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Cristiano Ronaldo: “Non pressiamo i nostri figli”, ma spesso succede anche tra i non vip

Cosa vuoi fare da grande? Il calciatore, come papà. Oppure, il medico, l’avvocato, il notaio, l’odontoiatra…basta che sia come papà, o come mamma.

In una recente intervista rilasciata al suo amico ed ex compagno di squadra Rio Ferdinand, Cristiano Ronaldo ha parlato del suo rapporto con i figli, in particolare con il primo genito, Cristiano Ronaldo Junior. Dopo aver riconosciuto con orgoglio la competitività dei suoi figli, la stella portoghese ha invitato a non mettere troppa pressione su di loro solo perché figli di persone famose.
Una riflessione buona, in realtà, anche per chi Vip non è: tanti genitori ‘pretendono’ (a volte anche senza virgolette) che i loro figli abbiano una carriera come la propria, che facciano successo in un determinato campo, senza chiedersi quali siano le conseguenze di questa pressione sulla salute dei figli.

Cristiano Ronaldo e la pressione sui figli

Le parole pronunciate dal campione portoghese a TheFiveUk sono un monito per tutti i genitori: “Ero sul Mar Rosso un paio di giorni fa, giocando a padel tutti i giorni. Capita che io e Cristiano Jr ci arrabbiamo, non parliamo per un paio di giorni. Ecco perché sono felice, anche il piccolo Matteo sta diventando competitivo, mi piace. Dimostra che hanno personalità”. Opinabile? Decisamente.

Il 14enne Cristiano Jr sembra aver ereditato la passione del padre e gioca nelle giovanili dell’Al Nassr, in Arabia Saudita, la stessa di Cristiano Ronaldo ‘senior’. Nonostante l’attenzione di Cr7 nel non mettere troppe pressioni sul figlio, il ragazzo sta seguendo non solo la carriera del padre, ma anche le squadre in cui gioca: ha giocato anche nelle giovanili della Juventus e del Manchester United.

Cristiano Ronaldo Jr. nell’Under 9 della Juventus_fotogramma

Eppure, a quell’età non è facile avere le idee chiare su cosa fare da grande, neanche se si è figli di Cristiano Ronaldo. Anzi, la straordinaria carriera del cinque volte Pallone d’Oro potrebbe orientare le scelte prima ancora che i tempi siano maturi. Lo stesso vale per qualsiasi genitore che svolge un lavoro economicamente e socialmente apprezzato.

“In questo momento – continua l’attaccante dell’Al Nassr – Cristiano vuole diventare un calciatore, ma non gli metto troppa pressione. Ha 14 anni, ha già la pressione di essere il figlio di Cristiano Sr. Lasciamogli fare i suoi errori, ma spero che in futuro possa essere un giocatore professionista. Se non diventa un giocatore, forse farà un altro lavoro, ma lo sosterrò sempre. Non possiamo fare pressione sui nostri figli perché siamo famosi”.

Peccato che questo succeda ancora troppo spesso anche tra la gente comune.

L’impatto delle aspettative genitoriali sulla salute mentale

Un’ampia ricerca condotta dalla American Psychological Association ha rilevato che il 40% dei giovani che percepiscono una pressione costante da parte dei genitori sviluppa sintomi di ansia o depressione. Questi sintomi, collegati al desiderio di non deludere le aspettative, portano spesso a una riduzione dell’autostima e a un aumento dei livelli di stress. Non solo i genitori, spesso è la società stessa, il confronto con gli altri, il foglio bianco sulla scritta futuro a deprimere i giovani.

Uno studio del Journal of Child Psychology and Psychiatry ha confermato che circa il 30% dei bambini che si sentono sotto pressione manifesta ansia da prestazione, con particolare incidenza tra gli atleti e i giovani impegnati in competizioni accademiche o artistiche​. Molti giovani atleti hanno dichiarato di sentirsi costantemente spinti a raggiungere standard irrealistici dai propri genitori, entrando in un circolo vizioso di stress e frustrazione.

