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Cancro al seno e ritorno al lavoro, Europa Donna ‘un aiuto per agevolare il reinserimento’

La presidente D’Antona: "Con ‘TrasformAzione’ rispondiamo a una delle prime domande poste dopo la diagnosi"

Cancro al seno e ritorno al lavoro, Europa Donna ‘un aiuto per agevolare il reinserimento’

“Sempre più spesso, purtroppo, il tumore al seno si presenta in età giovanile e irrompe nella vita di una donna quando è nel pieno della propria attività professionale. Siamo così andate sul territorio per ascoltare le pazienti e sentire qual era il loro vissuto rispetto al mondo del lavoro, e abbiamo riscontrato che i diritti della lavoratrice sono spesso limitativi rispetto ai reali bisogni di cure che una paziente può avere nel tempo”. Così Rosanna D’Antona, presidente di Europa Donna, descrive all’Adnkronos l’origine di attività promosse dall’associazione per facilitare il ritorno al lavoro anche dopo una diagnosi di cancro al seno metastatico, argomento anche affrontato da vari punti di vista nel sito ‘è tempo di vita’.

Come “ci viene riferito anche dagli oncologi - continua D’Antona - una delle primissime domande che la paziente fa al momento della diagnosi è: dopo, potrò continuare a lavorare?”. Accanto, quindi, al percorso terapeutico, “è importante sostenere le donne affinché possano continuare, se lo desiderano, ad essere attive sul piano professionale, anche perché vivere una vita attiva dal punto di vista sociale e relazionale è di grande aiuto sul piano psicologico nell’affrontare la malattia. Per queste ragioni in Europa Donna Italia abbiamo dato vita, circa 3 anni fa, a ‘TrasformAzione’, un progetto dedicato alle pazienti che desiderano lavorare e hanno bisogno di essere supportate nel loro percorso di reintegrazione nel mondo professionale. Non dimentichiamo infatti che, grazie ai passi avanti della ricerca, sono sempre di più le donne con un tumore al seno che mantengono una buona qualità di vita e vogliono continuare a sentirsi attive professionalmente, non solo perché ciò permette un recupero della propria autonomia finanziaria, ma anche perché riprendere la professione significa per molte tornare alla vita, uscendo dalla sola dimensione di paziente”.

Sul tema del rientro al lavoro, “da una recente ricerca che abbiamo condotto a livello nazionale - continua la presidente di Europa Donna - abbiamo potuto riscontrare due ordini di problematiche. Uno afferisce alla paziente e al suo sentirsi in grado o meno di riprendere il lavoro e rimettersi in gioco professionalmente. L'altro riguarda l’azienda, che deve essere in grado di accogliere una paziente che necessita, per esempio, di cure e controlli reiterati nel tempo, soprattutto in caso di tumore al seno metastatico”. Purtroppo “non tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro sono uniformi nel tutelare questi aspetti. Da parte nostra, con ‘TrasformAzione’ aiutiamo le pazienti ad attivarsi al meglio nella ricerca attiva del lavoro, dalla stesura del curriculum vitae alla gestione del colloquio, ma non solo: le donne vengono affiancate anche nell’analisi delle proprie aspettative, competenze e aspirazioni professionali. Il percorso prevede poi un colloquio con uno psicologo del lavoro e la conoscenza dei propri diritti in ambito lavorativo; viene anche messa a disposizione delle partecipanti, una volta alla settimana per un certo numero di ore, la consulenza gratuita di un giuslavorista”.

