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Chi sono i nomadi digitali e con quale procedura possono fare ingresso in Italia?

In un mondo sempre più interconnesso e digitalizzato, l’Italia sta abbracciando un cambiamento significativo nella sua politica migratoria, aprendo le porte a una nuova categoria di lavoratori: i nomadi digitali e i lavoratori da remoto. Questi professionisti, grazie alla loro capacità di lavorare in modo altamente qualificato utilizzando strumenti tecnologici, stanno ridefinendo le tradizionali norme di ingresso e soggiorno nel Paese. Introduzione che non è solo una risposta alle mutate condizioni globali post-pandemia, ma anche una mossa strategica per attrarre talenti e stimolare l’economia.

Il Decreto Flussi e la legge sui nomadi digitali

L’arrivo dei nomadi digitali e dei lavoratori da remoto in Italia è stato ufficialmente sancito dal Decreto Legge n. 4 del 2022, che ha introdotto l’articolo 27, comma 1, lettera q-bis al Testo Unico Immigrazione. Questo decreto ha rappresentato un cambiamento fondamentale, permettendo a lavoratori altamente qualificati di entrare in Italia al di fuori delle quote annualmente stabilite. Con l’introduzione di questa norma, il Governo ha riconosciuto l’importanza di queste nuove figure professionali, la cui attività lavorativa non è legata fisicamente a un ufficio o a una sede specifica.

La regolamentazione dettagliata di questa categoria è stata successivamente delineata in un decreto del 29 febbraio 2024, adottato in collaborazione tra il Ministero dell’Interno, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Ministero del Turismo e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Questo decreto fornisce una guida chiara sui requisiti e le modalità per l’ingresso e il soggiorno dei nomadi digitali e dei lavoratori da remoto in Italia.

Chi sono i nomadi digitali e i lavoratori da remoto?

La legge italiana distingue tra due categorie principali di lavoratori che possono beneficiare di questa nuova normativa: i nomadi digitali e i lavoratori da remoto. Sebbene entrambi utilizzino strumenti tecnologici per lavorare da lontano, vi è una differenza sostanziale tra le due figure.

I nomadi digitali sono professionisti autonomi che operano in vari settori, dai design alla consulenza, e possono gestire il loro lavoro in maniera indipendente senza un datore di lavoro fisso. Al contrario, i lavoratori da remoto sono dipendenti di un’impresa, la quale può avere sede sia in Italia che all’estero. Entrambi devono soddisfare requisiti specifici per accedere ai benefici previsti dalla legge.

Per essere ammessi, i lavoratori devono dimostrare di avere un’attività lavorativa altamente qualificata. Questo implica avere un titolo universitario o una significativa esperienza lavorativa (almeno cinque anni, o tre se nel settore IT). La documentazione necessaria per dimostrare questi requisiti è simile a quella richiesta per la carta blu UE, che facilita l’ingresso dei lavoratori altamente qualificati nell’Unione Europea.

Requisiti per l’ingresso e il soggiorno

Per lavorare in Italia come nomade digitale o lavoratore da remoto, è necessario soddisfare una serie di requisiti specifici:

Reddito minimo: È richiesto un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite, pari almeno al triplo del reddito minimo previsto per l’esenzione dalla spesa sanitaria, che attualmente è di 24.789 euro. Questo requisito può essere dimostrato tramite documentazione fiscale del Paese di residenza o attraverso un contratto di lavoro o di collaborazione.
Assicurazione sanitaria: È necessario possedere un’assicurazione sanitaria valida per il territorio nazionale, coprendo cure mediche e ricovero ospedaliero per tutta la durata del soggiorno in Italia.
Alloggio: È obbligatorio fornire una documentazione relativa alla sistemazione abitativa, come un contratto di acquisto o locazione di un immobile.
Esperienza professionale: I lavoratori devono dimostrare un’esperienza pregressa di almeno sei mesi nell’ambito dell’attività lavorativa da svolgere in Italia. Per i lavoratori da remoto, questa esperienza deve essere confermata da contratti di lavoro precedenti, mentre per i nomadi digitali possono essere presentate lettere di incarico o fatture.
Contratto di lavoro: È richiesto un contratto di lavoro o di collaborazione, che deve specificare la retribuzione annuale, che deve essere almeno pari a quella prevista dai contratti collettivi nazionali o alla media annuale ISTAT.