Carriere influenzate dalle pressioni familiari

Il tema delle pressioni familiari diventa ancora più complesso quando si parla di scelte di carriera. Secondo uno studio del Child Development Journal, il 60% dei figli di genitori celebri sente di dover seguire le orme dei propri genitori, anche se solo il 35% di loro è realmente interessato a quel campo. Questo scontro tra aspettative e desideri personali può portare a una mancanza di autenticità nelle scelte professionali e a una maggiore insoddisfazione.

La conferma più lampante arriva dalla University of Michigan, che in uno studio ha evidenziato che i giovani che seguono carriere imposte dai genitori mostrano un tasso di insoddisfazione professionale del 45%, contro il 28% di quelli che scelgono autonomamente il proprio percorso.

La situazione in Italia

In Italia, la pressione delle aspettative genitoriali è altrettanto rilevante. Secondo una ricerca del Centro Studi Censis, circa il 40% dei giovani italiani che provengono da famiglie di successo sente l’obbligo di seguire la stessa carriera dei genitori, anche se solo il 20% di loro ha un reale interesse per quel campo. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel settore legale e medico, dove molti figli di avvocati e medici si sentono costretti a intraprendere le stesse professioni.

In aggiunta, un’indagine condotta dall’Università di Bologna ha rivelato che il 35% dei giovani italiani che seguono carriere imposte dai genitori sviluppa sintomi di ansia o depressione entro i primi cinque anni di lavoro. Il 45% di loro ha ammesso di provare un forte conflitto interiore, diviso tra il desiderio di soddisfare le aspettative familiari e la volontà di perseguire i propri interessi.

Quella appena descritta è una realtà tanto persistente da trovare spazio nel cinema, come accade nella brillante commedia “Se Dio vuole” scritta e diretta da Edoardo Falcone. Tommaso De Luca (interpretato da Marco Giallini) è un affermato cardiochirurgo, felice della sua vita fin quando suo figlio Andrea, studente di Medicina, rivela di voler diventare sacerdote. Un duro colpo per il padre, che ancor prima di sapere che il figlio abbandonerà definitivamente gli studi, si chiede ad alta voce: “Ma perché buttare la propria vita a fare il prete? Il prete è un mestiere anacronistico, sarebbe come fare lo spazzacamino, l’arrotino, lo zampognaro. Io non lo voglio un figlio zampognaro!”. Un momento di rabbia e delusione, magistralmente interpretato da Marco Giallini che racconta uno spaccato di vita sociale.

Le pressioni sociali e la società dell’immagine

Il problema delle pressioni genitoriali non riguarda solo le famiglie celebri, ma riflette una più ampia tendenza sociale a glorificare il successo e le performance. Un rapporto della World Health Organization ha sottolineato che il 70% dei giovani in Europa vive in contesti familiari che esaltano il successo accademico o professionale come misura principale di realizzazione personale. Questa visione riduttiva del successo, centrata sulla performance, può creare un ambiente soffocante per le nuove generazioni, già alle prese con un futuro incerto.

Secondo il Global Health Journal, un ambiente familiare più inclusivo e supportivo ridurrebbe i rischi di stress e ansia del 30%, migliorando notevolmente la salute mentale dei giovani e consentendo loro di fare scelte di carriera più consapevoli e autentiche. Possiamo scegliere da che parte andare.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Vincent Cassel papà per la quarta volta: ma quali sono i...

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Vincent Cassel, 57 anni, diventa papà per la quarta volta. A dare il dolce annuncio è la fidanzata Narah Baptista, 27 anni, che con una foto sui social ha fatto sapere della gravidanza.

La modella brasiliana ha condiviso su Instagram le prime foto col pancione scrivendo: “Mamma ti aspetta. Fotografie scattate dalla nonna”. L’attore ha risposto con un dolce “Sono fortunato ad averti nella mia vita”. I due sono legati da poco più di un anno. E se per la modella è la prima gravidanza, per Cassel è la quarta volta.