Recentemente, “per far conoscere questa opportunità a sempre più pazienti - aggiunge D’Antona - abbiamo preparato per le sale d’attesa di grandi ospedali, come l’Ieo di Milano, un piccolo video dove viene raccontato il progetto Trasformazione e come aderire. Questo percorso fino ad ora ci ha dato molte soddisfazioni. Almeno 150 donne ne hanno già beneficiato con risultati molto soddisfacenti, perché finalmente sono passate da uno stato mentale (mindset) di ‘paziente’ a quello di ‘candidata’, mettendo in moto un meccanismo fondamentale di desiderio e partecipazione alla vita. Non è un grandissimo numero, ma insieme ai riconoscimenti internazionali che questo progetto ha ricevuto - conclude - ci dà la conferma che oggi il lavoro è un elemento davvero importante, complementare al percorso terapeutico”. Approfondimenti sul tema sono disponibili nel sito ‘E’ tempo di Vita’, etempodivita.it ) e sui canali Facebook e Instagram.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Salute e Benessere

Schillaci, cancro al colon: casi in aumento, i segnali...

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E' l secondo carcinoma più diffuso nel nostro Paese, con oltre 48mila diagnosi nel 2022

Una corsia d'ospedale

In Italia i casi di tumore al colon retto, la malattia che ha colpito Salvatore Schillaci morto oggi a 59 anni, "sono in aumento": è il secondo carcinoma più diffuso nel nostro Paese, con oltre 48mila diagnosi nel 2022 e una mortalità stimata di 21.700 decessi nel 2021 (dati Aigo), "e purtroppo l'adesione degli agli screening non è alta, mentre la prevenzione è la strada per anticipare questa malattia e proprio chi sta bene deve fare prevenzione. La tragica scomparsa di Totò Schillaci deve far capire quanto non deve essere sottovalutato questo tumore e l'importanza dei test". Così all'Adnkronos Salute Maria Di Paolo, consigliere nazionale dell'Aigo (Associazione italiana gastroenterologi ed endoscopisti digestivi ospedalieri).

"Quando c'è la comparsa di sangue nelle feci, associata ad un calo di peso, deve scattare la prima sirena d'allarme - spiega la specialista - quindi fare il test del sangue occulto nelle feci e procedere poi con la colonscopia. Quello che vediamo in ospedale, invece, è che quando si scopre il sangue nelle feci si fa passare del tempo prima di arrivare allo screening - sottolinea Di Paolo che lavora al Ao San Giovanni di Roma - Se il sangue è visibile si deve fare un'indagine di secondo livello come la colonscopia". Se invece si ha una familiarità con il tumore del colon, con adenomi o polipi, "la colonscopia va anticipata ai 40 anni e se c'è un parente di primo grado con la malattia scoperta da giovane si deve anticipare la prevenzione", rimarca la gastroenterologa.

"La grande forza dello screening - conclude - è poter interrompere il passaggio dalla lesione con potenzialità cancerogene allo sviluppo del tumore. Se si anticipa questo passaggio, si può intervenire e rimuovere il tumore con una sopravvivenza molto alta. Una lesione ci mette 7-10 anni a sviluppare un tumore, il nostro obiettivo come specialisti è di non fare arrivare questi pazienti all'oncologo".

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Salute e Benessere

Sondaggio, declino cognitivo e demenza preoccupano 9...

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Oltre 1 mln con demenza e 600mila con Alzheimer

Sondaggio, declino cognitivo e demenza preoccupano 9 italiani su 10

In un'Italia che invecchia, i disturbi cognitivi e le demenze sono un'emergenza sociosanitaria crescente e sempre più temuta: 9 italiani su 10 sono preoccupati per se stessi o che un proprio caro possa soffrirne in futuro, temendo soprattutto la perdita di autonomia, l'isolamento e il carico emotivo ed economico sul nucleo familiare, anche a causa della carenza di servizi socio-assistenziali, paventata da oltre il 70% di cittadini. Sono alcuni dei dati emersi da un'indagine realizzata dall’istituto di ricerche 'Emg Different' su un campione di mille italiani tra i 24 e i 75 anni, che ha indagato il livello di conoscenza su declino cognitivo e demenza, portando all'attenzione percezioni e bisogni informativi dei cittadini. La ricerca è stata presentata oggi a Milano nel corso dell'evento 'Declino cognitivo e demenza: quanto ne sappiamo, cosa stiamo facendo e quale impatto sulla società e sul Servizio sanitario nazionale', promosso da Neopharmed Gentili nel mese dedicato all'Alzheimer, la forma più diffusa di demenza, di cui ricorre la Giornata mondiale il 21 settembre.

