica attiva all’interno della famiglia. Questa situazione non solo allevia il carico finanziario sui genitori, ma promuove anche un senso di responsabilità e reciprocità tra i membri della famiglia, rafforzando i legami familiari e generazionali.
La persistenza di un così alto numero di figli maggiorenni a carico dei genitori solleva anche domande più ampie riguardo alle politiche abitative, all’accesso al lavoro e all’istruzione superiore in Italia, con un impatto che si estende ben oltre le singole famiglie, influenzando le politiche pubbliche e la struttura economica e sociale del paese nel suo complesso.
Spese familiari: quanto pesano i figli?
Le spese per i figli rappresentano una sorta di avventura economica per molte famiglie italiane, un mix di sorprese e costi che possono far vacillare persino il bilancio più preparato. Secondo FragilItalia, i figli assorbono in media il 34% della spesa mensile familiare. Questo dato non fa solo riflettere, ma può anche far venire voglia di fare una rapida revisione del proprio budget.
Cosa include questa “avventura” economica? Principalmente, c’è l’abbigliamento, che rappresenta una vera e propria sfida per il 63% delle famiglie. Tra abiti, scarpe, borse e accessori, la moda dei figli può tranquillamente stravolgere qualsiasi budget mensile. Poi ci sono i libri scolastici, che rappresentano il 51% delle spese a loro dedicate.
Ma non finisce qui! L’attività sportiva è un’altra voce importante, incidendo sul 48% della spesa totale. Quindi, se il tuo bambino o la tua bambina è un futuro campione olimpico, preparati a investire in palestre, attrezzature e competizioni. E poi ci sono i pasti fuori casa, un piacere che per il 46% delle famiglie italiane è un lusso da concedersi ogni tanto, ma che può facilmente diventare una voce costante del bilancio familiare.
Ma nonostante queste spese apparentemente esorbitanti, c’è sempre spazio per qualche sorriso. Ad esempio, il 17% delle famiglie riesce a gestire le spese per i figli con un budget che rappresenta solo il 10-20% del totale mensile. Sembra quasi un miracolo, vero? Eppure, questo ci ricorda che nonostante le sfide economiche, c’è sempre una soluzione se si pianifica con attenzione e si guarda con un po’ di creatività al modo di gestire le finanze familiari.
Facciamo due conti
Calcolare la spesa mensile media familiare destinata ai figli è cruciale per comprendere l’impatto finanziario che i figli hanno sul bilancio domestico. Secondo il report “Il costo dei figli”, la spesa destinata ai figli rappresenta in media il 34% della spesa media mensile familiare, la quale ipotizziamo essere di 2000 euro. Di conseguenza, la spesa mensile media per i figli ammonta a 680 euro.
Le famiglie italiane mostrano una varietà di distribuzioni nella spesa per i figli:
Famiglie che destinano tra il 21% e il 40% della spesa ai figli (51% delle famiglie):
Media: (21% + 40%) / 2 = 30.5%
Spesa media per figli: 30.5% di 2000 euro = 610 euro
Numero di famiglie: 51% di 2000 euro = 1020 euro
Famiglie che destinano tra il 40% e il 70% della spesa ai figli (32% delle famiglie):
Media: (40% + 70%) / 2 = 55%
Spesa media per figli: 55% di 2000 euro = 1100 euro
Numero di famiglie: 32% di 2000 euro = 640 euro
Famiglie che destinano tra il 10% e il 20% della spesa ai figli (17% delle famiglie):
Media: (10% + 20%) / 2 = 15%
Spesa media per figli: 15% di 2000 euro = 300 euro
Numero di famiglie: 17% di 2000 euro = 340 euro
Oltre alla percentuale della spesa, è importante considerare le voci di spesa che incidono maggiormente sul bilancio familiare. Le priorità di spesa delle famiglie italiane per i figli includono l’abbigliamento (63%), i testi e libri scolastici (51%), scarpe, borse e accessori e attività sportiva (48%), e i pasti fuori casa (46%). Inoltre, quattro su dieci famiglie (41%) affrontano anche spese per rette scolastiche, universitarie e asilo, aumentando ulteriormente il peso finanziario.
I sacrifici dei genitori e le rinunce dei figli
Le famiglie sono costrette a fare rinunce significative per sostenere queste spese, con il 66% dei genitori che rinuncia ad acquistare per sé stessi. Questo non è un gesto sporadico, ma una pratica regolare per molti, con il 31% che rinuncia spesso e il 34% occasionalmente.
Ma le rinunce non finiscono qui! Il 60% dei genitori ha dovuto dire addio alle cene al ristorante, mentre il 58% ha rimandato l’acquisto di un’auto nuova. E le vacanze? Sono diventate un lusso che il 60% delle famiglie ha dovuto limitare, con il 25% che ha addirittura accorciato i periodi di relax per far quadrare il bilancio.
Ma non è solo una via a senso unico. Anche i figli, consapevoli delle sfide economiche che la famiglia affronta, sono disposti a fare la loro parte. Il 37% di loro ha rinunciato a nuovi vestiti e scarpe di moda, dimostrando una maturità sorprendente. E cosa dire delle uscite con gli amici? Il 30% dei giovani ha dovuto ridimensionare la socialità per risparmiare, un gesto di responsabilità che parla del loro impegno nel sostenere la famiglia in tempi difficili.
Le spese familiari per i figli vanno ben oltre i numeri: sono un intricato mix di sacrifici, pianificazione e un continuo bilanciamento tra necessità e desideri, sia per genitori che per figli. Questa avventura economica è un percorso fatto di sfide e scelte oculate che influenzano non solo il presente ma anche il futuro delle famiglie italiane. È un viaggio che richiede creatività, responsabilità e un impegno costante nella gestione delle risorse, mantenendo sempre al centro il benessere e lo sviluppo dei giovani.