Un ulteriore requisito riguarda l’assenza di condanne per reati previsti dal Testo Unico sull’immigrazione da parte del datore di lavoro o del committente. È necessaria una dichiarazione che attesti questa assenza, allegata alla domanda di visto.

La procedura di ingresso in Italia

La procedura per l’ingresso in Italia come nomade digitale o lavoratore da remoto si articola in due fasi principali. La prima consiste nella richiesta di visto presso il Consolato o l’Ambasciata italiana nel Paese di residenza. In questa fase, il richiedente deve fornire tutta la documentazione necessaria a dimostrare il possesso dei requisiti sopra elencati. Non è previsto il rilascio preventivo di nulla osta al lavoro.

Una volta ottenuto il visto e arrivato in Italia, il lavoratore deve richiedere il permesso di soggiorno per lavoro presso la questura del luogo di residenza, entro 8 giorni lavorativi dall’ingresso. La questura verificherà la documentazione e comunicherà il rilascio del permesso di soggiorno, trasmettendo copia del contratto di lavoro agli enti competenti per le verifiche previdenziali e fiscali. Durante questo periodo, è possibile iniziare a lavorare e, con il rilascio del permesso di soggiorno, viene generato e comunicato anche il codice fiscale.

Caratteristiche

Il permesso di soggiorno per nomadi digitali e lavoratori da remoto ha una durata di un anno ed è rinnovabile annualmente, a condizione che il lavoratore continui a soddisfare i requisiti previsti. Non ci sono requisiti specifici di permanenza minima in Italia per il rinnovo del permesso, salvo che non vi siano interruzioni prolungate del soggiorno superiori ai sei mesi.

I permessi di soggiorno per nomadi digitali e lavoratori da remoto non limitano la possibilità di cambiare datore di lavoro o committente. Dopo cinque anni di soggiorno regolare, è possibile richiedere il permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti. Tuttavia, attualmente, non è previsto che questi permessi possano essere convertiti in altri tipi di permesso di soggiorno.

I nomadi digitali e i lavoratori da remoto possono portare con sé o far raggiungere in Italia i familiari a carico, come coniuge e figli minori. I familiari riceveranno un permesso di soggiorno per motivi di famiglia, che ha la stessa durata del permesso del lavoratore e consente anche di lavorare.

Per quanto riguarda il regime previdenziale, i lavoratori devono pagare i contributi previdenziali in Italia, a meno che non esistano convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con il Paese di origine, che consentono di mantenere il sistema previdenziale del proprio Paese.

Infine, sotto il profilo fiscale, i nomadi digitali devono aprire una partita IVA in Italia per emettere fattura, pagare i contributi previdenziali e le imposte sul reddito. La partita IVA non viene automaticamente rilasciata con il permesso di soggiorno e deve essere richiesta presso l’Agenzia delle Entrate. In Italia esistono due principali categorie di partita IVA: liberi professionisti e ditte individuali, a seconda del tipo di attività svolta. La violazione delle norme fiscali può comportare la revoca del permesso di soggiorno.

L’ingresso dei nomadi digitali e dei lavoratori da remoto in Italia rappresenta una significativa evoluzione della legislazione sull’immigrazione, rispondendo alle nuove dinamiche del lavoro globale e contribuendo a rendere l’Italia un hub attrattivo per talenti internazionali. Con requisiti ben definiti e procedure chiaramente stabilite, il Paese si prepara ad accogliere questi professionisti, offrendo loro l’opportunità di vivere e lavorare in un ambiente ricco di cultura e opportunità economiche.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Denatalità, Bilotta: “Infertilità per il 15% di coppie, ma...

