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Quanto costa crescere i figli? Una questione di calcoli

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Hai presente quei momenti in cui trovi il frigo vuoto, le scarpe fuori posto e il portafoglio un po’ più leggero? Benvenuto nella realtà di cinque italiani su dieci, che convivono con i propri figli, molti dei quali maggiorenni e totalmente a carico. Un’avventura quotidiana fatta di spese impreviste e rinunce, come ci racconta il report FragilItalia ‘Il costo dei figli’, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos.

Figli maggiorenni, tra condivisione e indipendenza economica

I figli maggiorenni sono una componente vitale delle famiglie italiane, influenzando non solo la quotidianità ma anche le decisioni economiche a lungo termine. Secondo il report FragilItalia, il 47% di questi giovani adulti continua a vivere sotto lo stesso tetto dei genitori senza contribuire economicamente, mettendo in luce una realtà diffusa che riflette le sfide che molti giovani italiani devono affrontare per raggiungere l’indipendenza economica.

Il fenomeno presenta diverse sfaccettature interessanti: molti giovani, pur avendo un lavoro, preferiscono rimanere a casa per risparmiare sui costi elevati dell’affitto e delle spese di mantenimento, evidenziando le difficoltà nel trovare soluzioni abitative accessibili e il desiderio di molti genitori di garantire un ambiente sicuro e confortevole per i propri figli.

D’altro canto, il 29% dei figli maggiorenni è attivamente impiegato e contribuisce alle spese familiari, rappresentando un esempio di partecipazione economica attiva all’interno della famiglia. Questa situazione non solo allevia il carico finanziario sui genitori, ma promuove anche un senso di responsabilità e reciprocità tra i membri della famiglia, rafforzando i legami familiari e generazionali.

La persistenza di un così alto numero di figli maggiorenni a carico dei genitori solleva anche domande più ampie riguardo alle politiche abitative, all’accesso al lavoro e all’istruzione superiore in Italia, con un impatto che si estende ben oltre le singole famiglie, influenzando le politiche pubbliche e la struttura economica e sociale del paese nel suo complesso.

Spese familiari: quanto pesano i figli?

Le spese per i figli rappresentano una sorta di avventura economica per molte famiglie italiane, un mix di sorprese e costi che possono far vacillare persino il bilancio più preparato. Secondo FragilItalia, i figli assorbono in media il 34% della spesa mensile familiare. Questo dato non fa solo riflettere, ma può anche far venire voglia di fare una rapida revisione del proprio budget.

Cosa include questa “avventura” economica? Principalmente, c’è l’abbigliamento, che rappresenta una vera e propria sfida per il 63% delle famiglie. Tra abiti, scarpe, borse e accessori, la moda dei figli può tranquillamente stravolgere qualsiasi budget mensile. Poi ci sono i libri scolastici, che rappresentano il 51% delle spese a loro dedicate.

Ma non finisce qui! L’attività sportiva è un’altra voce importante, incidendo sul 48% della spesa totale. Quindi, se il tuo bambino o la tua bambina è un futuro campione olimpico, preparati a investire in palestre, attrezzature e competizioni. E poi ci sono i pasti fuori casa, un piacere che per il 46% delle famiglie italiane è un lusso da concedersi ogni tanto, ma che può facilmente diventare una voce costante del bilancio familiare.

Ma nonostante queste spese apparentemente esorbitanti, c’è sempre spazio per qualche sorriso. Ad esempio, il 17% delle famiglie riesce a gestire le spese per i figli con un budget che rappresenta solo il 10-20% del totale mensile. Sembra quasi un miracolo, vero? Eppure, questo ci ricorda che nonostante le sfide economiche, c’è sempre una soluzione se si pianifica con attenzione e si guarda con un po’ di creatività al modo di gestire le finanze familiari.

Facciamo due conti

Calcolare la spesa mensile media familiare destinata ai figli è cruciale per comprendere l’impatto finanziario che i figli hanno sul bilancio domestico. Secondo il report “Il costo dei figli”, la spesa destinata ai figli rappresenta in media il 34% della spesa media mensile familiare, la quale ipotizziamo essere di 2000 euro. Di conseguenza, la spesa mensile media per i figli ammonta a 680 euro.