L’attore è già padre di tre figlie, Deva e Leonie, rispettivamente 20 e 14 anni, nate dal matrimonio con Monica Bellucci. Poi cinque anni fa, con la seconda moglie Tina Kunakey, altrettanto 27enne, è venuta al mondo Amazonie.

E mentre l’attore diventerà papà per la quarta volta, c’è qualche collega che ha ampiamente superato questo record. Scopriamo alcuni dei papà vip “più proliferi”.

I papà vip più proliferi: ieri e oggi

Se prendessimo esempio da questi papà famosi, il problema della denatalità sarebbe estinto. Quantomeno non si può dire che non abbiano contribuito alla messa al mondo di un numero di figli tale sufficiente a mantenere alto il ricambio generazionale (almeno quello delle proprie famiglie). Perché mentre il tasso di natalità crolla a picco, alcune personalità dello showbiz hanno fatto la differenza e sono passate alla storia per essere dei papà proliferi, maternità surrogate incluse.

Di un’altra epoca, ma un evergreen della genitorialità rinomata per la quantità, c’è Marlon Brando. L’attore, noto per la sua tumultuosa vita privata, sia con partner maschili che con quelli femminili, ha messo al mondo e riconosciuto 12 figli, avuti da tre mogli diverse e donne sconosciute al grande pubblico e ne ha adottati altri tre, per un totale di 15.

Elon Musk, il miliardario fondatore di Tesla e SpaceX, ha 12 figli da diverse relazioni. L’imprenditore, di quasi 53 anni, ha accolto il terzo figlio con la compagna attuale Shivon Zilis, di 38 anni, lo scorso giugno.

A seguire, Eddie Murphy, con i suoi dieci figli: i primi due, li avuti da due donne diverse, sono nati prima di sposare la modella Nicole Mitchell, dalla quale ne ha poi avuto altri cinque. Dopo il divorzio nasce Angel Iris, riconosciuta grazie al test del Dna, dalla relazione con la Spice Girl Mel B. Infine, ha avuto gli ultimi due figli dalla modella Paige Butcher.

Ma c’è anche, Mel Gibson con i sette figli, tutti nati dalla stessa madre, l’infermiera Robyn Moore, con cui il matrimonio è durato ben 26 anni e poi altri due figli, una avuta dalla musicista russa Oksana Grigorieva, e l’ultimo con la sceneggiatrice televisiva Rosalind Ros.

Rimanendo in tema non si possono non considerare altrettanto “proliferi” anche gli attori Robert De Niro, Brad Pitt e Jude Law. Tutti e tre hanno in comune le carriere costellate di successi e sei figli, nel caso di Pitt, tre adottati insieme alla moglie e collega Angelina Jolie.

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Papà-vip italiani

Spostandoci in Italia, invece, celebri sono diventate le parole dell’attore Christian De Sica che sul padre Vittorio ha dichiarato: “Mio padre ci ha lasciato in eredità anche la scoperta di numerosi fratelli e sorelle nascoste. La mia non era una famiglia, ma una cooperativa. Gli uomini erano maschilisti e lui era innamorato di tutte quelle donne”. Dalla stessa mamma è nato il fratello Manuel De Sica, mentre da altre donne, Vittorio De Sica ha avuto Emiliana De Sica e Vicky Lagos. Gli altri figli ai quali ha alluso Christian non sono noti al grande pubblico.

Non è un attore, ma è famoso in tutta Italia per la sua musica: Gigi D’Alessio, negli scorsi giorni sul palco dell’Arena di Verona, al Tim Music Awards, ha risposto in modo ironico al conduttore Carlo Conti sul numero di figli messi al mondo fino ad oggi. Napoletano, 57 anni, il cantante ha in totale sei: ha avuto Claudio, Ilaria e Luca dal matrimonio con Carmela Barbato, poi Andrea dalla relazione con Anna Tatangelo e Francesco e Ginevra, nati dall’amore con la fidanzata Denise Esposito.