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Circa il 15% delle coppie in Italia non è fertile. Il numero medio di figli per donna negli ultimi sessant’anni è sceso dal 2,70 a 1,20. Da quarant’anni il tasso di fertilità non supera l’1.5. E l’infertilità è una delle cause.

Le crescenti difficoltà di concepimento nelle coppie che desiderano avere un figlio rischiano di contribuire all’aumento della denatalità. Il 22 settembre si celebra la Giornata nazionale della salute riproduttiva. Per quell’occasione, il Professor Pasquale Bilotta, direttore del Centro Fecondazione Assistita “Alma Res” di Roma, ha spiegato quali sono e come si possono superare tali difficoltà.

Le cause della denatalità

La dimensione del fenomeno della denatalità è evidente. Con appena 379mila bambini venuti al mondo, il 2023 ha evidenziato nel nostro Paese l’ennesimo minimo storico di nascite, l’undicesimo di fila dal 2013. Il trend non si è fermato sin dal 2008 (577mila nascite), determinato sia da un’importante contrazione della fecondità (numero di figli per donne in età riproduttiva) sia dal calo del numero di donne in tale fascia di età (per l’invecchiamento della popolazione).

E se nel 1964 il numero di figli per donna si assestava sui 2.70, nel 2023 era pari a 1.20. Il bassissimo numero medio di figli per donna interessa tutto il territorio nazionale. Nel dettaglio, il Nord Italia ha una media di 1.21 figli per donna, il Centro 1.12 e Sud e Isole, 1.24. Fino a trent’anni fa la fecondità era molto superiore nel Sud rispetto al Centro e al Nord: basti pensare che nel 1964 era 3.30 nel Mezzogiorno, 2.38 nel Centro e 2.37 nel Nord.

Diverse sono le cause che hanno contribuito in questi anni a peggiorare la situazione:
Cause economico-sociali: come stipendi bassi, aumento del costo della vita, mancanza di servizi a sostegno delle famiglie
• Crescenti difficoltà di concepimento nelle coppie che desiderano avere un figlio.

In Italia è stata istituita la Giornata nazionale della salute riproduttiva (22 settembre), proprio con l’obiettivo di promuovere l’attenzione e l’informazione sul tema della fertilità.

“Infertilità? C’è soluzione”

“Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità – afferma il Professor Pasquale Bilotta, direttore del Centro Fecondazione Assistita “Alma Res” di Roma -, in Italia circa il 15% delle coppie è infertile e questa condizione può dipendere in egual misura sia dalla donna che dall’uomo. Non esistono in Italia dati specifici sulla prevalenza di questo fenomeno. Generalmente si parla di infertilità di coppia in caso di mancato raggiungimento della gravidanza dopo un anno di rapporti sessuali regolari e non protetti”.
Tra le cause primarie, spiega Bilotta, vi è senz’altro il fattore età: “Dai 40 anni in poi la percentuale di fertilità media è il 20% rispetto a quella riscontrata a 25 anni”. Ma non solo. A pesare sull’infertilità ci sono “anche abitudini non sane, come fumo, consumo di alcol oppure condizioni psicologiche limitanti, quali ansia e stress da ritmi di vita/lavoro troppo frenetici”.

Spesso, quest’ultime, sono patologie prevenibili facilmente curabili: “Per questo è molto importante una corretta informazione”, ha aggiunto il professore.

Prevenzione e possibili soluzioni all’infertilità

Ricorrere a trattamenti di fecondazione assistita è una soluzione. Stando ai dati più recenti dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021, oltre 86.000 donne in Italia si sono sottoposte a questo tipo di procedure. La fascia d’età più rappresentata è quella tra i 35 e i 40 anni, seguita dalla fascia tra i 30 e i 35 anni.

Il tasso di successo delle procedure varia in base all’età della donna e alla tecnica utilizzata, con una media nazionale del 25% di gravidanze per ciclo di trattamento di fecondazione in vitro. Le donne sotto i 35 anni hanno registrato i tassi di successo più alti, con una percentuale che raggiunge il 40%, mentre per le donne sopra i 40 anni il tasso di successo scende al 15%.