Le famiglie italiane mostrano una varietà di distribuzioni nella spesa per i figli:

Famiglie che destinano tra il 21% e il 40% della spesa ai figli (51% delle famiglie):

Media: (21% + 40%) / 2 = 30.5%
Spesa media per figli: 30.5% di 2000 euro = 610 euro
Numero di famiglie: 51% di 2000 euro = 1020 euro

Famiglie che destinano tra il 40% e il 70% della spesa ai figli (32% delle famiglie):

Media: (40% + 70%) / 2 = 55%
Spesa media per figli: 55% di 2000 euro = 1100 euro
Numero di famiglie: 32% di 2000 euro = 640 euro

Famiglie che destinano tra il 10% e il 20% della spesa ai figli (17% delle famiglie):

Media: (10% + 20%) / 2 = 15%
Spesa media per figli: 15% di 2000 euro = 300 euro
Numero di famiglie: 17% di 2000 euro = 340 euro

Oltre alla percentuale della spesa, è importante considerare le voci di spesa che incidono maggiormente sul bilancio familiare. Le priorità di spesa delle famiglie italiane per i figli includono l’abbigliamento (63%), i testi e libri scolastici (51%), scarpe, borse e accessori e attività sportiva (48%), e i pasti fuori casa (46%). Inoltre, quattro su dieci famiglie (41%) affrontano anche spese per rette scolastiche, universitarie e asilo, aumentando ulteriormente il peso finanziario.

I sacrifici dei genitori e le rinunce dei figli

Le famiglie sono costrette a fare rinunce significative per sostenere queste spese, con il 66% dei genitori che rinuncia ad acquistare per sé stessi. Questo non è un gesto sporadico, ma una pratica regolare per molti, con il 31% che rinuncia spesso e il 34% occasionalmente.

Ma le rinunce non finiscono qui! Il 60% dei genitori ha dovuto dire addio alle cene al ristorante, mentre il 58% ha rimandato l’acquisto di un’auto nuova. E le vacanze? Sono diventate un lusso che il 60% delle famiglie ha dovuto limitare, con il 25% che ha addirittura accorciato i periodi di relax per far quadrare il bilancio.

Ma non è solo una via a senso unico. Anche i figli, consapevoli delle sfide economiche che la famiglia affronta, sono disposti a fare la loro parte. Il 37% di loro ha rinunciato a nuovi vestiti e scarpe di moda, dimostrando una maturità sorprendente. E cosa dire delle uscite con gli amici? Il 30% dei giovani ha dovuto ridimensionare la socialità per risparmiare, un gesto di responsabilità che parla del loro impegno nel sostenere la famiglia in tempi difficili.

Le spese familiari per i figli vanno ben oltre i numeri: sono un intricato mix di sacrifici, pianificazione e un continuo bilanciamento tra necessità e desideri, sia per genitori che per figli. Questa avventura economica è un percorso fatto di sfide e scelte oculate che influenzano non solo il presente ma anche il futuro delle famiglie italiane. È un viaggio che richiede creatività, responsabilità e un impegno costante nella gestione delle risorse, mantenendo sempre al centro il benessere e lo sviluppo dei giovani.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Aspettativa di vita in aumento, ma qualità della vita in...

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L’aspettativa di vita globale è destinata a salire vertiginosamente. Gli uomini vedranno un incremento di 4,9 anni, mentre per le donne l’aumento sarà di 4,2 anni tra il 2022 e il 2050. Lo rivela il Global Burden of Disease Study (GBD) 2021, nel suo studio, pubblicato su The Lancet, effettuato con l’obiettivo di quantificare le tendenze sanitarie. Queste previsioni sono basate su un’analisi dettagliata dei dati di salute provenienti da 204 paesi e territori.

Crescita dell’aspettativa di vita

Il balzo significativo dell’aumento della prospettiva di via indica un miglioramento complessivo delle condizioni di salute a livello mondiale. Questo incremento sarà particolarmente pronunciato nei paesi con aspettative di vita attualmente inferiori, contribuendo a ridurre le disuguaglianze sanitarie tra diverse regioni geografiche.