E sempre in tema musica, c’è Roby Facchinetti dei Pooh con i suoi cinque figli e Al Bano Carrisi con i suoi sei figli. Mentre, nel mondo dello sport c’è Antonio Cassano che ne ha avuti cinque.

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Valditara: “Smartphone armi di distruzione di massa”, sono...

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Gli smartphone sono “un’arma di distruzione di massa”. Non ha dubbi il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che ha lanciato l’allarme a ‘Porta a Porta’, su Rai 1.
“Circa 50mila ragazzi hanno abbandonato la scuola per rifugiarsi in un mondo virtuale fatto di cellulari e social media, isolandosi per mesi nelle proprie stanze”, ha detto il ministro collegando l’uso degli smartphone al fenomeno degli hikikomori.

Questi sono i primi giorni di scuola senza cellulare in classe per bambini e ragazzi fino ai 14 anni “anche per l’uso didattico”, come stabilito dal dicastero in estate. Molti genitori hanno apprezzato l’iniziativa di Valditara, soddisfatto della risposta ottenuta: “La reazione del mondo della scuola è stata molto positiva. I ragazzi, con grande senso di responsabilità, e i genitori, entusiasti e al 90% favorevoli, hanno capito che ci stiamo prendendo cura di loro e che abbiamo a cuore la loro salute”, ha detto il ministro, convinto che la scuola debba “insegnare a guardarsi negli occhi”.

Il contatto umano è proprio quello che preoccupa Valditara, che promuove una grande campagna di sensibilizzazione contro l’abuso di smartphone e social network: “Dare un cellulare in mano a un bambino di 7-8 anni può avere effetti devastanti”, denuncia il ministro per cui l’educazione digitale deve partire dalle case e dalle scuole italiane.

Il ministro Valditara vuole portare la crociata anti-smartphone fuori dai confini nazionali: “Ho incontrato la ministra dell’istruzione di Cipro che ha molto apprezzato la decisione di vietare il cellulare a scuola. Abbiamo pensato di preparare un documento da sottoporre a Bruxelles a tutti i ministri dell’Istruzione sul tema, anche perché alcuni Stati come la Francia, l’Olanda, la Svezia, già si sono avviati in questa direzione e credo che raggiungeremo facilmente, credo, un forte consenso”, ha aggiunto.

Smartphone e hikikomori, che relazione c’è?

Se ne sta parlando solo negli ultimi anni, ma il termine ’hikikomori’ è stato coniato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki già negli anni ‘80.
Forma italiana del nipponico 引き籠もり o 引きこも, deriva dalla fusione delle parole “hiku”, “tirare”, e “komoru”, “ritirarsi” o “chiudersi”. Quindi, un hikikomori è una persona che ha scelto di limitare fortemente o eliminare del tutto la propria vita sociale, preferendo tattiche di ‘autoreclusione’. Un hikikomori rifiuta il contatto con le persone dentro e fuori casa; quando vuole comunicare lo fa indirettamente, usando gli smartphone o il pc.

Negli ultimi anni, il fenomeno si sta espandendo anche in Occidente, dove sempre più adolescenti e giovani adulti scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, scolastica o lavorativa per periodi prolungati, generalmente superiori a sei mesi.

Gli hikikomori in Italia

Negli ultimi anni, il fenomeno hikikomori ha mostrato un incremento preoccupante accelerato dal lockdown. In Italia, recenti studi hanno identificato circa 66.000 casi tra gli studenti, con una prevalenza nella fascia di età 11-13 anni. Se consideriamo anche le fasce di età più alte, le stime suggeriscono che in Italia potrebbero esserci tra i 100.000 e i 200.000 hikikomori.

Il Ministro Valditara ha espressamente collegato l’uso degli smartphone a questo fenomeno di autoesclusione sociale. È indubbia la relazione tra le due situazioni, meno chiara è la direzione: gli smartphone sono una causa del fenomeno o un mezzo di comunicazione utilizzato dopo la scelta di recludersi?