“Non esiste un percorso universalmente valido per tutte le coppie – ha spiegato il Professor Bilotta – Per questo, l’obiettivo primario del nostro Centro è ricercare approcci personalizzati, basati su caratteristiche genetiche e biologiche individuali. Non solo: puntiamo al miglioramento delle tecniche di congelamento e scongelamento di ovociti ed embrioni e investiamo nello sviluppo di nuove metodologie per la diagnosi precoce di malattie genetiche rare”.

Secondo il prof. Bilotta – tra i primi ricercatori in Italia che, nel 1980, realizzarono su coppia infertile il prelievo, la fecondazione dell’ovocita ed il trasferimento embrionario in utero – è fondamentale continuare a migliorare il quadro normativo per assicurare un accesso equo e sicuro per tutti: “Nel Lazio, per esempio, le coppie che decidono di ricorrere alla fecondazione assistita tramite Sistema sanitario nazionale si recano in altre regioni. Le motivazioni sono legate alla scarsa offerta pubblica o convenzionata nel territorio regionale, lunghe liste d’attesa e costi elevati. Con altri 21 Centri autorizzati privati, stiamo costituendo un Coordinamento a livello regionale: auspichiamo la creazione di un Network di centri pubblici e privati, disponibili a erogare prestazioni in convenzione con il Servizio sanitario nazionale, in modo da aumentare l’offerta e garantire alle coppie un maggiore accesso ai trattamenti di fecondazione assistita”.

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La voce dei giovani: una lettera aperta alla Scuola

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Cosa pensano i giovani della Scuola? A rispondere a questa domanda c’è il collettivo “Nubi Pe(n)santi”, composto da ragazzi e ragazze della provincia di Torino, che ha deciso di scrivere una lettera aperta a questa istituzione.

Utilizzando il metodo maieutico, gli studenti hanno riflettuto profondamente sul tema dell’educazione. La lettera è stata presentata durante il Caffè pedagogico con Daniele Novara (premio ricevuto durante il convegno Cpp “La scuola non è una gara” a cui i ragazzi e le ragazze hanno partecipato con una rappresentanza).

La Scuola è una seconda casa?

La scuola è spesso definita come una “seconda casa” per i giovani, ma non sempre ciò corrisponde al vero. “La maggior parte di noi non sente questo luogo simile a una casa perché nel percorso scolastico gli aspetti negativi prevalgono rispetto a quelli positivi.” Questo mette in luce come molti studenti non percepiscano la scuola come un luogo sicuro e di supporto.

Un sondaggio condotto da Unisona Live e Unicef ha rilevato che il 75% degli studenti associa il proprio malessere a episodi legati alla scuola. Questo dato sottolinea quanto sia cruciale creare un ambiente scolastico positivo per il benessere degli studenti. La percezione di un ambiente accogliente è fondamentale per la salute mentale degli studenti.

Il peso del giudizio

Uno dei temi principali emersi è il giudizio costante a cui sono sottoposti gli studenti. “Essere valutati e valutate e avere un voto che giudichi il nostro operato non può che generare in ognuno di noi un vorticoso senso di ansia e frustrazione.

I voti e le valutazioni generano ansia e frustrazione, distogliendo l’attenzione dal vero obiettivo dell’educazione: l’apprendimento e la crescita personale. Lo ha dimostrato un’indagine Ocse-Pisa che ha rilevato che gli studenti italiani manifestano ansia e disagio in situazioni legate al rendimento scolastico, con il 56% degli alunni che dichiara di diventare particolarmente nervoso durante le verifiche. Questo evidenzia l’importanza di un ambiente scolastico che supporti non solo l’apprendimento, ma anche il benessere emotivo degli studenti.

Incoerenza e preferenze

Il collettivo torinese ha, inoltre, criticato la mancanza di coerenza tra i professori, che inviano messaggi contraddittori riguardo all’importanza dei voti. “Ci insegnano che il giudizio personale negativo non va bene, ma invece perché quello positivo va bene?”. La risposta è “No”. Il fenomeno si chiama “ansia da prestazione” e ha portato centinaia di studenti a soffrire di disturbi di vario tipo o, spesso, anche al suicidio.