Le cause di questo miglioramento sono molteplici e includono l’adozione di misure di sanità pubblica efficaci che hanno ridotto la mortalità per malattie cardiovascolari, Covid-19, e un ampio spettro di malattie trasmissibili, materne, neonatali e nutrizionali. Inoltre, il miglioramento delle infrastrutture sanitarie, l’aumento dell’accesso alle cure mediche di qualità e l’implementazione di programmi di prevenzione hanno giocato un ruolo cruciale.

Un altro fattore determinante è stato il progresso nella lotta contro le malattie infettive. La distribuzione globale di vaccini, i miglioramenti nella gestione delle emergenze sanitarie e l’adozione di pratiche igieniche più rigorose hanno contribuito a ridurre la diffusione e la mortalità di molte malattie infettive. Anche la gestione efficace delle malattie croniche non trasmissibili come il diabete, le malattie respiratorie croniche e il cancro ha contribuito significativamente al prolungamento della vita.

Il Dr. Chris Murray, presidente delle Scienze Metriche della Salute all’Università di Washington e direttore dell’Istituto per la Misurazione e la Valutazione della Salute (IHME), ha sottolineato che, nonostante le persistenti disuguaglianze sanitarie tra le regioni a basso e alto reddito, il divario nell’aspettativa di vita sta diminuendo. Questo è un segnale positivo che indica una convergenza globale verso una maggiore longevità.

Tuttavia, è importante notare che l’aumento dell’aspettativa di vita non è esente da sfide. Mentre più persone vivranno più a lungo, si prevede anche un aumento degli anni vissuti in condizioni di salute non ottimali. Questo spostamento comporta un passaggio da anni di vita persi ad anni vissuti con disabilità, il che evidenzia la necessità di affrontare non solo la durata della vita, ma anche la qualità della vita stessa.

Il passaggio dalle malattie trasmissibili alle non trasmissibili

Lo studio evidenzia anche un cambiamento continuo del carico di malattia dalle malattie trasmissibili alle malattie non trasmissibili, come le malattie cardiovascolari, il cancro, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e il diabete. Questo passaggio è il risultato di miglioramenti significativi nella prevenzione e nel trattamento delle malattie infettive, che hanno ridotto la loro prevalenza e gravità. Tuttavia, l’aumento dell’aspettativa di vita e le trasformazioni nello stile di vita hanno portato a un incremento delle malattie non trasmissibili, le quali richiedono un approccio sanitario diverso e più complesso.

Fattori di rischio associati alle malattie non trasmissibili, come l’obesità, l’ipertensione, una dieta non ottimale e il fumo, avranno il maggiore impatto sul carico di malattia della prossima generazione. L’urbanizzazione crescente, i cambiamenti nelle abitudini alimentari, l’aumento della sedentarietà e l’invecchiamento della popolazione sono tutti elementi che contribuiscono all’aumento delle malattie non trasmissibili. Questo spostamento comporta un’importante sfida per i sistemi sanitari globali, che devono adattarsi a una nuova realtà in cui la gestione delle malattie croniche e la promozione di stili di vita sani diventano prioritarie.

Per affrontare efficacemente il carico crescente delle malattie non trasmissibili, sono necessarie politiche sanitarie mirate che promuovano la prevenzione e la gestione dei fattori di rischio. Interventi come la riduzione del consumo di tabacco, la promozione di diete equilibrate e di attività fisica regolare, e il miglioramento dell’accesso a cure mediche di qualità per condizioni croniche, possono contribuire a ridurre l’impatto delle malattie non trasmissibili. In questo contesto, è fondamentale un approccio integrato che coinvolga non solo il settore sanitario, ma anche politiche educative, urbane e alimentari, per creare ambienti favorevoli a uno stile di vita sano e sostenibile.