Molti di loro utilizzano il web come unica forma di comunicazione con il mondo esterno, preferendo le interazioni virtuali al contatto diretto. Tuttavia, è importante notare che l’abuso delle tecnologie non è la causa principale di questa condizione; piuttosto, può essere visto come una conseguenza del ritiro sociale e un facilitatore del fenomeno. Gli hikikomori spesso sviluppano una dipendenza da Internet e dai videogiochi come modo per affrontare l’isolamento, ma ciò non significa che la tecnologia sia la causa scatenante del loro disagio.

Hikikomori: è una malattia?

Il fenomeno degli hikikomori è un argomento di crescente interesse nella comunità scientifica, che sta cercando di inquadrarlo all’interno delle patologie psichiatriche. Sebbene non sia ufficialmente riconosciuto come una diagnosi nel DSM-5, (che classifica i disturbi mentali in diverse categorie) molti esperti lo considerano un disturbo a sé stante, caratterizzato da un isolamento sociale prolungato e volontario.

La scienza ha iniziato a sviluppare criteri diagnostici per l’hikikomori. Secondo una revisione recente, i criteri includono un ritiro dalla vita sociale per almeno sei mesi, il rifiuto di attività scolastiche o lavorative, e l’assenza di altre patologie psichiatriche che possano spiegare il comportamento. Questo approccio è stato proposto anche dal governo giapponese, che ha riconosciuto la rilevanza sociale del problema e ha delineato i criteri necessari per la diagnosi.

Conseguenze a lungo termine

In alcuni casi, il ritiro sociale può restare una parentesi buia nella vita dell’individuo, in altre può avere conseguenze gravi e durature. Gli hikikomori possono sperimentare un deterioramento delle loro capacità sociali e professionali, rendendo difficile il reinserimento nel mondo esterno.

La letteratura suggerisce che molti hikikomori possono rimanere isolati per anni e, una volta tentato il reinserimento, possono avere difficoltà nel trovare lavoro o stabilire relazioni sociali.

Inoltre, l’autoisolamento può portare a problemi di salute mentale aggiuntivi, come depressione e ansia (che già affliggono la metà dei giovani italiani), creando un circolo vizioso difficile da rompere.

Studi recenti hanno evidenziato l’importanza di un intervento precoce. La telepsichiatria si sta dimostrando una modalità promettente per raggiungere questi giovani attraverso i loro dispositivi digitali, permettendo ai professionisti della salute mentale di fornire supporto anche a distanza senza che ci sia un forte rifiuto dell’individuo. Tuttavia, la mancanza di una definizione chiara e condivisa del fenomeno complica gli sforzi terapeutici e di ricerca.

Il fenomeno degli hikikomori è complesso e richiede un approccio multidisciplinare per affrontarne le cause e le conseguenze. La comunità scientifica continua a esplorare questo tema, con l’obiettivo di sviluppare strategie efficaci per supportare i giovani in difficoltà.
Nel frattempo, sempre più governi decidono di limitare l’uso degli smartphone e dei social agli adolescenti, come fatto dal Ministro Giuseppe Valditara.

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Viagra, cosa succede se lo prende una donna?

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E se a prendere il Viagra fossero le donne? Un recente studio clinico ha rivelato che l’uso del Sildenafil, comunemente noto per il trattamento della disfunzione erettile e commercialmente noto come Viagra, potrebbe ridurre il rischio di parto cesareo d’emergenza.

La ricerca, pubblicata sul Journal of Reproduction e Infertility, ha mostrato che il farmaco è in grado di aumentare il flusso sanguigno uteroplacentare. Ciò contribuirebbe alla diminuzione del 51% del rischio di complicazioni legate alla sofferenza fetale durante il travaglio.

Sofferenza fetale e parto cesareo

La sofferenza fetale (Fd) è uno dei principali segnali di pericolo per la morte intrauterina (Iufd) e rappresenta una delle principali cause di parto cesareo d’emergenza. In Paesi come Australia, Stati Uniti e Regno Unito, si legge nella ricerca, dal 23% al 27% dei parti cesarei avviene in risposta a questo stato critico del feto. La causa principale è la riduzione del flusso sanguigno uterino durante il travaglio, che può scendere fino al 60%, mettendo in serio pericolo la salute del feto.