L’American College Health Association (Acha), ritiene che ansia e depressione siano i principali ostacoli al rendimento negli studi. Questo espone i soggetti ad un maggiore rischio di abuso di sostanze tossiche e a pensieri suicidi. Secondo i dati, il 65,7% degli studenti ammette di aver provato “ansia travolgente” raddoppiata negli ultimi 10 anni.

Inoltre, nella lettera è emerso quanto gli studenti percepiscano i favoritismi e i pregiudizi, che influenzano negativamente il clima scolastico e i rapporti tra pari. Studi hanno dimostrato che le percezioni degli insegnanti riguardo alla motivazione e all’impegno degli studenti possono influenzare significativamente i risultati scolastici.

Competizione e conformismo

La scuola per i giovani del collettivo viene poi descritta come un ambiente competitivo e conformista, dove gli studenti sono spinti a competere tra loro piuttosto che a collaborare. “Si innesca una competizione ‘sgomitante, muscolare, darwiniana’ in cui si perde di vista il significato originario di ‘cumpetere: procedere insieme, correre insieme verso la stessa meta’”.

Questo sistema promuove una standardizzazione che annulla il pensiero critico e la crescita individuale, favorendo un conformismo opprimente. Un’analisi del Centro Studi Erickson ha esaminato l’inclusione scolastica e sociale in Italia, evidenziando come la competizione possa creare un ambiente meno inclusivo e aumentare il rischio di esclusione per gli studenti.

Il Registro Elettronico: tra controllo e fiducia

Il registro elettronico, sebbene utile, è stato descritto come uno strumento di controllo che riduce l’autonomia degli studenti e la comunicazione tra loro e i genitori. “I nostri genitori vengono costantemente informati di quello che facciamo, i voti che prendiamo, dove siamo, annullando la comunicazione tra genitori e studenti“.

Questo sistema, infatti, tende a ridurre la comunicazione diretta e immediata, fondamentale per il funzionamento delle relazioni umane, soprattutto quando si parla di figli in età scolare.

Non è la prima volta che l’uso di strumenti digitali influenzi negativamente l’autonomia degli studenti e la loro capacità di autoregolarsi. Ma se si parla sempre dei cellulari e del loro divieto nelle scuole, si deve considerare anche valido poter mettere in discussione anche gli strumenti di controllo e non solo di “distruzione di massa” (come definito dal ministro italiano Valditara).

Il collettivo “Nubi Pe(n)santi” è costituito da un gruppo di adolescenti residenti nella ValMessa, Bassa Val di Susa, che si interrogano, negli spazi dell’Associazione LiberAmente, concessi dal Comune di Almese, in collaborazione con la Consulta Giovani, su argomenti a loro cari, su cui hanno necessità di esprimersi liberamente, senza giudizio, scambiando pensieri ed emozioni, utilizzando diversi linguaggi.

La loro lettera rappresenta una voce critica e riflessiva sul sistema scolastico attuale. I giovani esprimono il desiderio di un cambiamento radicale, basato su una maggiore comunicazione, empatia e comprensione reciproca. La loro speranza è che, attraverso il dialogo e la riflessione, sia possibile rendere la scuola un luogo migliore per tutti.

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Vincent Cassel papà per la quarta volta: ma quali sono i...

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Vincent Cassel, 57 anni, diventa papà per la quarta volta. A dare il dolce annuncio è la fidanzata Narah Baptista, 27 anni, che con una foto sui social ha fatto sapere della gravidanza.

La modella brasiliana ha condiviso su Instagram le prime foto col pancione scrivendo: “Mamma ti aspetta. Fotografie scattate dalla nonna”. L’attore ha risposto con un dolce “Sono fortunato ad averti nella mia vita”. I due sono legati da poco più di un anno. E se per la modella è la prima gravidanza, per Cassel è la quarta volta.

L’attore è già padre di tre figlie, Deva e Leonie, rispettivamente 20 e 14 anni, nate dal matrimonio con Monica Bellucci. Poi cinque anni fa, con la seconda moglie Tina Kunakey, altrettanto 27enne, è venuta al mondo Amazonie.