Proiezioni di salute globale

L’aspettativa di vita globale è prevista aumentare da 73,6 anni nel 2022 a 78,1 anni nel 2050, registrando un incremento di 4,5 anni. Tuttavia, la speranza di vita in buona salute mostrerà un aumento più modesto, passando da 64,8 anni nel 2022 a 67,4 anni nel 2050, con un guadagno di soli 2,6 anni.

Le proiezioni indicano che la gestione delle malattie croniche non trasmissibili diventerà una priorità sempre più critica, con un impatto crescente sul carico di malattia globale. Di conseguenza, l’attenzione si sposterà dal semplice aumento della durata della vita alla promozione di una vita sana e attiva.

La ricerca evidenzia inoltre che, mentre i tassi di mortalità per molte malattie infettive e carenze nutrizionali continuano a diminuire grazie ai progressi nella sanità pubblica, il carico delle malattie si sta gradualmente spostando verso condizioni croniche e disabilità. Questo cambiamento richiederà una nuova strategia globale che integri prevenzione, trattamento e gestione delle malattie croniche non trasmissibili, nonché un rafforzamento dei sistemi sanitari per affrontare le crescenti esigenze di una popolazione in invecchiamento. Infine, le proiezioni mostrano che, pur con un miglioramento complessivo delle condizioni di salute, esisteranno ancora disparità significative tra diverse regioni del mondo.

Riduzione del carico di malattia globale

Secondo il dottor Stein Emil Vollset, primo autore dello studio e leader dell’Unità Collaborativa GBD presso l’Istituto Norvegese di Sanità Pubblica, “gli effetti previsti a livello globale sono più forti nello scenario ‘Miglioramento dei Rischi Comportamentali e Metabolici’, con una riduzione del carico di malattia del 13,3% nel 2050 rispetto allo scenario ‘di riferimento’”. Questo scenario si focalizza sulla mitigazione dei principali fattori di rischio legati alle malattie non trasmissibili, come l’obesità, l’ipertensione, la dieta non ottimale e il fumo. La riduzione del carico di malattia rappresenta una misura combinata degli anni di vita persi a causa di morte prematura e degli anni vissuti con disabilità, offrendo una visione completa dell’impatto delle malattie sulla popolazione.

Le politiche di intervento mirate a migliorare i comportamenti e i rischi metabolici hanno dimostrato di avere un impatto significativo, riducendo non solo la prevalenza delle malattie non trasmissibili ma anche migliorando la qualità della vita e l’aspettativa di vita sana. Inoltre, l’adozione di politiche sanitarie proattive può portare a un miglioramento significativo della salute globale. Ad esempio, campagne di sensibilizzazione e educazione sanitaria, l’accesso a cure preventive e trattamenti efficaci, e l’implementazione di regolamenti più rigidi contro i comportamenti dannosi sono strategie che possono contribuire a questa riduzione del carico di malattia.

La ricerca evidenzia l’importanza di un approccio integrato e multisettoriale per affrontare le sfide sanitarie globali. Le collaborazioni tra governi, organizzazioni sanitarie e comunità locali sono essenziali per sviluppare e implementare interventi efficaci.

Scenari alternativi

Gli autori dello studio hanno analizzato vari scenari alternativi per confrontare i possibili risultati di salute se diverse misure di sanità pubblica potessero eliminare l’esposizione a diversi gruppi di fattori di rischio entro il 2050. I tre scenari principali analizzati sono:

ambiente più sicuro: prevede la riduzione delle esposizioni ambientali nocive, come l’inquinamento dell’aria e l’esposizione a sostanze chimiche pericolose;
miglioramento della nutrizione infantile e vaccinazione: l’accento è posto sul miglioramento della nutrizione nei bambini e sull’aumento della copertura vaccinale;
miglioramento dei rischi comportamentali e metabolici: mira a ridurre i fattori di rischio come il fumo, l’obesità e la pressione alta con interventi che promuovono stili di vita più sani.

Vollset ha osservato che lo scenario con il maggiore impatto globale sulla riduzione del carico di malattia (misurato in anni di vita persi per disabilità e morte prematura, o riduzione del carico di malattia) è quello del miglioramento dei rischi comportamentali e metabolici. Questo scenario prevede una riduzione del 13,3% del carico di malattia nel 2050 rispetto allo scenario di riferimento. Tuttavia, anche gli altri scenari mostrano riduzioni significative del carico di malattia, dimostrando la necessità di progressi continui e risorse dedicate in queste aree cruciali.