Nel nostro Paese - si legge in una nota - il declino cognitivo e la demenza interessano 2 milioni di pazienti e, di riflesso, 4 milioni di caregiver. Si stima che oltre 1 milione di persone soffrano di demenza (di cui 600mila con malattia di Alzheimer) e altre 900mila siano affette da declino cognitivo live, conosciuto anche con l'acronimo inglese Mci (Mild Cognitive Impairment). Si tratta di una condizione clinica caratterizzata dal peggioramento in uno o più domini cognitivi (memoria, attenzione, linguaggio) che non compromette le normali attività quotidiane, ma su cui è necessario agire tempestivamente perché in circa il 50% dei casi progredisce in demenza nell'arco di 3 anni.

Una sfida, dunque, da affrontare con diagnosi precoci e interventi mirati, ma anche promuovendo la conoscenza e la lotta allo stigma sociale. Gli italiani sono concordi (93%) sulla necessità di una maggiore informazione sull'argomento: nonostante la crescente sensibilità sui disturbi cognitivi, che per il 97% della popolazione costituiscono un grave problema per le famiglie e per la società, quasi 1 italiano su 2 (46%) dichiara di non sapere che la prevenzione è un'alleata per contrastare il declino cognitivo, e solo il 29% è consapevole della possibilità di intervenire sul decorso della malattia con trattamenti adeguati. Da non sottovalutare anche l'impatto della demenza sulla spesa sanitaria, che per il 63% è totalmente a carico delle famiglie. "Con l'aumento dell'aspettativa di vita, la demenza è destinata ad acquisire sempre più rilevanza - afferma Camillo Marra, presidente Sinfem, associazione autonoma aderente alla Società italiana di neurologia per le demenze - Oggi ne soffre il 7% della popolazione over 60 e la percentuale sale al 30% negli over 85. Intervenire preventivamente nelle forme di precliniche di demenza è cruciale per contrastare la progressione della malattia".

E' stato evidenziato che "un intervento su tutti i fattori di rischio modificabili, tra i 40 e i 60 anni - continua Marra - potrebbe ridurre del 40% l'evoluzione del declino cognitivo lieve in demenza. Ciò vuol dire agire su fumo, alcol, sedentarietà, diabete, ipertensione, dislipidemie, ma anche sugli aspetti legati alla socialità. L'ipovisione e la perdita di udito non riconosciute in età adulta sono altri fattori di rischio da non sottovalutare. Ma la 'vera' prevenzione inizia sui banchi di scuola, riducendo il tasso di abbandono scolastico per agire su un fattore chiave di protezione rappresentato dal livello culturale: più siamo istruiti, infatti, più siamo in grado di alimentare la riserva cognitiva per quando saremo anziani. Anche sul fronte terapeutico, più si interviene in fase precoce, anche limitatamente ai trattamenti oggi disponibili, meglio si riesce a modificare il decorso della malattia".

All'esordio del disturbo cognitivo la persona è autonoma, può continuare a lavorare, guidare e svolgere le attività abituali, anche se inizia a mostrare segnali che dovrebbero rappresentare dei campanelli d'allarme. Tuttavia, a fronte di un'ampia consapevolezza dei sintomi, riscontrata in oltre il 90% degli intervistati, non sempre risulta facile percepirli su se stesso o su un proprio caro. "Il declino cognitivo lieve è un quadro clinico da attenzionare al massimo - spiega Alessandro Pirani, rappresentante della Simg (Società italiana si medicina generale) al tavolo permanente Demenze del ministero della Salute - perché rappresenta la fase della diagnosi precoce e coinvolge in prima persona il medico di medicina generale. Il disturbo delle capacità di memoria è il segnale più eclatante, ma spesso viene ignorato o sminuito a causa dello stigma che lo 'relega' a un normale aspetto dell'invecchiamento. Altri campanelli d'allarme sono la comparsa di depressione, cambiamenti del carattere, la tendenza a perdere il filo del discorso. Inoltre, nella progressione della malattia, compaiono i disturbi del comportamento: insonnia, oppositività (il paziente non mangia, non si lascia lavare), aggressività fisica e verbale. La stabilizzazione di questi sintomi, che causano forte stress emotivo nei familiari, è un obiettivo assistenziale prioritario e decisivo ai fini della gestione del paziente al domicilio".