E mentre l’attore diventerà papà per la quarta volta, c’è qualche collega che ha ampiamente superato questo record. Scopriamo alcuni dei papà vip “più proliferi”.

I papà vip più proliferi: ieri e oggi

Se prendessimo esempio da questi papà famosi, il problema della denatalità sarebbe estinto. Quantomeno non si può dire che non abbiano contribuito alla messa al mondo di un numero di figli tale sufficiente a mantenere alto il ricambio generazionale (almeno quello delle proprie famiglie). Perché mentre il tasso di natalità crolla a picco, alcune personalità dello showbiz hanno fatto la differenza e sono passate alla storia per essere dei papà proliferi, maternità surrogate incluse.

Di un’altra epoca, ma un evergreen della genitorialità rinomata per la quantità, c’è Marlon Brando. L’attore, noto per la sua tumultuosa vita privata, sia con partner maschili che con quelli femminili, ha messo al mondo e riconosciuto 12 figli, avuti da tre mogli diverse e donne sconosciute al grande pubblico e ne ha adottati altri tre, per un totale di 15.

Elon Musk, il miliardario fondatore di Tesla e SpaceX, ha 12 figli da diverse relazioni. L’imprenditore, di quasi 53 anni, ha accolto il terzo figlio con la compagna attuale Shivon Zilis, di 38 anni, lo scorso giugno.

A seguire, Eddie Murphy, con i suoi dieci figli: i primi due, li avuti da due donne diverse, sono nati prima di sposare la modella Nicole Mitchell, dalla quale ne ha poi avuto altri cinque. Dopo il divorzio nasce Angel Iris, riconosciuta grazie al test del Dna, dalla relazione con la Spice Girl Mel B. Infine, ha avuto gli ultimi due figli dalla modella Paige Butcher.

Ma c’è anche, Mel Gibson con i sette figli, tutti nati dalla stessa madre, l’infermiera Robyn Moore, con cui il matrimonio è durato ben 26 anni e poi altri due figli, una avuta dalla musicista russa Oksana Grigorieva, e l’ultimo con la sceneggiatrice televisiva Rosalind Ros.

Rimanendo in tema non si possono non considerare altrettanto “proliferi” anche gli attori Robert De Niro, Brad Pitt e Jude Law. Tutti e tre hanno in comune le carriere costellate di successi e sei figli, nel caso di Pitt, tre adottati insieme alla moglie e collega Angelina Jolie.

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Papà-vip italiani

Spostandoci in Italia, invece, celebri sono diventate le parole dell’attore Christian De Sica che sul padre Vittorio ha dichiarato: “Mio padre ci ha lasciato in eredità anche la scoperta di numerosi fratelli e sorelle nascoste. La mia non era una famiglia, ma una cooperativa. Gli uomini erano maschilisti e lui era innamorato di tutte quelle donne”. Dalla stessa mamma è nato il fratello Manuel De Sica, mentre da altre donne, Vittorio De Sica ha avuto Emiliana De Sica e Vicky Lagos. Gli altri figli ai quali ha alluso Christian non sono noti al grande pubblico.

Non è un attore, ma è famoso in tutta Italia per la sua musica: Gigi D’Alessio, negli scorsi giorni sul palco dell’Arena di Verona, al Tim Music Awards, ha risposto in modo ironico al conduttore Carlo Conti sul numero di figli messi al mondo fino ad oggi. Napoletano, 57 anni, il cantante ha in totale sei: ha avuto Claudio, Ilaria e Luca dal matrimonio con Carmela Barbato, poi Andrea dalla relazione con Anna Tatangelo e Francesco e Ginevra, nati dall’amore con la fidanzata Denise Esposito.

E sempre in tema musica, c’è Roby Facchinetti dei Pooh con i suoi cinque figli e Al Bano Carrisi con i suoi sei figli. Mentre, nel mondo dello sport c’è Antonio Cassano che ne ha avuti cinque.

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