La combinazione di questi scenari offre una visione ottimistica delle possibilità di miglioramento della salute globale attraverso interventi mirati e coordinati, sottolineando l’importanza di politiche sanitarie proactive e basate su evidenze.

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Giornata del bikini, storia e origini di un’icona della moda

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Il bikini compie 78 anni. L’iconico costume da bagno, oggi tra i più indossati al mondo, ha una storia e origini lontane e nel corso degli anni ha assunto significati via via sempre diversi. Dalla voglia di emancipazione delle donne, sempre “costrette” a coprirsi per il buon costume, fino alla denominazione che richiama un ordigno esploso sulle isole Marshall durante la Seconda guerra mondiale: ecco come è evoluto e come si è trasformato questo capo di abbigliamento.

La nascita del bikini da spiaggia

Louis Reard e Jacob Heim sono i due stilisti francesi ai quali si attribuisce la paternità del bikini. Decisero di chiamare questo capo di abbigliamento che gettarono in passerella, come gli ordigni nucleari che fecero esplodere l’atollo ‘Bikini’ nel Pacifico. Un corpo seminudo, rispetto agli standard precedenti, creò non poco scalpore e a indossarlo fu una spogliarellista del Casinò di Parigi, perché nessuna modella volle assecondare la follia degli stilisti.

Da quel momento in poi, però, le donne non l’hanno voluto più togliere e, tra sfilate di moda e attrici al cinema, questo indumento è diventato una vera e propria icona di stile al mare.

Storia del bikini

Il bikini, però, non nasce negli anni Quaranta, ma ha origini ben più antiche. Già presente nei mosaici del III secolo dopo Cristo, l’usanza di indossare un “due pezzi” serviva alle atlete per coprire le zone intime durante le competizioni agonistiche.

Prima di vederlo sulle spiagge mondiali sono trascorsi secoli e sono stati abbattuti divieti e pregiudizi. Prima fu proibito in Spagna, Portogallo e in Italia. Poi il Vaticano lo descrisse come un indumento “peccaminoso” e solo quando le dive degli anni Cinquanta lo indossarono nelle pellicole cinematografiche, fu “liberalizzato”.

Lucia Bosè, nel 1947, lo indossò durante Miss Italia al posto del costume intero, facendolo divenire l’indumento prediletto dal concorso di bellezza. Così come, Brigitte Bardot, in “E Dio creò la donna” (1957) lo indossò con nonchalance. E poi Ursula Andress, uscì dall’acqua in bikini in “Agente 007. Licenza di uccidere” consacrandolo come l’indumento da spiaggia perfetto.

Nel corso degli anni, però, dopo questa prima emancipazione femminile, il bikini è diventata l’ossessione delle donne alle porte dell’estate e della prova costume, tanto da ribattezzare quest’ansia “Bikini blues”.

Bikini blues

Dimagrire per entrare nel bikini, senza pancia o cellulite, ha preso il posto della forza e del potere seduttivo che questo capo di abbigliamento ha rappresentato per oltre un secolo. Bikini blues è il termine coniato per indicare proprio la paura di non essere pronti alla prova costume e dover rimandare all’estate successiva l’indossare l’indumento, prediligendo costumi interi o stoffe coprenti.

Secondo uno studio di MioDottore, il Bikini Blues colpisce il 45% degli italiani, di cui il 60% interessa le persone di sesso femminile, sottoposte maggiormente a giudizio per canoni estetici che non sempre rispecchiano il rapporto tra estetica e salute. Percentuali che non stupiscono se si considera che per l’89% degli italiani l’aspetto esteriore rappresenta un aspetto importante e che meno della metà apprezza i suoi connotati fisici.