Attualmente, l’unico trattamento efficace per evitare danni permanenti è il cesareo d’emergenza, che tuttavia comporta rischi significativi sia per la madre che per il neonato, inclusi morbilità materne (cioè l’insieme di patologie che una donna può avere in gravidanza) e problemi neonatali. Da qui, l’importanza di identificare soluzioni sicure per prevenire tali interventi. E il Viagra sembra essere una di queste.

Il ruolo del Sildenafil: vasodilatazione e riduzione del rischio

Il Sildenafil o Viagra, agisce come vasodilatatore, migliorando il flusso sanguigno verso l’utero e il feto. La ricerca ha analizzato il suo potenziale per migliorare la perfusione utero placentare, prevenendo l’ipossia e la sofferenza fetale. Il dottor Milani che ha condotto lo studio e il suo team hanno scoperto che usare il Viagra durante il travaglio ha portato a una riduzione significativa dei casi di cesareo d’emergenza, passando dal 26% nel gruppo di donne che non lo assumevano al 12,5% nel gruppo trattato col farmaco.

“Questo studio dimostra che il Sildenafil può essere un’opzione farmacologica semplice ed efficace per ridurre il rischio di sofferenza fetale, evitando così interventi chirurgici d’emergenza”, hanno spiegato i ricercatori. “I risultati sono particolarmente incoraggianti poiché non abbiamo riscontrato effetti collaterali significativi legati al farmaco”.

La metodologia dello studio

Lo studio condotto nel Reproductive Health Research Center, del Department of Obstetrics and Gynecology, della School of Medicine, Al-Zahra Hospital, Guilan University of Medical Sciences di Rasht è stato condotto tra luglio e settembre del 2022 e ha coinvolto 208 donne in gravidanza. Le partecipanti, di età compresa tra 18 e 40 anni, sono state suddivise in due gruppi: il gruppo Sildenafil ha ricevuto dosi da 50 milligrammi ogni sei ore, mentre il gruppo di controllo ha ricevuto un placebo.

Tutti i partecipanti sono stati monitorati durante il travaglio e i dati demografici e clinici sono stati raccolti attentamente per garantire la precisione dei risultati. L’obiettivo principale era valutare se il Sildenafil potesse ridurre il tasso di sofferenza fetale e di cesareo d’emergenza rispetto al gruppo di controllo.

Risultati

I risultati sono stati incoraggianti. Nel gruppo al quale è stato somministrato il Viagra, l’87,5% delle donne ha avuto un parto vaginale spontaneo, rispetto al 74% del gruppo placebo. Inoltre, i casi di sofferenza fetale sono diminuiti del 53,8% nel gruppo trattato.

Anche i neonati nati dalle donne del “gruppo Sildenafil” hanno mostrato punteggi Apgar (con i quali si misura la condizione motoria, respiratoria, muscolare ecc.) più alti, indicando una salute migliore alla nascita.

Turner ha aggiunto: “L’uso di Sildenafil non ha influenzato negativamente la durata del travaglio, né ha aumentato il rischio di emorragia postpartum, un dato che conferma la sicurezza del farmaco in questo contesto”.

Questo studio potrebbe rappresentare una svolta nella gestione del travaglio. Sebbene siano necessari ulteriori studi per confermare questi risultati, il Sildenafil si sta dimostrando un’opzione promettente per ridurre il numero di cesarei d’emergenza. Il team ha sottolineato l’importanza di ulteriori ricerche per comprendere appieno i benefici a lungo termine e gli eventuali rischi associati all’uso di Sildenafil durante il travaglio.

In conclusione, l’uso di Sildenafil offre nuove speranze per la gestione della sofferenza fetale, riducendo il rischio di interventi invasivi e migliorando gli esiti materno-fetali.

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