Le ripercussioni sul nucleo familiare sono tra le principali preoccupazioni degli italiani: per oltre il 90% degli intervistati, prendersi cura di un paziente affetto da disturbo cognitivo è fonte di stress e influisce sull'economia e sulla socialità di tutta la famiglia. "La demenza non è una condizione da accettare con rassegnazione - avverte Piero Secreto, componente Comitato tecnico-scientifico per le linee guida 'Diagnosi e trattamento di demenza e Mild Cognitive Impairment' - Serve un impegno condiviso, anche sul piano dell'informazione all'opinione pubblica, per superare i pregiudizi verso le persone anziane e combattere lo stigma sociale che ancora accompagna la malattia".

La linea guida "riempie un vuoto culturale rispetto alla possibilità di attuare una serie di interventi che riguardano la diagnosi, il trattamento, l'assistenza e il supporto ai pazienti, per metterli nelle condizioni di conservare una buona qualità di vita. Una novità rispetto alle linee guida internazionali - precisa Secreto - ha riguardato l'inserimento del declino cognitivo lieve accanto alla demenza, a conferma del valore di un intervento precoce sull'evoluzione della malattia e sul benessere complessivo del paziente". Assistere una persona con demenza "è un impegno gravoso che ricade quasi per intero sul nucleo familiare, sul piano psicofisico, sociale ed economico - sottolinea Donatella Oliosi, presidente associazione Diana onlus, associazione diritti non autosufficienti - ed è comprensibile che questo sia uno degli aspetti che più preoccupa gli italiani rispetto all'eventualità che la malattia possa colpire un proprio caro. Questo perché, pur rientrando nella competenza del Servizio sanitario nazionale, in quanto malati cronici, le famiglie non ricevono sufficienti prestazioni e adeguati sostegni dai servizi sanitari territoriali: in molti casi i centri diurni rappresentano un sollievo per le famiglie, ma andrebbero dimensionati sul reale fabbisogno, così come dovrebbe essere garantito in maniera uniforme l'accesso in struttura per quei pazienti che non possono più essere assistiti al domicilio. I malati e le famiglie devono essere accolti e accompagnati nella presa in carico di competenza del Servizio sanitario nazionale".

Attualmente "il 64% dei pazienti con demenza non risulta in carico presso strutture sociosanitarie - puntualizza Paolo Sciattella, farmacoeconomista dell'Università degli Studi Tor Vergata di Roma - Un dato che dà la misura dell'onere della malattia sulle famiglie dei pazienti, non solo sul piano assistenziale, ma anche economico. Circa il 63% dei costi per la gestione e il trattamento dei pazienti è completamente a carico del paziente (spesa out-of-pocket), pari a 14,8 miliardi di euro su una spesa totale annua complessiva di 23,6 miliardi di euro. A ciò si aggiungano i costi indiretti legati alla perdita di produttività dei caregiver, quantificati in 4,9 miliardi di euro, che interessano prevalentemente i pazienti non istituzionalizzati".