La piattaforma di psicologi e psicoterapeuti online, invece, ha sottolineato che negli anni si è andata creando una “Sindrome da Bikini”. Quest’ultima riflette una “condizione psicologica diffusa caratterizzata da una forte ansia per l’apparenza fisica, specialmente in contesti in cui il corpo è esposto, come in spiaggia o in piscina. Gli effetti psicologici possono essere significativi: aumentano l’insicurezza e l’autocritica, alimentando un ciclo di stress e insoddisfazione legata al proprio corpo. Questo può manifestarsi in diversi problemi di salute mentale, tra cui disturbi alimentari, depressione, ansia sociale”.

Il consiglio? Ignorare le critiche, accettare i propri difetti estetici in quanto peculiari e personali e non cedere alla retorica del “se vuoi dimagrire basta volerlo sul serio”. Ogni corpo riflette spesso lo stato della propria mente ed è sufficiente prendersi cura di entrambi attraverso una corretta alimentazione, sport e ricercare ciò che vada meglio per il proprio benessere mentale. In caso di difficoltà, rivolgersi a esperti nei vari settori è la cosa più utile.

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Il caso Giappone, niente festività per i papà

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Paese che vai, festività che trovi. In Giappone, ad esempio, 16 festività (shukujitsu) non includono quelle relative ai ruoli genitoriali, ma solo una in particolare tiene conto della mamma e non del papà. Perché? Il Paese ha la fama di non avere una parità genitoriale nella cura dei figli. Fattore, questo, comune anche in Italia fino a qualche anno fa. Ma come si può invertire il trend e creare una maggiore equità nei ruoli di cura?

“Grati alle madri”

È da poco trascorsa la Festa del Papà in Giappone e il Japan Times, tra i principali quotidiani giapponesi in lingua inglese, ha scritto in merito: “Mentre queste festività “non ufficiali” sono importazioni straniere spesso mascherate da strategie di marketing abilmente camuffate per vendere cioccolatini, fiori e altri regali, gli shukujitsu sono stabiliti da una legge promulgata nel 1948. Tra i 16, quelli che riguardano la famiglia sono il Giorno del rispetto per gli anziani, il terzo lunedì di settembre, e il Giorno dei bambini, il 5 maggio. Mentre il primo è autoesplicativo, il secondo include una formulazione che riflette una forte fissazione sui ruoli di genere”.

L’articolo 2 della legge sulle festività pubbliche, infatti, stabilisce che la giornata dei bambini è un’occasione per i giapponesi di “rispettare la personalità dei bambini e impegnarsi per il loro benessere – ma soprattutto – essere grati alle loro madri“. Madri! E i papà?

La denatalità giapponese: anche una questione di parità di genere

L’aumento della denatalità in Giappone passa anche attraverso uno stereotipo molto radicato nel Paese. E cioè che gli uomini abbiano il compito di lavorare, mentre alle donne spetti il ruolo di cura della casa e della famiglia. Un sondaggio del National Center for Child Health and Developmemnt ha riscontrato che il 95,6% dei padri e partner maschili intervistati sosteneva fosse naturale per le coppie dividere equamente questi i doveri domestici e la gestione dei figli.

Sempre secondo il sondaggio, il 49,7% ha dichiarato che manca un sistema e un ambiente che rendano facile per i padri crescere i propri figli, mentre il 33,1% ha affermato che, nonostante facciano del loro meglio nelle faccende domestiche e nella cura dei bambini, non ricevono alcun riconoscimento.
All’inizio di giugno, il ministero della Salute ha pubblicato le sue ultime statistiche sul tasso di fertilità totale del Giappone. Si tratta del numero medio di nascite per donna durante i suoi anni fertili. La cifra è scivolata per l’ottavo anno consecutivo, raggiungendo un minimo storico pari a 1,20 nel 2023. Nel frattempo, anche il numero di matrimoni ogni 1.000 persone è sceso a 3,9 lo scorso anno, mentre l’età media delle madri che danno alla luce il loro primo figlio è salita a 31,0, rispetto ai 27,5 del 1995.

Numeri che si scontrano, però, con la volontà degli uomini di riprendersi il ruolo che desiderano: (anche) a casa con i propri figli.

E in Europa?

La divisione dei lavori domestici e la parità di genere professionale non sono problemi solo del Giappone. Lo stesso vale anche per molti Paesi d’Europa e per l’Italia stessa in primis. Le statistiche dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere riportano che circa il 91% delle donne con figli dedica almeno un’ora al giorno ai lavori domestici, mentre la percentuale scende al 30% tra gli uomini con figli.

L’Eige ha rilevato anche che le donne con un’occupazione altamente qualificata tendono a cercare più spesso aiuti esterni per le faccende domestiche, a differenza degli uomini che, a parità di qualifiche e titoli di studio, sembrano più restii. Qualcosa però si sta “muovendo”. Nell’ultimo decennio, Francia, Lussemburgo, Italia, Germania e Spagna hanno registrato un netto aumento della parità nei ruoli e nella cura della casa e della famiglia.

In Italia, ad esempio, è pari a 24,9 il divario, in punti percentuali, tra la quota di donne 25-49 che dedicano oltre 50 ore alla settimana alla cura dei figli (32,1%) e i coetanei uomini (7,2%). E a seguito della maternità, nel nostro Paese, è una donna su cinque a dover lasciare il mercato del lavoro per problemi di inconciliabilità tra i ruoli.

La maternità influenza il tasso di occupazione e l’Italia, in merito, ha una media molto più bassa degli altri Paesi Ue: 62,6% a fronte del 76,2% europeo nel 2022. Divari che permangono all’aumentare del numero dei figli.

“Super papà” vs “Equilibriste”

Sono state denominate “Equilibriste” da Save The Children, ma dei “super papà” neanche l’ombra. Avere un figlio cambia la vita, indipendentemente dal genere del genitore. Ma quando si parla delle mamme sembra sempre che ciò sia più impattante. La disparità di genere professionale e nella cura della casa e famiglia, quindi, si è aggiudicata negli anni il podio tra le cause della denatalità crescente in molti Paesi. Disparità di genere che non conviene neppure all’economica e al Pil: l’Ocse ci dice che colmare il gender gap sul piano occupazionale potrebbe aumentare il Pil di circa il 10% entro due decenni o poco più.

L’Ue, per coinvolgere i papà, ha lanciato un progetto che prende il nome di “4E-parent”. L’obiettivo è quello di rendere più partecipi i padri nella gestione della famiglia e nel supporto alla partner. Promuovere, inoltre, una mascolinità accudente attraverso il coinvolgimento concreto dei papà fin dalla gravidanza. La letteratura scientifica sostiene da tempo che il coinvolgimento da subito, pratico ed empatico del padre nella genitorialità ha numerosi esiti positivi sui piani psicofisico e sociale:

• Migliora lo sviluppo cognitivo, sociale e affettivo dei bambini e delle bambine
• Crea fin dall’inizio un forte legame affettivo fra padre e i figli e le figlie
• Migliora la salute psico-fisica dei bambini e delle bambine così come della madre
• Diminuisce i rischi durante la gravidanza e il parto
• Facilita l’allattamento
• Diminuisce le probabilità di violenza domestica
• Contribuisce alla parità fra uomini e donne, anche nella condivisione della cura.

“Le azioni del progetto intendono promuovere una genitorialità equa e responsabile di tutti i genitori, compresi quelli dello stesso sesso, lavorando alla decostruzione degli stereotipi di genere che rendono difficile lo sviluppo di una mascolinità accudente e di una genitorialità ampia e soddisfacente per tutte le componenti della famiglia”.

E tornando al Giappone, alcuni passi per promuovere una maggiore parità di genere sono altrettanto in atto. Il primo ministro Fumio Kishida ha promesso di favorire un aumento della percentuale di donne dirigenti nelle grandi aziende, dall’11,4% al 30% o più, entro il 2030. Mentre, contro la denatalità, ci sono progetti che vanno all’Ai con app governative per aumentare le possibilità di incontri tra le persone, sino a incentivi economici a favore delle famiglie con figli.

Nel Global Gender Report del World Economic Health del 2024, il Giappone si è classificato al 118esimo su 146 Paesi nella classifica del divario di genere. L’Italia occupa l’87esimo posto.

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