Il mese dedicato all'Alzheimer costituisce "un'importante occasione - dichiara Daniela Rossi, condirettore generale di Neopharmed Gentili - per accendere i riflettori sul declino cognitivo e la demenza, patologie che meritano un'attenzione particolare per l'impatto che hanno sulle famiglie e per l'alto livello di complessità assistenziale. L'impegno di Neopharmed Gentili è volto a migliorare la qualità di vita delle persone, anche e soprattutto durante l'invecchiamento. Per questo crediamo sia essenziale promuovere la consapevolezza dei cittadini, informarli sull'importanza della prevenzione e della diagnosi precoce e scardinare i pregiudizi che allontano i pazienti dal loro percorso di cura, trasferendo un messaggio di vicinanza, inclusione e fiducia per una migliore qualità della vita".

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Salute e Benessere

Ieo, anticorpi coniugati svolta contro il cancro al seno...

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Ieo, anticorpi coniugati svolta contro il cancro al seno metastatico

Una svolta contro il cancro al seno metastatico. Così l'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano presenta i risultati di uno studio internazionale coordinato da Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione Nuovi farmaci per terapie innovative dell'Ieo e presidente eletto dell'Esmo (Società europea di oncologia medica), "destinato a cambiare la pratica clinica nella cura delle metastasi dei tumori del seno più diffusi", quelli positivi ai recettori ormonali (Hr+), che rappresentano il 70% del totale. Gli autori del lavoro - pubblicato sul 'New England Journal of Medicine' - hanno infatti dimostrato che per questo tipo di neoplasie "l'utilizzo dell'anticorpo coniugato trastuzumab deruxtecan dopo la terapia ormonale standard per le fasi iniziali migliora la sopravvivenza libera da progressione" di malattia, "rispetto alla chemioterapia, e riduce il rischio globale di progressione e morte. Trastuzumab deruxtecan si conferma come nuova opzione di trattamento, fra terapia endocrina e chemioterapia, capace di aumentare il periodo senza malattia in media di 5 mesi".

"Questo studio - afferma Curigliano - è una pietra miliare verso la definizione di terapie efficaci per i tumori della mammella positivi per i recettori per estrogeni (Er+) metastatici e basso livello di espressione di" recettore "Her2 (Her2 low). Per le pazienti è una svolta perché la parola stessa 'metastasi' farà meno paura e aderiranno alle cure con più fiducia. Con la giusta sequenza di terapie, la cronicizzazione della malattia metastatica è oggi un obiettivo raggiungibile".

Attualmente - ricorda una nota dell'Irccs fondato da Umberto Veronesi - dopo la terapia endocrina nelle fasi iniziali lo standard di cura è la chemioterapia, i cui benefici non sono notoriamente soddisfacenti. La possibilità di svolta è nata pochi anni fa dagli anticorpi coniugati, nuovi farmaci mirati composti da un anticorpo in grado di riconoscere i recettori per Her2, coniugati a molecole di chemioterapico. In sostanza, l'anticorpo riconosce i recettori, penetra nella cellula tumorale e rilascia la carica distruttiva del chemioterapico, agendo come un cavallo di Troia. Uno di questi farmaci è trastuzumab deruxtecan, molecola capace di legarsi ai recettori Her2, anche se solo debolmente espressi dalla cellula tumorale. Il farmaco viene già utilizzato nel tumore al seno metastatico, ma come seconda linea di trattamento, dopo la chemioterapia. Nello studio appena pubblicato (Destiny-Breast06), gli autori hanno valutato l'utilizzo dell'anticorpo coniugato subito dopo la terapia endocrina, evitando il trattamento chemioterapico.

"I risultati sono stati straordinari", assicurano dall'Ieo. "Nello studio - evidenzia Curigliano - le pazienti con tumore della mammella metastatico Hr+, Her2 low e Her2 ultralow trattate con trastuzumab deruxtecan dopo terapia endocrina hanno vissuto più a lungo (in media 5 mesi in più) senza progressione o peggioramento della malattia, rispetto a quelle trattate con chemioterapia standard".

"Questo risultato - conclude lo specialista - cambia il modo di trattare il tumore del seno metastatico Hr+, perché utilizzando trastuzumab-deruxtecan più precocemente non solo otteniamo un trattamento più efficace, ma possiamo estendere la popolazione di pazienti che può averne i benefici".

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